L'unica specie a
concepire l'idea di futuro, pertanto in grado di guardare avanti,
oltre le istintive necessità prossime, siamo noi. Gli unici capaci
di riconoscere intellettualmente (e, badate, non ho scritto
intellettivamente, ché ciò riesce a tutte le specie...) le
opportunità utili alla sopravvivenza. Eppure i fatti sembrano
provare il contrario. Forse perché siamo eccessivamente concentrati
ognuno sulla propria singola sopravvivenza individuale. Sulla propria
e su quella di pochi intimi e affini. Non riusciamo a pensare a noi
stessi come parte di un biosistema. Il senso di unicità che ci
contraddistingue, e che ha permesso ad alcuni individui di eccellere,
ci illude di esserne al di fuori.
A
un certo punto della storia umana è subentrato un qualche
elemento che ha accelerato questo senso di estraniazione, l'illusione
di essere separati dalla natura, la convinzione alla base della
nostra cultura di essere la forma di vita superiore sulla terra.
Mentre, al contrario, il solo pensare ciò è da considerarsi un
disturbo psichico vero e proprio, una forma di disadattamento, di
scollamento dal reale, al pari di altri per i quali riteniamo
doverosa una cura. Infatti la presunzione di tale superiorità non è
supportata da alcuna verifica fattuale. Ciò che ci dice la scienza è
che, per vari motivi, troppo lungo qui entrare nel merito, abbiamo
goduto di un canale preferenziale nell'evoluzione e ci siamo evoluti
fino a ottenere complesse e stupefacenti forme espressive non
riscontrabili in altri animali. Leggendo, se necessario più volte,
la precedente frase dovrebbe essere evidente a tutti che utilizzarla
come fondamenta della nostra superiorità di specie, non funziona.
Non dice quella cosa lì. Ne dice un'altra, di cosa. Per spiegarmi.
Una serie di semplici domande. Se io non riscontro una cosa, questa
cosa non esiste? Il non riscontrare in un altro un livello di
evoluzione pari al proprio nega che questi possa possederne uno
superiore? In quale realtà logica pari evoluzione esprime un valore
qualitativo? Forzatamente l'evoluzione di chi cerca riscontro è da
considerarsi il metro di misura universale? Giusto così, per
ragionarci sopra.
Dunque perché affermiamo
con tanta convinzione di essere il risultato sommo dell'intera storia
biologica? Per sentirci liberi? Svincolati da oneri etici e leggi
fisiche? Quindi per paura della morte? Esposti al rischio delle
contingenze, siamo a tal punto spauriti e fragili tra le nostre
paure?
Anziché ammirare la
perfezione del sistema universo ce ne vogliamo affrancare nella vana
ricerca di una salvezza che, invece, si rivelerà rovina. Umano,
molto umano, forse troppo. Difficile accettare che la nostra
personale esistenza sia a tempo determinato. Ma così è e così deve
essere, pena la fine della vita. Questione di entropia. Difficile
accettare di dover, a un certo momento, terminare. Vorremmo non
toccasse mai a noi ma l'unica cosa che possiamo fare è tentare di
morire bene. Poter dire nell'ultima ora, sono felice, come suggeriva
Solone. E per morire bene bisogna vivere bene. Non intendo senza
problemi ma con dentro sempre chiaro e forte il significato
dell'esistere. Purtroppo, però, pochi tra noi riescono in questo, e
maggiormente coloro che sono a contatto stretto con la natura. La
maggior parte delle persone però non ha questa fortuna. Crediamo
dunque di sapere tutto ma non sappiamo nulla o ben poco. Tutta la
nostra scienza, se commisurata alla realtà, è primitiva e
infantile. Dovremmo, prima di ogni altra cosa, attendere alla
comprensione della natura, tornare ad essa, ascoltandone le armonie
anziché tentare di modificarla. Invece i molti che vivono in stretto
rapporto con un habitat naturale, oggi, subiscono principalmente le
ricadute, spesso drammatiche, dei nostri abusi. La natura nemica. Se
nell'antichità lo era per il proprio manifestarsi, a volte
improvviso e violento, in forme e modi che l'uomo non poteva
contrastare, ora giorno dopo giorno essa ci restituisce la morte che
le abbiamo procurato. Terre morte, acque tossiche, aria contaminata,
cibo infetto. Brontoliamo un po' ma non tentiamo un salto di qualità.
Rinunciamo a priori a qualsiasi ipotesi di luce.
Esploriamo lo spazio ma
nemmeno questo ha il minimo effetto su di noi in termini di
comprensione e quindi di guarigione. Cerchiamo altre forme di vita
altrove e ignoriamo quelle che ci circondano, di molte delle quali
non sospettiamo neanche l'esistenza. Abbiamo
identificato meno di 2 milioni di specie su un totale stimato tra 7 e
15 milioni (probabilmente sono molte di più).
Una
perdita del 10%, media calcolata nell'arco dei prossimi decenni,
indica che assisteremo alla scomparsa di decine di migliaia di
specie, molte delle quali non hanno un nome. Perfino per quelle che
lo hanno, non saremo in grado di indicare il momento in cui si
estingueranno. Sono come "morti viventi", specie destinate
a morire perché i loro habitat sono diventati troppo piccoli. I
tassi di estinzione attuali procedono a ritmi cento volte superiori a
quelli naturali preistorici. E per il futuro, il tasso di estinzione
subirà una probabile accelerazione di oltre mille volte maggiore
rispetto a quella naturale preistorica, dal momento che la
deforestazione delle aree tropicali distrugge anche gli ultimi rifugi
di molte specie.
Oltre all'estinzione, inoltre, esiste un fenomeno più nascosto che è
quello della defaunizzazione e cioè della diminuizione del numero di
individui, del peso quantitativo di una specie, della sua biomassa.
Una sorta di annichilimento biologico che alla fin fine patirà in
primis chi sta in cima alla catena alimentare. Noi. Anche perdere
solo un 20, 30% di una specie può determinare la sparizione di
altre, in un effetto domino non arrestabile che porterà al collasso
del sistema.
Egoismo, situazione
economica, situazione politica ci illudono però che la vita consista
solo degli elementi di cui l'abbiamo riempita. Nient'altro. Tutto il
resto è accessorio. Ogni considerazione che riguardi quanto sentiamo
estraneo a ciò che abbiamo deciso essere il mondo è opinabile
quando non ignorabile. L'ambiente in cui viviamo e che abbiamo creato
conferma l'illusione della non appartenenza al ciclo vitale.
Dopo la rivoluzione
industriale abbiamo perso il precedente sistema di vita che era
rigenerativo e siamo passati al dogma dell'inesauribilità. Prima
tutto veniva dal sole che rappresentava la quantità massima di
energia a nostra disposizione, sufficiente all'incirca per un
miliardo di persone sul pianeta. I combustibili fossili e la
rivoluzione agricola hanno accelerato i processi di produzione e
l'incremento demografico, e ora non riusciamo più a fermarci. Dal
1800 al 1930 siamo passati da 1 miliardo di persone a 2 miliardi. Nei
successivi 30 anni siamo passati a 3 miliardi. Nei vent'anni
seguenti, dal 1960 al 1980 siamo raddoppiati e giunti a 6 miliardi.
Dopodiché un leggero rallentamento ma siamo comunque alla soglia
degli 8 miliardi e nel giro di una trentina d'anni arriveremo a 10
miliardi. Sarebbe a dire decuplicati in 150 anni con solo
più un decimo della superficie terrestre libero dall'impatto
dell'attività umana E come ci siamo organizzati per
questo condominio sovraffollato? Commerciamo emissioni, trasformiamo
la gestione dei rifiuti in un allettante affare, li “esportiamo”,
e ne ricicliamo meno del 10% a livello mondiale. Ricopriamo la terra
ogni anno di tanto cemento da poterci fare una colata
sull'Inghilterra intera e disboschiamo al ritmo di trenta campi di
calcio al minuto. Basiamo la nostra esistenza su un'economia di
rapina, sulla cultura del rinvio e dell'approssimazione. E per quello
che non vogliamo vedere, residui mefitici e tossici del nostro
operare, tutto in fondo al mare come sotto al tappeto. Fino a quando
cercheremo di coltivare terre sterili, lontani da coste allagate,
sottoposti a un clima ostile e finalmente capiremo di dover
sopravvivere su quel che resterà del pianeta. Eppure.
Capi di Stato provano a
eliminare ministeri dell'ambiente, vedi il tentativo di Bolsonaro,
evangelici sostengono lobby delle armi, mafie si ripuliscono nel
rinnovabile, governi regalano terre e risorse in cambio di sostegno
militar elettorale, ... Investiamo esclusivamente in attività
intensive, agricoltura a monoculture e allevamenti, promettiamo
transamazzoniche e vie della seta, prosciughiamo o avveleniamo falde
acquifere, facciamo a gara per la diga più grossa e per la trivella
più lunga, sottraiamo nutrimento alla terra, le fracassiamo
l'ossatura, la scortichiamo.
Sbraniamo a testa bassa.
Oggettivamente come
possiamo pensare di sfangarla? Vista e considerata la nostra
scelleratezza. Hanno portato al tavolo un menu ricco di ogni ben di
Dio e noi abbiamo ordinato tutto, alcuni han preso parecchi giri di
portate e ora, dopo soli duecento anni di bagordi, il cameriere ha
portato il conto e non c'è portafogli in grado di saldarlo.
E noi, commensali, che
facciamo? Sorridiamo, forse appena imbarazzati, e al cameriere
facciamo con le dita cenno, Segna, segna sul conto.
A volte penso che i
nostri eccessi siano al contempo indice della nostra miseria e il
nostro modo migliore per nasconderla a noi stessi. Credo anche che
molti, probabilmente, siano in buona fede. Incapaci di vedere.
Siamo così piccoli che
sovrastimiamo lo spazio. È
l'unica spiegazione. Vittime di una sorta di fallace algoritmo
dell'infinitezza. Così come, ad esempio, per la stragrande
maggioranza dei brasiliani la foresta amazzonica è “distante”,
una sorta di terra di nessuno, contenuto di documentari da divano,
ugualmente tutti viviamo le gravi realtà che stanno sfinendo il
pianeta e i suoi abitanti come qualcosa che non ci riguarda. Quel
famoso senso di estraneità di cui dicevo all'inizio.
Ho letto, qualche tempo
fa, la seguente frase: “Le condizioni entro le quali un popolo
produce il proprio sostentamento sono quelle che regolano la sua
selezione.” Ne ho intuito subito la forza ma ho dovuto leggerla e
rileggerla per comprenderne la portata. Un circolo vizioso. Che fa sì
che l'essere umano venga a manifestare esso stesso la contaminazione
qualitativa di ciò che produce e di cui si nutre o si serve, e più
si abbassa il livello qualitativo, gioco forza la successiva
produzione sarà su parametri ancor più scadenti, possedendo sempre
meno il cervello la capacità di elaborare progetti alti. Avranno più
possibilità di sopravvivenza coloro che sapranno adattarsi con
inerzia a questi standard sempre più bassi. L'ho sintetizzata così.
Diventiamo quello cui ci aggrappiamo.
Si parla molto negli
ultimi tempi di cambiamenti climatici, e c'è ancora chi perde tempo
a discutere, ci sono, non ci sono, chi lo sa, mentre la comunità
scientifica internazionale, quando non prezzolata, è d'accordo sui
punti base della faccenda. Nonostante ciò temporeggiamo. Finché
avremo ancora per ognuno di noi di che continuare a vivere come siamo
abituati ci sembrerà ragionevole credere che una soluzione verrà
trovata. Ma è proprio su questo verrà che bisogna ragionare. Verrà
da chi? Verrà quando? Verrà come?
Abbiamo eletto l'avidità
a sistema e abbiamo svenduto la vita nostra e quella della nostra
discendenza. Non riusciremo mai a legiferare in maniera saggia e
lungimirante perché abbiamo ceduto ogni autorità. Non ci interessa
capire come funzionano le cose ma solo usarle e illuderci di
possederle. Ci preoccupiamo, ad esempio, solo di imparare a sfruttare
le potenzialità delle applicazioni dei nostri devices ma ci è del
tutto indifferente comprendere come vengano realizzati, come
funzionino, cosa comporti la realizzazione dei benefici di cui
usufruiamo. Insomma non siamo curiosi di vedere cosa c'è dietro,
cosa c'è “dentro”. L'approccio logico e analitico dei fatti ci
pare sofisma da perditempo.
E poi ci rassicurano.
Dicono, alcuni, che la fine dell'umanità è lontana. Mi piacciono
queste verità che nascondono un inganno. È
una sfida smascherarle. Probabilmente è vero che la fine
dell'umanità, in quanto specie, è, relativamente, lontana. Si
estinguerà infatti solo la gran parte di essa. Prima diminuirà,
come accade per gli altri animali, la biomassa, cioè la quantità di
individui, il peso ponderale della specie. Una parte riuscirà
sicuramente a far fronte agli stravolgimenti incalzanti. Da chi sarà
costituita questa parte?
È
qui che ognuno di noi sarebbe tenuto a entrare in gioco. La
ribellione allo status quo è
stato sovente origine di progresso e rinascita sociale ma come
portare persone non colpite direttamente da un problema a
interessarsene? Come riuscire a far passare il concetto su ciò che è
legittimo e ciò che non lo è, nel momento in cui l'effetto,
apparentemente, non ci tocca?
Forse partendo dalle
basi. Esiste un sistema dato A, la biosfera, che comprende anche noi,
e un sottosistema B, che potremmo chiamare sinteticamente economia,
all'interno di cui operiamo. Il sistema A è fisso, il sottosistema B
è in espansione continua. Le deduzioni le lascio a voi.
In
passato la natura ci forniva tutto gratuitamente, oggi
per ottenere un risultato vagamente paragonabile dobbiamo spendere
decine di trilioni di dollari all'anno. Per quanto evoluta e
sofisticata, nessuna tecnologia è in grado di darci ciò che la
natura può offrire in un contesto rigenerativo. Siamo indubbiamente
troppi, però potremmo impegnarci maggiormente.
Finché però per ogni
carico di prodotti ne corrispondono una trentina di rifiuti, finché
si spendono centinaia di miliardi di dollari ogni anno in pubblicità
o in sovvenzioni all'agricoltura intensiva, finché si spende in
armamenti ogni anno l'equivalente di intere economie nazionali, o si
persevera nell'iperproduzione di beni non durevoli in buona misura
superflui, finché adoreremo l'idolo dell'All you can eat, non ne
verremo fuori.
Serve un cambiamento
culturale innanzitutto. Dobbiamo ricominciare ad apprendere per
esperienza diretta, smettere di essere fruitori passivi di una realtà
preconfezionata, risvegliarci.
Inebetiti abbiamo
smarrito il senso della bellezza del mondo. Siamo alla continua
ricerca di qualcosa che ci manca senza sapere più cosa abbiamo perso
e che determina il senso di mancanza che proviamo. Dobbiamo renderci
conto delle forze globali che influenziamo e che a loro volta gioco
forza influenzeranno la nostra vita. Dobbiamo fare atto di umiltà e
ammettere di dover rivedere tutta quanta la faccenda.
È
stata globalizzata un'aspettativa di stile di vita senza prima
misurarla, senza calcolarne l'impatto.
Se non è da psichiatria
perseverare in questa direzione, cosa lo è?
Siamo certi di tante
cose, abbiamo costruito su queste certezze tutto quanto ma esse, a
parte quella della nostra fallibilità, sono quasi sempre un inganno.
Le usiamo per consolarci, reduci da disastri. Per appoggiarci quando
neghiamo un dubbio. Un'illusione cui indulgiamo e che induce l'uomo a
ricadere periodicamente nell'oscurità.
Cosa potremmo fare
dunque? Potremmo intanto provare a capovolgere la prospettiva e
anziché giustificare la nostra inerzia con una fantomatica
impossibilità a risolvere la questione, iniziare a dire: Che bello!
Quale grande occasione di rendere questo periodo storico quello del
grande cambiamento. Le tecnologie non possono risolvere tutto ma
intanto potrebbero, se usate nel modo dovuto, ridurre il nostro
impatto di un buon 60%. Poi potremmo rallentare un po', goderci di
più la vita e cercare di essere più intelligenti.
maggio