Da
settimane la cronaca abbonda di articoli riguardanti risse tra
ragazzini e adolescenti che sul web si accordano per luogo e ora di
appuntamenti collettivi durante i quali dar libero sfogo ai propri
impulsi. In sostanza, ragazzi che si menano. A gruppetti, a decine, a
centinaia. I sociologi analizzano, genitori e insegnanti rimpallano
le responsabilità gli uni agli altri, i media amplificano l'eco
favorendo l'emulazione. Le cause vengono rintracciate
nell'innaturalità imposta alle nostre vite dalle restrizioni per il
contenimento della pandemia e le colpe attribuite ai social che
diventano l'unico canale di scarico per le frustrazioni dei giovani.
Lì ci si ritrova e ci si incontra con altri che provano disagi
simili ai propri.
La
rabbia, il senso di noia, inutilità, e ingiustizia, sono comuni. Ci
si riconosce come parte di un gruppo che rivendica le medesime cose.
Ci si autorizza vicendevolmente a compiere azioni ribelli che si
traducono nei fatti in esplosioni di violenza nei confronti dei
propri simili, quindi, in ultima analisi, nei confronti di se stessi.
Se ne
sta parlando e scrivendo molto in Italia ma è un fenomeno mondiale.
Così,
in ordine sparso, al sentire commenti e riflessioni sui recenti fatti
nostrani, i primi pensieri che ho avuto sono stati i seguenti.
I
ragazzi si sono sempre menati. È un rituale di passaggio. Il primo
riferimento che mi viene in mente è “I ragazzi della via Pal”,
il romanzo dell'ungherese Ferenc Molnàr. Solo che oggi è la
dimensione aumentata di
tale prassi a impressionare.
I
fight club esistono da tempo ma per accedervi finora è stato
necessario appartenere a certi ambienti, conoscere le persone
“giuste” o navigare nel deep web quando non nel dark web. Così
alla luce del sole raramente si è visto. E, in ogni caso, la
partecipazione su base volontaria non tocca fasce anagrafiche così
basse. Questo ci spaventa. L'età. Giustamente.
Ma
non si può regolarmente cascare dal pero.
Oggi
possiamo affermare, senza esitazione, di vivere in quel genere di
società distopica annunciata da decenni dalla migliore letteratura
di genere e dalle riflessioni di eminenti filosofi, scienziati,
pensatori che, evidentemente invano, hanno tentato di metterci in
guardia. La maggior parte degli adulti in questo momento storico o è
fuori di testa o sta in equilibrio su stampelle fornite
alternativamente da alcol, cibo (troppo o troppo poco, a seconda),
lavoro compulsivo, psicofarmaci, serie tivù, shopping, interventi
estetici, bitcoin, azioni Amazon, influencer, zuffe sui social,
esposizione e condivisione virtuale del privato, apericena, diatribe
che esito a definire politiche, e, insomma, tutto quello che vi viene
in mente e con cui riempiamo i miseri spazi vuoti che restano nelle
nostre vite. Stiamo persino per perdere la posizione eretta e la
vista, sempre con il capo piegato e gli occhi su schermi di misure
variabili. Nella cosiddetta era della comunicazione abbiamo smesso di
comunicare, di cercare un linguaggio comune. Di ascoltare. Con
supponenza abbiamo fatto orecchie da mercante e deriso i moniti,
abbiamo sottovalutato, abbiamo snobbato, abbiamo rifiutato di
leggere, di studiare, di analizzare. Abbiamo atteso e attendiamo un
deus ex machina che faccia il lavoro sporco e risolva tutto quanto
per noi. Ci siamo ostinati a ritenere i problemi sempre problemi di
qualcun altro. Abbiamo disconosciuto le nostre responsabilità e
adesso inorridiamo a vedere la nostra progenie allo sbando. Abbiamo
seminato vento. Il problema è che la tempesta noi la vivremo per
poco. Saranno loro, i ragazzi, che dovranno viverci in mezzo
improvvisando strumenti di sopravvivenza fisici e mentali per non
soccombere. O, forse, in modo distorto, sono già avanti e hanno
capito che, piuttosto che sopravvivere a questa maniera, tanto vale
dare sfogo all'istinto di autodistruzione.
Ma
tornando alle responsabilità, e attenuando il cupo ritratto appena
fatto del mondo degli adulti, la discussione su a chi competa
maggiormente l'educazione dei giovani, se ai genitori o agli
insegnanti, su chi gravi la responsabilità prima del fallimento,
trovo sia una diatriba sterile. Non c'è contrapposizione tra le
parti ma dovrebbero esse essere un unicum che opera in
collaborazione. Il problema è che sia genitori che insegnanti sono
come tutti noi privati del medium principale utile a potersi
dedicare in modo adeguato al compito cui sono chiamati: il tempo. Si
è tanto parlato del tempo in esubero concesso dal confinamento
forzato e totale della primavera scorsa, del tempo che avanza ora con
l'obbligata rinuncia a uscite e convivialità, ma quello di cui parlo
non è un tempo fisico ma principalmente un tempo mentale. Ognuno
preso da scadenze e rate, da preoccupazioni per l'oggi più che per
il futuro, dalla frustrazione di donchisciotesche battaglie per
risolvere problemi che tali non dovrebbero essere, con insegnanti
obbligati a destinare molte delle proprie ore alla compilazione di
relazioni anziché alla propria e altrui formazione, come possiamo
pensare che avanzino lucidità ed energia per votarsi all'educazione,
all'ascolto e alla comprensione, all'esempio da trasmettere? Nemmeno
i più virtuosi e motivati individui ce la possono fare a districarsi
dalle maglie di questa vita frenetica e assurda. Fino a che punto
dunque gli si può imputare una colpa?