venerdì 15 febbraio 2013

COLEI CHE HA TANTE COSE DA DIRE

Colei che ha tante cose da dire. Se mi avessero battezzato con un nome pellerossa, questa sarebbe stata la traduzione del mio nome. 

Perché quando vedi qualcosa di importante e ti pare che a chi ti è intorno invece sfugga, non puoi tacere o fare a meno di indicare con il dito. 

E mi piego, ciò nonostante, alla trafila del devi passare di qui, del devi usare queste parole e non queste altre. Rinnego il mio sapere, sconfesso il mio sentire. Faccio abiura e chiedo beneplaciti e conferme. Non so affermarmi come animo pensante ma anch’io, maledetta, credo nella necessità di un nulla osta dall’alto. Di un deus ex machina che dichiari: Sì, anche lei è degna. 

 No! Io lo grido a gran voce: sono degna. Non c’è errore che possa commettere per il quale potrei non essere perdonata. Perché è l’anima che io metto. Sia altare o banchetto. 

Oh, ma a starsene in disparte, divora il dubbio d’aver smarrito la ragione. Smarrito il senso, buttato all’aria ogni cosa per ritrovarlo, non resta altra spiegazione che la follia. 

Individuo stanziale, che non va a vedere, che relega l’esperienza diretta al ruolo di ancella prepotente e fastidiosa, che fruisce del riverbero con il sopracciglio inarcato. Dove il pathos? Dove l’emozione e l’adrenalina che fanno fluire pensieri, parole, atti? Dove il coraggio e l’umiltà di andare al confronto e constatare che non è come si credeva, sconfessare il proprio credo o piuttosto avere conferma e maggiormente rinsaldarsi nei propri propositi? 
Ma non è necessario. Tutto non è che ripetizione. Il moto perpetuo. Di grandezze e meschinità. Nulla di nuovo, se non nella forma. 
Ecco dunque, far vivere il mondo ai propri occhi, interpretarlo nelle minime sfumature, rifletterlo, raccontarlo, standone lontani. Non solo immaginare, ma vedere con precisione da postazione fissa. 
 
La presunzione! Legittima della ragione. Col tempo però soltanto stampella e poi ferro morto. L’autunno degli intelletti. Cervelli disidratati. Che si accartocciano. Acquiescenza, narcosi, marcescenza. Abdicazione al disincanto. 

Ma io scrivo lo stesso. Scrivo per fare spazio. Convinta. Dal piccolo tinello, celletta d’alveare tellurico, con pazienza certosina, costruisco atomi. 

Ma, come per l’assassino di Roth, è la dimensione privata che sovrasta e conduce. E mangia. Mi mangia. E le parole muoiono una volta scritte. 

giugno 2010


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