lunedì 30 marzo 2015

#FAME

Quand’ero bambina, e frequentavo le elementari, ricordo che la nostra maestra dedicava molto spazio e tempo a tematiche che non erano propriamente contemplate dal programma ministeriale. Ogni lezione era l’occasione per riferirsi alla realtà sociale. Desiderava ardentemente renderci esseri consapevoli, capaci di vedere e analizzare, capaci di crearci una nostra opinione e, soprattutto, in grado di leggere tra le righe. A quei tempi, ricordo, il tema della fame nel mondo era ricorrente. Le immagini di bambini rigonfi del Biafra, una repubblica secessionista dalla vita breve (1967 – 1970) nata dalla guerra civile in Nigeria, erano il leitmotiv della nostra vergogna di Paesi benestanti. Medici senza frontiere nacque proprio in seguito all’esperienza di medici francesi durante tale conflitto.
Lo spirito di quegli anni, gli anni ’70, era quello della convinzione che nel giro di pochi decenni, grazie alle nostre conoscenze, grazie all’impegno, grazie al progresso, avremmo guardato a tale realtà come a un male sconfitto con cui sempre meno persone nel mondo avrebbero dovuto fare i conti.
Oggi, a 40 anni di distanza, un miliardo abbondante di persone su sette miliardi non ha accesso al cibo ( e da qui al 2050 a quanto pare saremo un paio di miliardi in più), il 40 % delle risorse alimentari mondiali finisce nella spazzatura (in modi tanto facilmente evitabili quanto per questo offensivi), il fenomeno del land grabbing sta mettendo in ginocchio intere nazioni, e, non solo nei paesi in via di sviluppo, le monocolture di prodotti finalizzate all’esportazione o per biofuel stanno compromettendo definitivamente territori, risorse idriche e accesso al cibo, poi il monopolio delle sementi, lo sfruttamento intensivo di campi e pascoli, con abuso di fertilizzanti e pesticidi, che mette a dura prova la fertilità dei terreni, la perdita della biodiversità, la coltivazione di cereali e legumi per alimentazione animale da carne, che va dal 70% al 90% del totale a secondo dei Paesi, ovvero 2/3 delle terre fertili sono destinate alla coltivazione di mangimi (e sempre più ne vogliamo mangiare e sempre più persone ne vogliono mangiare nell’illusione ciò rappresenti il raggiungimento del benessere e dell’affermazione sociale), insomma, tutto quanto il quadro dà la misura della nostra arroganza, della nostra avidità  e della nostra idiozia. 
Mi sento come se mi fosse stata fatta una promessa in malafede. Da quei giorni di bambina ho vissuto seguendo con attenzione l’evolversi degli avvenimenti in attesa del giorno in cui finalmente la promessa sarebbe stata onorata ma non è stato così. Non c’e stata e meno che mai c’è una reale volontà di risolvere il problema. E il fatto è che ognuno di noi ha fatto quella promessa, certo con cuore ma anche con la leggerezza di chi è ammaliato dalla seducente convinzione indotta che tutto si sarebbe risolto facilmente senza pregiudicare le nostre abitudini e il nostro stile di vita. Abbiamo preferito credere senza valutare criticamente la realtà delle cose  e continuare a farlo anche quando i segni dell’inganno hanno iniziato a essere evidenti.

gennaio 2015

(tutti i diritti riservati)

martedì 10 marzo 2015

UN FUTURO BELLISSIMO

Cammineremo su marciapiedi di piastrelle piezoelettriche. Le city car del Mit (l’Istituto di tecnologia del Massachusetts), si ricaricheranno mentre sono parcheggiate e non ci costerà questo carburante che avremo prodotto noi stessi. 
Le nostre case disporranno tutte della tecnologia che già esiste e che non viene prodotta e utilizzata in larga scala per la volontà criminale dei nostri governanti. Una tecnologia a consumi zero. E avremo ancora più confort di ora senza che nessuno dalla parte opposta del pianeta paghi per questo. 
Vivremo in città intelligenti. Perché noi saremo intelligenti. Non produrremo più rifiuti. E avremo imparato a mangiare e mangeremo tutti. Ci ammaleremo di meno e non useremo veleni e tante multinazionali dovranno scendere a miti consigli o sparire per sempre. 
I popoli saranno mescolati, ognuno con la propria storia e la propria cultura, ma con una comune visione di autentico amore e rispetto per la vita. E collaboreranno per amministrare e condurre le sorti di un pianeta condiviso, in cui tutte le specie viventi e la terra stessa saranno rispettati e godranno di diritti. 
Ciò che a noi pare impossibile sarà la norma. 
E i figli dei figli dei nostri figli increduli studieranno di un passato con inceneritori, scorie radioattive, desertificazione, acque avvelenate, aria irrespirabile, estinzioni e foreste abbattute. 
Un passato nell’anno del Signore 2000 e rotti, di gente che muore di fame e milioni di tonnellate di cibo destinate ad altri usi. 
Si vergogneranno di noi. Ma saranno grati a tutti coloro che avranno fatto qualcosa per trasformarci in una civiltà evoluta.

novembre 2012

Tutti i diritti riservati

lunedì 2 marzo 2015

#CONFLITTI BELLICI

Mi piaceva giocare a Risiko da ragazza, con mio padre. Alla lunga, però, le carte degli obiettivi le sapevamo a memoria, per cui lui s’ingegnò a scriverne degli altri su dei foglietti che incollò con cura coprendo quelli che ormai erano per noi facilmente individuabili nell’avversario. Non ricordo come, aveva anche studiato un sistema per limitare l’incidenza dei dadi nell’esito del gioco. Si era davvero sbizzarrito nello scrivere quei nuovi obiettivi. Conquistare catene di stati che partivano da un golfo per raggiungerne un altro attraverso tutti i continenti. Conquistare tutti gli stati che fossero uniti da un confine via mare, uno stretto, un canale. Conquistare tutti quelli con fiumi importanti, tutti quelli maggiori produttori di una certa risorsa (precisi e dettagliati elenchi stavano in mezzo al libretto con le regole del Risiko). Non era così facile a quel punto impostare la propria strategia bellica perché il fatto che il nemico occupasse certi territori non significava più che fossero quelli cui era principalmente interessato. Ma non era tanto questo a essere importante o rivelatore, quanto la sopravvenuta coscienza della complessità, delle diverse prospettive, e della necessità di saper veramente vedere.
Stasera leggo gli articoli conservati da giornali che come sempre non ho avuto il tempo di leggere. Ho preso l’atlante (del ’95) e l’ho sfogliato alla ricerca dei luoghi i cui nomi incontro durante la lettura. È così evidente cosa sta accadendo nel mondo e perché. E lo è altrettanto la forza del cambiamento in cui siamo immersi. È in atto una di quelle trasformazioni epocali nella storia dell’uomo, la cui portata conosceranno i nostri figli e nipoti.
Il punto non è capire che tutti i fatti che avvengono attorno a noi, e sempre più vicino, parlano di un’evidente questione di potere, dominio, risorse, supremazia culturale da una parte, e di disperazione, bisogno, rabbia dall’altra, ma che se ci sono questa corsa chiaramente diffusa e spasmodica all’accapparramento e alla conquista, e in contemporanea un determinato e metodico innalzamento di muri, che siano di cemento, filo spinato o parole poco conta, significa che un motivo c’è. Un comun denominatore. Il filo rosso che dovremmo individuare se vogliamo comprendere gli avvenimenti.
Nel caso specifico, si tratta della comprovata trasformazione in atto del pianeta, della vita sul pianeta. A causa nostra e malgrado noi. E chi può cerca di pararsi il posteriore per il maggior tempo possibile con qualunque mezzo a disposizione.


Febbraio 2015


(tutti i diritti riservati)

#UMANITA’ E CRISI DEMOGRAFICA

Ma secondo voi per queste decine di migliaia di persone che s’imbarcano alla volta dell’Europa, il calcolo delle probabilità di farcela quanto conta? Quanto incide?
Se ne vanno dalle terre in cui sono nati per sfuggire alla morte, che sia fame, malattia, guerra civile, si tratta di disperazione senza scampo più che di speranza.
Noi dovremmo accoglierli mettendo al palo i trafficanti, soprattutto a livello alto, quelli cui conviene ci sia tutto ‘sto marasma. Dovremmo dimostrarci coerenti con i principi che sbandieriamo e i diritti umani in cui ci vantiamo di credere. Senza sottovalutare il beneficio che l’integrare un’umanità in cammino potrebbe dare all’economia e alla risoluzione della cosiddetta crisi demografica del vecchio continente.

Febbraio 2015


(tutti i diritti riservati)