sabato 6 febbraio 2021

OCCHI

 

Mi chiedo se sia capitato solo a me, se qualcuno ne abbia già scritto.

La prima volta che ho notato la cosa è stato camminando in centro. Il marciapiedi stretto e la donna che viene in senso opposto al mio impicciata da due borse pesanti stracolme di verdura. Scendo sul ciglio della strada per cederle il passo. I nostri sguardi si incrociano, lei china un poco il capo in segno di ringraziamento e sorride con gli occhi. Un'altra volta in un supermercato il ragazzo alla cassa sta dando del tu a un'anziana donna, sbuffa e alza gli occhi al cielo mentre la umilia perché la prepagata non ha la copertura sufficiente per il pagamento. Ragazzino, forse dovresti dare del lei alla signora, non credi? Gli sibilo. La donna mi guarda dritto negli occhi e muove i propri come a dire, Non vale la pena, lascia perdere, ci sono abituata. Poi, sull'autobus, una ragazza accanto a me osserva la buffa scena di un tipo con due cani che cerca di attraversare la strada, ma con uno che tira in avanti e l'altro impuntato che non vuole saperne, sta bloccando il traffico. Fa ridere. Ci guardiamo e si vede dagli occhi che stiamo ridacchiando del poveretto. E ancora. In coda a uno sportello sanitario, una madre con tre figli, varie scartoffie e documenti da gestire, mi vede e, spingendo verso me il più piccolo, mi prega con un'occhiata  di accudirlo un momento.

Ho iniziato a farci caso e mi sono resa conto che tutte queste donne che prima avanzavano con maggiore riserbo, improvvisamente comunicano con me senza parlare. Cos'è cambiato rispetto a prima? Cosa favorisce quest'improvvisa empatia, se pur occasionale? Cosa sta facilitando la comunicazione e abbattendo una barriera?

Ecco, proprio quella cosa lì che scrivevo prima: si vede dagli occhi che stiamo ridacchiando. Capite? Queste donne velate si sentono meno diverse. E io, costretta a una diversità, ho imparato un nuovo linguaggio. Ho colto qualcosa che prima mi sfuggiva. E ho trovato una valenza sociale positiva nell'uso della mascherina.


So che qualcuno addurrà quanto ho scritto a prova del presunto processo di islamizzazione crescente del nostro mondo occidentale e laico, e che riterrà ingenuo il termine empatia: “sicuramente queste donne staranno provando un senso di vittoriosa soddisfazione nei confronti di noialtre infedeli costrette a coprire il volto”, ma suvvia... vogliamo ogni tanto provare ad andare oltre a quelle quattro idee elaborate a punta e mazzetta cui siamo avvinghiati? Magari qualcosa di buono potrebbe sorprenderci.


venerdì 8 gennaio 2021

RAGAZZI CHE SI MENANO

Da settimane la cronaca abbonda di articoli riguardanti risse tra ragazzini e adolescenti che sul web si accordano per luogo e ora di appuntamenti collettivi durante i quali dar libero sfogo ai propri impulsi. In sostanza, ragazzi che si menano. A gruppetti, a decine, a centinaia. I sociologi analizzano, genitori e insegnanti rimpallano le responsabilità gli uni agli altri, i media amplificano l'eco favorendo l'emulazione. Le cause vengono rintracciate nell'innaturalità imposta alle nostre vite dalle restrizioni per il contenimento della pandemia e le colpe attribuite ai social che diventano l'unico canale di scarico per le frustrazioni dei giovani. Lì ci si ritrova e ci si incontra con altri che provano disagi simili ai propri.

La rabbia, il senso di noia, inutilità, e ingiustizia, sono comuni. Ci si riconosce come parte di un gruppo che rivendica le medesime cose. Ci si autorizza vicendevolmente a compiere azioni ribelli che si traducono nei fatti in esplosioni di violenza nei confronti dei propri simili, quindi, in ultima analisi, nei confronti di se stessi.

Se ne sta parlando e scrivendo molto in Italia ma è un fenomeno mondiale.

Così, in ordine sparso, al sentire commenti e riflessioni sui recenti fatti nostrani, i primi pensieri che ho avuto sono stati i seguenti.

I ragazzi si sono sempre menati. È un rituale di passaggio. Il primo riferimento che mi viene in mente è “I ragazzi della via Pal”, il romanzo dell'ungherese Ferenc Molnàr. Solo che oggi è la dimensione aumentata di tale prassi a impressionare.

I fight club esistono da tempo ma per accedervi finora è stato necessario appartenere a certi ambienti, conoscere le persone “giuste” o navigare nel deep web quando non nel dark web. Così alla luce del sole raramente si è visto. E, in ogni caso, la partecipazione su base volontaria non tocca fasce anagrafiche così basse. Questo ci spaventa. L'età. Giustamente.

Ma non si può regolarmente cascare dal pero.

Oggi possiamo affermare, senza esitazione, di vivere in quel genere di società distopica annunciata da decenni dalla migliore letteratura di genere e dalle riflessioni di eminenti filosofi, scienziati, pensatori che, evidentemente invano, hanno tentato di metterci in guardia. La maggior parte degli adulti in questo momento storico o è fuori di testa o sta in equilibrio su stampelle fornite alternativamente da alcol, cibo (troppo o troppo poco, a seconda), lavoro compulsivo, psicofarmaci, serie tivù, shopping, interventi estetici, bitcoin, azioni Amazon, influencer, zuffe sui social, esposizione e condivisione virtuale del privato, apericena, diatribe che esito a definire politiche, e, insomma, tutto quello che vi viene in mente e con cui riempiamo i miseri spazi vuoti che restano nelle nostre vite. Stiamo persino per perdere la posizione eretta e la vista, sempre con il capo piegato e gli occhi su schermi di misure variabili. Nella cosiddetta era della comunicazione abbiamo smesso di comunicare, di cercare un linguaggio comune. Di ascoltare. Con supponenza abbiamo fatto orecchie da mercante e deriso i moniti, abbiamo sottovalutato, abbiamo snobbato, abbiamo rifiutato di leggere, di studiare, di analizzare. Abbiamo atteso e attendiamo un deus ex machina che faccia il lavoro sporco e risolva tutto quanto per noi. Ci siamo ostinati a ritenere i problemi sempre problemi di qualcun altro. Abbiamo disconosciuto le nostre responsabilità e adesso inorridiamo a vedere la nostra progenie allo sbando. Abbiamo seminato vento. Il problema è che la tempesta noi la vivremo per poco. Saranno loro, i ragazzi, che dovranno viverci in mezzo improvvisando strumenti di sopravvivenza fisici e mentali per non soccombere. O, forse, in modo distorto, sono già avanti e hanno capito che, piuttosto che sopravvivere a questa maniera, tanto vale dare sfogo all'istinto di autodistruzione.

Ma tornando alle responsabilità, e attenuando il cupo ritratto appena fatto del mondo degli adulti, la discussione su a chi competa maggiormente l'educazione dei giovani, se ai genitori o agli insegnanti, su chi gravi la responsabilità prima del fallimento, trovo sia una diatriba sterile. Non c'è contrapposizione tra le parti ma dovrebbero esse essere un unicum che opera in collaborazione. Il problema è che sia genitori che insegnanti sono come tutti noi privati del medium principale utile a potersi dedicare in modo adeguato al compito cui sono chiamati: il tempo. Si è tanto parlato del tempo in esubero concesso dal confinamento forzato e totale della primavera scorsa, del tempo che avanza ora con l'obbligata rinuncia a uscite e convivialità, ma quello di cui parlo non è un tempo fisico ma principalmente un tempo mentale. Ognuno preso da scadenze e rate, da preoccupazioni per l'oggi più che per il futuro, dalla frustrazione di donchisciotesche battaglie per risolvere problemi che tali non dovrebbero essere, con insegnanti obbligati a destinare molte delle proprie ore alla compilazione di relazioni anziché alla propria e altrui formazione, come possiamo pensare che avanzino lucidità ed energia per votarsi all'educazione, all'ascolto e alla comprensione, all'esempio da trasmettere? Nemmeno i più virtuosi e motivati individui ce la possono fare a districarsi dalle maglie di questa vita frenetica e assurda. Fino a che punto dunque gli si può imputare una colpa?