sabato 21 gennaio 2023

RIFLESSIONI DI UN PERCETTORE DI REDDITO DI CITTADINANZA



«Mi chiamo Diego, ho cinquantasette anni, vivo in affitto in un bilocale a 400 euro, sono separato da sei anni, ho un figlio di nove che vive con la madre e sta con me nei giorni che decidiamo insieme in base alle necessità reciproche. Posseggo un auto del 2009 e un vecchio scooter con 64000 chilometri.

Nel 2017 ho avuto problemi di salute, peraltro non risolti, con ricoveri che per oltre un anno mi hanno tagliato fuori dal mondo del lavoro. Il primo ricovero è avvenuto d’urgenza alla vigilia della firma di un contratto finalmente a tempo indeterminato.


Nel 2019 ho iniziato la trafila presso il Collocamento (continuo a chiamarlo con il vecchio nome), sia con il percorso ordinario che con quello del collocamento mirato, e con le agenzie di somministrazione lavoro.


A oggi non ho trovato un impiego consono alle mie disabilità ma solo brevissimi contratti a termine o a chiamata, tutti accettati, con il risultato di spendere per trasferte e cibo metà della retribuzione, in molti casi non solo irrisoria ma offensiva. Nel mondo reale ci sono situazioni in cui, anche senza percepire alcun reddito di cittadinanza, si risparmia a star fermi. Soprattutto se non si vive più in famiglia in attesa di farsi una vita propria, si è superato il mezzo secolo, e si è considerati dal mercato del lavoro decisamente poco interessanti nonché parecchio problematici rispetto a un giovane.


La situazione attuale è che da sei mesi percepisco il reddito di cittadinanza. Non ne vado fiero, al contrario lo trovo umiliante ma non ho avuto alternative. Il reddito che ricevo si dilegua nei primi cinque, sei giorni. Affitto, una bolletta al giro, una spesa di un centinaio di euro che deve durare almeno fino al venti del mese e poi si vedrà, cinquanta euro di benzina. Senza questo aiuto finirei in strada, passando per un periodo di soggiorno in auto, fino alla scadenza dell’assicurazione della stessa. Comunque sia, benvenuto questo famigerato rdc. Ho un figlio cui devo garantire quel minimo di dignità abitativa e alimentare per poterlo accogliere decorosamente, senza fargli pesare, oltre al dispiacere per la separazione dei suoi genitori (per fortuna consensuale e senza recriminazioni), anche il disagio economico, quindi esistenziale, in cui mi trovo.


E con gli alimenti come fai? Domanderà legittimamente qualcuno. Rispondo dicendo che ci sono tante persone che mi stimano e una volta aiuto a riordinare una cantina, una volta do il bianco in una cucina o faccio piccole riparazioni da amici, insomma do una mano quando e dove capita. E, vi assicuro, non capita spesso, perché la fame è tanta e diffusa e la “concorrenza” non manca. Ricavo al massimo duecento euro al mese nei mesi buoni e giro questo denaro alla mia ex che lavora in una cooperativa di pulizie, abita in affitto, e non è che se la passi granché neppure lei.


Qui sopra ho scritto la parola concorrenza tra virgolette. L’ho fatto perché ormai ha messo radici profonde nel pensiero di tutti che ognuno di noi sia imprenditore di se stesso prima che cittadino.


Come gli autisti di Uber che si autosfruttano senza bisogno che lo faccia qualcun altro, perlomeno non direttamente.


Che se uno non ce la fa è perché non sa amministrare bene il proprio capitale umano, dicono. Dobbiamo pianificare, investire, essere flessibili, “ristrutturarci”, “delocalizzarci” esattamente come le grandi aziende. Insomma, Benetton e il sottoscritto, la stessa cosa.


Tornando al punto centrale, e cioè il percepire il reddito di cittadinanza (ancora per pochi mesi a quanto pare), ritrovarmi direttamente coinvolto in questa realtà assistenziale mi ha fatto riflettere sulla questione come prima, quando ne sentivo parlare, non avevo fatto. Mi limitavo a commenti generici quanto banali.


Premetto un paio di ovvie considerazioni.


Innanzitutto la misura sarebbe stata da gestire meglio, con controlli ad personam magari ad opera degli enti locali che meglio conoscono la realtà famigliare, economica e lavorativa dei propri concittadini, e un realmente efficace percorso di reinserimento lavorativo. Non quei quattro, con tutto il rispetto per loro, ragazzotti anche volenterosi ma troppo giovani per avere la necessaria esperienza del mondo reale per poter essere d’aiuto e ricoprire il ruolo di navigator (!). Quando non, proprio per l’assenza di esperienza di cui sopra, arroganti nel giudicare il cinquantenne dall’altra parte della scrivania che cerca di spiegare i motivi, per cui no, non è accettabile la proposta perché a cinquantanni e passa la mobilità non sempre è possibile. Le vite sono strutturate e ci sono responsabilità verso terzi, tempi da rispettare, assistenze da fare, ecc. Non è pigrizia, nessuna sindrome da sdraiati, tutt’altro.


E qui mi collego al secondo punto e senza voler essere demagogico. Se siete giovani e forti, se non avete altra responsabilità oltre a quella verso voi stessi sarebbe meglio faceste un po’ di sana gavetta adattandovi a lavori anche non corrispondenti alle vostre competenze e formazione. L’abbiamo fatto tutti e non è morto nessuno, anzi, spesso, ci si è chiariti le idee. Certo, oggi il mondo lavorativo è completamente diverso ma il principio non cambia. Non vuoi fare trecento chilometri per un’offerta di lavoro ridicola? Fai bene. Va’ a dare una mano in qualche campagna se ce n’è dalle tue parti, o cercati qualcosa nella tua zona, senza ovviamente farti sfruttare. Sto sponsorizzando il lavoro nero? No di sicuro. Ma se c’è solo quello che si fa? Il lavoro nero lo sponsorizza l’operato del governo con la politica lavorativa condotta, a dir poco, negli ultimi due decenni.


Un esempio tra i più noti? I voucher.


Nati dal buon intento, voglio credere, di far emergere una bella fetta di lavoro nero, sono stati invece soprattutto utilizzati da chi grazie a essi ha potuto evitare assunzioni regolari con contratti a tempo determinato. Al contrario, la signora anziana che ha bisogno di una mano a tirare giù le tende per le pulizie di Pasqua, l’altra che ha bisogno di essere accompagnata a fare visite mediche, quell’altra ancora che ti chiede di farle la spesa pesante due volte al mese, persone così, che pure vorrebbero metterti in regola perché per loro i contributi sono sacrosanti, come avrebbero potuto affrontare la farraginosità di attivazione dei voucher? E la persona che si presta allo svolgimento dei suddetti compiti per compensi modesti spesso ritoccati al ribasso in funzione di tante modeste pensioni, cosa vogliamo fare? La mandiamo al carcere duro come evasore fiscale e causa dei mali del Paese? Semplificare per non escludere, mai eh?


Gli unici commenti che si sentono, e che pretendono di essere risposte o soluzioni sono del tenore: Ma possibile che ancora qualcuno non sappia crearsi un account? Ma possibile che con tutta l’informazione che c’è non sappiano cos’è l’identità digitale, una pec, un allegato, uno smartphone? Ma tutti questi anziani che si lamentano di essere superati in coda alle Poste non sono capaci di scaricarsi l’app e prendere l’appuntamento anche loro? Ma possibile che non abbiano qualcuno che lo fa per loro? Un figlio, un nipote, qualcuno. Possibile che siano soli?


Nell’ordine le risposte sono: Sì. Sì. No. Sì. Sì


E le agenzie di lavoro interinale o somministrazione lavoro? Che ti mandano quindici giorni a sostituire uno in un cantiere navale, poi venti giorni a sistemare scaffali dei supermercati, poi non si fanno più sentire per un mese, quindi ti dicono che c’è un posto da cameriere per una settimana. E anche quando sei sotto contratto non è che lavori tutti i giorni, spesso stai a disposizione che magari ti chiamano magari no. Ma di cosa stiamo parlando?


E al tecnico di precisione che ha lavorato vent’anni in Lavazza fino agli anni ‘90 e si reinventa fabbro e si mette in regola partita Iva, decide di vivere in un paesino per spendere poco di affitto e farsi pure l’orto, dichiara tutto perché ci sono anche gli onesti e ti spiega che con mille euro al mese lui ci sta dentro, è contento, e non ti chiede nulla, a quest’individuo cui bisognerebbe dire grazie, gli si fanno gli studi di settore, gli si dice, non è possibile che lei ce la possa fare con un volume d’affari inferiore a 3000 al mese, e finisce che la partita Iva la chiude perché lui ha solo due gambe e due braccia e come fa a farli 3000 al mese? Sta a te, Stato, dimostrare che sono un evasore. Controllami, fammi le pulci ma non dare per scontato che io lo sia in base a delle arbitrarie tabelle che hai stabilito non si capisce bene come. Dare alle persone la possibilità di pagare le tasse in base al reale guadagno. Possibile che in mezzo a tanti geni di economia e finanza nessuno sia riuscito a individuare un sistema per permettere a chi si sbatte per non pesare sulla collettività di autoregolarizzarsi per pagare il dovuto attraverso un’autocertificazione delle entrate? Ci sono tante persone di buona volontà che però non hanno le risorse per aprire una ditta e anticipare contributi e spese. Poveri autentici, poveri veramente, che però vorrebbero tanto uscire dall’ombra.


Come gli aiuti all’imprenditoria femminile. Iniziative lodevoli. Solo che per ottenere il finanziamento a un progetto, prima lo devi realizzare, poi devi far vedere che funziona, produrre i giustificativi delle spese, affitto, mezzo di trasposto, computer, telefoni, e quello che è, e se va bene ti arriva il rimborso. Insomma senza un capitale iniziale di almeno 15/20000 euro non se ne fa niente.


Lo so, mi sto perdendo, sto divagando, ma gli esempi sono innumerevoli. Vi sembreranno estremi ma a breve situazioni analoghe saranno familiari a un numero crescente di persone. Persone che per il momento si sentono ancora in una zona protetta. Questo è.


Chi è fuori resta fuori.


E qui arrivo al dunque. L’rdc fa un gran comodo ma è sbagliato. L’rdc non è inclusione. È proprio il contrario. 

Con esso si ufficializza l’esclusione. Si ufficializza la povertà. Nient’altro che la conferma che, dato un problema, non esiste nemmeno più l’intenzione di risolverlo. Alla Ponzio Pilato.


Perché uno Stato ormai minimo e affamato, uno Stato che ha ceduto la maggioranza dei servizi di base, che rinuncia alla tassazione progressiva, perché anche lo Stato deve agire come un’azienda, limitandosi a verificare, almeno per il momento poi chissà, che vengano garantiti alcuni standard minimi, uno Stato che si trova di fronte una collettività cui è stata sradicata dalla testa l’idea che ci si possa aspettare riforme progressiste da esso, cosa può fare? Può solo limitarsi a concedere forme di assistenzialismo pecuniario per contribuire al pagamento di ciò che non è più in grado di garantire, ciò che ha demandato a imprenditori privati che ovviamente mirano al profitto.


Viene stabilita una soglia minima di reddito vitale e chi ne è al di sotto riceve un sussidio che colma, o dovrebbe, la distanza tra il reddito personale e la soglia minima data.


Una tassa negativa che sostituisce l’erogazione di servizi. Non più un sistema sanitario nazionale ma un poco di cash per accedere a quello privato, non più edilizia popolare o, meglio ancora, un controllo su canoni di locazione, gentrificazione, multinazionali immobiliari e affitti brevi, ma un contributo per affrontare il canone quale che sia.

Uno Stato che si limita a erogare tasse negative ai meno abbienti è uno Stato che rinuncia ad affrontare le cause che generano la povertà ma tenta goffamente di salvare la faccia alleviando gli effetti più macroscopici di ciò che non sa gestire.


Accettare l’imposta negativa, il mio personale accettare di usufruirne, contribuisce a legittimare una concezione universalista della povertà. Significa per lo Stato dare una mano e per me significa smettere di essere un cittadino ma solo accondiscendere perché non ho alternative, e tutti insieme rinunciare a sapere di chi è la colpa o rimuoverne la consapevolezza.


Siamo di fronte a un tipo di welfare che è agli antipodi rispetto a quello del new deal roosveltiano, a quello dei regimi socialdemocratici, un welfare in cui è stata abbandonata ogni idea di redistribuzione dei redditi, e dove lo Stato usa il proprio denaro per smantellare se stesso. Perché l’indebitamento che comporta una tassa negativa come l’rdc non è che un passaggio fondamentale per l’eliminazione dello Stato sociale.


Che non significa Stato leviatano nemico dell’iniziativa privata, non significa Stato assistenziale privo di spina dorsale e non progressista, ma, banalmente, Stato che funziona, Stato responsabile.


Vero è che, per come stanno le cose, senza ’sto reddito che mi dura sei giorni e tra pochi mesi mi toglieranno, o finirò in strada o farò colletta per andare in Canada. Non come emigrante speranzoso ma come candidato alla buona morte.»



Dicembre 2022


D. V.