sabato 20 gennaio 2018

LAVORO NERO

Se ci si ritrova senza lavoro, soprattutto tra i 45 e i 65 anni, capofamiglia di se stessi, se l’Isee è irrisorio, se non esistono proprietà immobiliari, se si è disoccupati, se si possiede un’auto del 2001, vorrei capire perché se si riceve una proposta di lavoro in regola per quattro ore la settimana (32 ore mensili per la somma di 200 euro circa) si è costretti a rifiutarlo pena, in caso contrario, la perdita dell’esenzione ticket? Perché sì, esistono persone per le quali pagare o meno i ticket sanitari fa la differenza. E la si perde anche per una sola ora di lavoro mensile regolarmente retribuito. Risultato: chiedere di non essere messi in regola. 
Se si ha tanta buona volontà, se si è una fucina di idee, se si è capaci di procacciarsi lavori vari per sopravvivere (pulizie, commissioni, piccoli lavori domestici, riparazioni, ecc.), mi domando perché, nel  momento in cui ci si attiva per prendere una partita Iva in modo da fare le cose come vanno fatte, su dieci commercialisti consultati, dodici consiglino (ovviamente) di lasciar perdere perché non si sarebbe in grado di far fronte a spese, tasse e contributi, a causa degli studi di settore che stabiliscono che, per i servizi alla persona o per forme che sconfinano in attività artigianali, minimo si debba guadagnare tot.
Se uno ha due braccia e mediamente oggi, se va bene, dandosi da fare può trovar lavoro per una trentina di ore settimanali mettiamo a una media di 7 euro l’ora, e arriva a un mensile, un mese per l’altro, di 800 euro, con il quale, stringendo la cinghia, può anche sopravvivere, perché impedirgli di mettersi in regola? Mettendosi in regola potrebbe fare pubblicità e trovare più lavoro e magari arrivare anche a 1000 o più euro al mese, vivere un po’ meglio, e forse riuscire a pagarsi dignitosamente anche i ticket sanitari. Però le braccia restano sempre due. Perché dunque non lo si tassa in base al guadagno effettivo? Perché gli dite che deve incassare almeno tremila euro al mese per sperare di non andarci sotto? Perché non vi assumete concretamente  l’onere di verificare la conformità tra le dichiarazioni e le condizioni reali di vita di un individuo? E non tassate con un'equa percentuale sugli effettivi guadagni?
Non bisognerebbe invece forse premiare chi non pesa sullo Stato e sa essere, come si dice, imprenditore di se stesso, accontentandosi di vivere modestamente? Perché sguardi di sufficienza verso chi afferma che riesce a vivere con poco facendo a meno del superfluo? Perché chi è povero ma onesto viene quasi deriso se si informa per regolarizzarsi da sé, visto che nessun altro lo fa? Perché gli si risponde che tanto fino a cinquemila euro può fare una ricevuta con il codice fiscale, precludendogli la possibilità di migliorare la propria condizione con l’acquisizione di una figura fiscale “normale”?
Perché un operaio che ha perso il lavoro, che ha rinunciato alla macchina, che non gli avanzano soldi da mettere in un conto corrente, che si è ritirato a vivere in campagna, da solo, in una buchetto a 200 euro al mese con un piccolo orto che gli permette di fare economia, e riesce nei dintorni a trovare lavoretti per arrivare a 600, 700 euro al mese, con i quali però riesce a campare, deve lavorare di nascosto? O perdere dei lavori perché non può fare una ricevuta scaricabile?
In buona sintesi: perché ci si ostina a incentivare il lavoro nero?


Maggio 2016

Risciò - Radio online su Spreaker


Bello, dopo aver appena postato un pezzo sulla desolazione del mondo giornalistico, scoprire l'esistenza di una realtà come quella di Radio Risciò dedicata alla Cina. Ascoltate i podcast ( https://www.spreaker.com/show/riscio ). Si può essere d'accordo o meno su contenuti e considerazioni ma è una gran bella finestra su un mondo da conoscere. 
La comunque amara considerazione è che l'ho scoperta perché sono costretta a letto dall'influenza e sto spulciando sul mio account twitter, altrimenti chissà...




NON POTENDO DISPORRE AL MOMENTO DELL'USO DEL BRACCIO DESTRO (NON SO QUANTO A LUNGO), HO DECISO DI PUBBLICARE OGNI TANTO SCARTABELLANDO TRA I VECCHI FILE.

RIFLESSIONI POMERIDIANE SUL MIO LIBRO

Sto riflettendo sul libro che comunque temo non riuscirò mai a scrivere. È ambientato tra il ’23 e il ’43. Non anticipo la trama per scaramanzia. Sto pensando alla consapevolezza che obiettivamente possono avere le persone riguardo al periodo storico in cui sono immerse. A quale può essere la percentuale di lucidità nell’analisi dell’ambiente circostante, lucidità che dovrebbe determinare le scelte e le decisioni di ognuno. La maggior parte degli individui ha a che fare con situazioni contingenti che occupano la quasi totalità del tempo.  
 Difficile, se non arduo, riuscire a raddrizzare il collo e guardarsi attorno per bene, arrampicandosi anche qua e là per sporgersi oltre ciò che preclude la vista e la visione di quanto non è nelle nostre immediate vicinanze.  Questione di volontà, certo, ma essenzialmente questione di tempo. A meno di non essere spiriti liberi e forti, l’assenza di questo fiacca inesorabilmente la volontà di intelligere, di inter lègere, di saper con cura scegliere tra le tante interpretazioni della realtà, la più, per quanto possibile, corretta. Questo stato di cose implica il dovere etico e civile da parte di coloro che dispongono di tempo, capacità, e onestà intellettuale di farlo per tutti gli altri. Di diventare sentinelle che danno l’allarme in tempo utile. Quando la gente muore per le strade, quando tirano le bombe, quando manca il lavoro, manca il cibo, e il denaro è carta straccia, quando ci spara addosso e si vive nella paura, tutti sono capaci di riconoscere che c’è la guerra, che si è, volenti o nolenti, in guerra, in una guerra. Ma riconoscerne la vigilia? Individuare i prodromi del conflitto? Sapere qual è stato il punto di non ritorno? Pochi riescono immersi nel flusso degli eventi.
Io credo che giornalisti, scrittori, filosofi, studiosi di ogni disciplina, tutto il mondo dell’informazione e della cultura abbia il dovere di tentare di prevedere, di arrivare in anticipo sugli avvenimenti, di togliere il velo a quanto la maggior parte delle persone non sa o non vuole vedere. Oggi, e da un bel pezzo, è urgente assolvere a ciò ma io vedo, se non con rare e poco risonanti voci, disertati i ruoli. 
La comunità mediatica principalmente ha abdicato all'imperativo di chiamare le cose con il loro nome, al metodo dell’analisi e dell’indagine, al rigore professionale. Per lo più arriva in ritardo e per non perdere l’attimo, si adopera più che altro per decidere da quale parte convenientemente schierarsi.


Marzo 2017

giovedì 18 gennaio 2018

IL MINISTERO DELLA SUPREMA FELICITÀ

Sono valsi vent'anni di attesa per godere del secondo romanzo di Arundhati Roy.
Mi hanno regalato "Il ministero della Suprema Felicità" nel giugno scorso ma l'ho letto solo in questi giorni. Attenta e fedele lettrice dei suoi saggi e articoli, volevo avere il giusto tempo per dedicarmi a una lettura che sapevo meritava di non essere interrotta. Non intimoritevi alle prime pagine, di fronte a nomi difficili da ricordare: l'autrice dipanerà le vicende con semplice e buona scrittura.


Mi ha ricordato "La via oscura" di Ma Jiang.
Credo che entrambi i libri dovrebbero essere letti. Ogni riferimento sociale, politico, storico non è fiction.

Abbiamo fame di conoscere il mondo? Eccoci serviti.