giovedì 5 dicembre 2019

ANCHE IL MIGLIORE MERITA DI MORIRE

Dobbiamo sparire dalla faccia della terra. Siamo inutili, dannosi, arroganti, egocentrici. Siamo insicuri, aggressivi, tracotanti. Incapaci. Non siamo all'altezza dell'ideale umano kalòs kai agathòs. Anche il migliore di noi, anche il parente, l'amico, il collega, la persona con cui condividiamo il letto, alla fine si rivela mediocre. Prigioniera di stereotipi e paure. Ognuno di noi è superfluo. Noi per primi. Quand'anche puri, restiamo intrappolati dalla frustrazione della nostra impotenza e, fatti salvi alcuni spasmi di ribellione, ci abbandoniamo alla corrente. Nietzsche scriveva..., non importa cosa scriveva Nietzsche, semplicemente aveva ragione.
Mio padre aveva ragione. Nel destino dell'essere umano non c'è la grandezza. E se mai ce n'è  stata, essa è esaurita. L'essere umano è ormai irrimediabilmente corrotto.
Per stasera basta così. Non ho neanche voglia di spiegare il perché delle mie parole.

martedì 3 dicembre 2019

È SCOPPIATA LA TERZA GUERRA MONDIALE


È scoppiata da un pezzo la terza guerra mondiale e in pochi se ne sono accorti. Forse nemmeno quelli che la stanno vivendo sulla propria pelle sono consapevoli dell'ecumenicità del fenomeno. Bisognerà attendere i libri di storia dei nostri nipoti perché il capitolo che narrerà i fatti che stanno accadendo ora porti il titolo: “Il Terzo conflitto mondiale”.
Proteste scoppiano ovunque, senza soluzione di continuità da parecchio tempo a questa parte, e sono destinate a diventare immanenti. È perlomeno plausibile che siano collegate.
Come scrivevo tempo fa, in ogni zona della terra i popoli sono in rivolta. Con dinamiche più o meno drammatiche e in contesti diversi, ovunque, laddove non si cede a preoccupanti sbandamenti nazional populisti, ci si oppone all'autorità costituita. Che siano regimi autoritari, democrazie neoliberiste, istituzioni inefficienti e/o colluse. In sintesi ci si ribella a chi accumula potere e ricchezza a discapito della maggior parte delle persone. Ovunque si invoca il recupero di un vivere degno ed equo e si denunciano diseguaglianze sociali crescenti, esito dell'operare cieco e avido di una casta ormai al di sopra di qualsivoglia controllo.
Che il detonatore di questa rabbia diffusa, prima ancora che rivendicazione di valori di umanità e saggezza, possa dunque essere la crisi economica che da un decennio prosegue con sempre più gravi ricadute sulla società?
Una crisi economica incentivata dall'ostinazione del sistema capitalistico a voler sopravvivere senza trasformarsi. Un'ostinazione aggressiva che sta trascinando il mondo verso l'abisso e capace solo di proporre soluzioni di austerità e riforme strutturali che penalizzano le fasce più deboli.
Un'iperproduzione industriale che aggrava le condizioni ambientali, quindi quelle sociali, quindi quelle politiche. Paesi che oggi in un anno producono quanto è stato prodotto in un secolo. Paesi che ambiscono a fare altrettanto il prima possibile. Paesi che svendono le proprie risorse a sostegno di tale malata iperproduzione in cambio di un'elemosina di sopravvivenza che si traduce in una condizione debitoria perenne. Cittadini dei Paesi sviluppati che ipotecano la vita per possedere il superfluo. Cittadini dei Paesi in via di sviluppo che li invidiano e soverchiano propri concittadini che non hanno di che vivere, in una competizione spasmodica che non lascia intravvedere un lieto fine.
È un fatto che il dominio concesso al mercato e alla finanza abbia creato disparità tali da rendere vano ogni tentativo di costituire una protezione sociale universale. Ed è un fatto che abbia determinato e sostenuto condizioni favorevoli a una crescente interdipendenza tra poteri politici e poteri economici operanti ormai a circuito chiuso.
Oggi però vediamo, grazie all'attuale sistema di comunicazione, come la natura della crisi del cosiddetto neoliberismo non sia un'astrazione per addetti ai lavori ma qualcosa di molto concreto, come sia di natura ambientale e sociale, e grave al punto da compromettere la democrazia che, per quanto difettosa, resta ancora la soluzione politica migliore. Ma mai dal potere politico la crisi viene presenta in tali termini; al contrario ci si ostina a proporre una visione frammentaria della situazione, proprio per rallentare, per soffocare quella presa di coscienza generale che potrebbe offrire lo slancio definitivo nella direzione di un futuro degno di tal nome. La solita faccenda di considerare i problemi a compartimenti stagno, al punto che anche chi strumentalizza tale prospettiva resta convinto sia quella corretta. Ma un denominatore comune c'è ed è sotto agli occhi di chi vuole vedere, quindi perdersi dietro a spiegazioni sul perché in quel tal luogo sia successa quella determinata cosa è sì interessante e doveroso ma pure pleonastico.
Bisogna cambiare le cose. Qual'è la parola? Rivoluzione. Una parola grossa, che spaventa. I più timorosi di perdere ciò che hanno paventano per il ribollire sociale e sono pronti a chiamare pericolosi rivoluzionari, addirittura terroristi anche coloro che reclamano giustizia. Secondo me non si tratta di rivoluzione. Forse si tratta solo della seconda fase di un processo iniziato nell'ultimo ventennio del secolo scorso, se pur con radici già profonde. Forse l'opposizione alle derive del pensiero neoliberista non è che la fase successiva necessaria al compimento della transizione verso un mondo realmente globalizzato. Fase che i fautori dello stesso non avevano considerato né preventivato, accecati com'erano, e malauguratamente sono ancora, dal miraggio di un tutto subito e per sempre a qualsiasi costo.
Ma se verrà impedito di portare a termine il perfezionamento di questo sistema globale allora questa guerra non ancora riconosciuta come tale esploderà cruenta con tutta la furia che porta in seno.











giovedì 14 novembre 2019

ORA DI FUTURO

La Generali Italia, insieme ad alcune onlus quali Mission Bambini, L'Albero della vita e Centro per la Salute del Bambino, promotrice dell'iniziativa "Ora di futuro", ne pubblicizza sulla stampa con orgoglio l'esito. Alcune delle proposte avanzate dagli alunni  delle scuole elementari di tutta Italia per migliorare il mondo in cui vivono sono state presentate in Senato da una rappresentanza di bambini alla Presidente Casellati  e alla Ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti. Fin qui tutto bene. Solo che la pagina che pubblicizza l'evento contiene anche un disegno ed è su di esso che si è soffermata la mia attenzione. Un bel disegno. Chissà se c'è dietro l'aiuto di qualche adulto ma non credo. Ricordo compagni delle elementari molto dotati. Il soggetto mi piace. Mi ricorda un racconto che scrissi da bambina. S'intitolava "HH113". Non ricordo da cosa mi venne quel titolo, comunque sia, era adatto al genere che avevo scelto per il mio racconto: fantascienza. In breve si raccontava di un pianeta lussureggiante, grande mille volte la terra racchiuso in una sorta di ampolla trasparente che manteneva incontaminato l'ambiente da eventuali agenti nocivi esterni e protetto da incursioni nemiche. Si trattava, nella mia immaginazione, di un pianeta B, raggiunto a costo di innumerevoli sacrifici, destinato a preservare la parte buona dell'umanità e tutto il mondo animale, vegetale, minerale, ormai distrutto sulla terra. Una sorta di arca, idea che ricorre in epoche e culture diverse a testimoniare la contraddittorietà tra ciò cui aspiriamo e ciò che siamo. Ovviamente su esso vigeva un ordinamento planetario molto severo che avrebbe determinato l'immediata espulsione, dal collo dell'ampolla, di chiunque non avesse rispettato il bene comune. Tornando al disegno scelto da Generali Italia, rappresenta un'astronave che contiene un piccolo mondo in procinto di allontanarsi da un pianeta ridotto a groviera. Potrebbe l'astronave anche essere in viaggio da un pezzo e il pianeta essere uno dei tanti incontrati durante il percorso e non necessariamente la terra, sta di fatto che assomiglia alle spedizioni che avevo immaginato susseguirsi per condurre su HH113 tutto il salvabile. Nelle mie intenzioni si trattava di una scelta obbligata, animata dalla determinazione a non commettere mai più gli stessi errori, l'idea di una comunità aperta a tutti coloro fossero persone di buona volontà. Mi chiedo se la scelta di questo disegno, invece, non sia per far passare il messaggio che sarà giusto e bello fare così. Che non ci sarà colpa nell'aver consumato la terra. Che l'uomo potrà mantenere il proprio stile di vita sempre e ovunque e a qualsiasi prezzo. 




TIME - IL NEWS MAGAZINE

Trovo insieme all'ultimo numero di Internazionale, cui sono abbonata, un coupon pieghevole per abbonarsi a Time. 52 numeri a 33 euro, anziché i 257 euro del prezzo di copertina.  
Ho pensato, perché no? Vuoi vedere che è la buona volta che supero la mia idiosincrasia per l'inglese. Ogni volta farmi tradurre testi ed articoli utili alle mie ricerche non è così agevole. 
Poi leggendo con attenzione il coupon, trovo la seguente frase:

Grazie a Time potrete essere sempre aggiornati sulle storie che vi interessano e rimanere un passo avanti ai vostri coetanei

Mi ha urtato. Lo capite perché?

Siamo in un momento storico in cui la comprensione delle cose e della connessione tra esse è un imperativo e qualcuno mi viene a dire che ho la possibilità di essere un passo avanti? Lo sono già un passo avanti e rispetto a molti sono parecchi passi avanti. So vedere cose che paiono invisibili, e forse lo sono nella loro ovvietà, e la mia maggior frustrazione consiste proprio nel non riuscire a comunicare su comuni basi di conoscenza, di analisi e sintesi. Mi mancano le parole per spiegare ciò che non dev'essere spiegato e rimango senza argomentazioni. E qualcuno davvero vuole solleticare il mio ego promettendomi un maggiore divario? Una maggiore distanza?
Sono queste le piccole cose che alimentano il senso di rassegnazione contro cui combatto, dalla mia condizione di precarietà, una lotta quotidiana.
Credo comunque che invece continuerò a notare e segnalare i segni, anche quelli minimi, come questo, della nostra decadenza. Avrà l'intensità di un lumino ma sarà pur sempre una luce.


martedì 12 novembre 2019

LE RADICI DEL CIELO DI ROMAIN GARY


Ho ripreso in mano un libro letto parecchi anni fa.

"...
che non si possono vedere i grandi branchi correre attraverso gli immensi spazi africani senza sentirsi spinti a giurare di fare qualunque cosa pur di perpetuare fra noi la presenza di questa meraviglia della natura la cui visione farà sempre sorridere di gioia ogni uomo degno di questo nome.
...
il tempo dell'orgoglio è finito e dobbiamo guardare con maggiore umiltà e comprensione alle altre specie animali, differenti ma non inferiori.
...
Su questo pianeta l'uomo è ormai arrivato al punto di aver davvero bisogno di tutta l'amicizia che può trovare e, nella sua solitudine, ha bisogno di tutti gli elefanti, di tutti i cani, di tutti gli uccelli.
...
È tempo di rassicurarci sul nostro conto mostrando che siamo capaci di preservare questa libertà monumentale, goffa e magnifica che ancora sopravvive accanto a noi."

da "Le radici del cielo" di Romain Gary - Neri Pozza edizioni - Premio Goncourt* 1956 (!)

Un libro che racconta molto bene l'Africa. Da una prospettiva intima, la realtà socio culturale e politica di un Paese percorso dai processi di affrancamento dal colonialismo. Un libro che racconta bene la natura umana. Da leggere!

* Il premio Goncourt 2019 è stato attribuito a Jean-Paul Dubois con il romanzo "Tous les homme n'habitent pas le monde de la même façon" Ed. L'Olivier

giovedì 7 novembre 2019

GLOBICEFALI E PERPLESSITÀ SUL GIORNALISMO

Oggi pomeriggio vengo a sapere del ritrovamento stamane di un globicefalo morto a Imperia in zona Galeazza. Una femmina. Leggo che è stata portata via per accertamenti sulla causa della morte non essendo presenti ferite o altri segni evidenti che la possano spiegare. Un paio d'ore dopo sento dire che ieri è stato ritrovato un altro globicefalo spiaggiato a Diano Marina. 
Sono competente riguardo ai cetacei e nutro nei loro confronti un sentimento in sintonia con quello di Paul Watson. Immediatamente mi inquieto. 
Dopo un tardivo e inutile sopralluogo alla Galeazza, giunta a casa faccio una ricerca su internet e trovo un articolo sul sito di Liguria Nautica che fa riferimento all'esemplare trovato ieri a Diano Marina, 





poi trovo sui siti di Imperia Tv e su Liguria Oggi, riferimenti a un esemplare, anch'esso femmina, rinvenuto sempre stamane a Imperia, località Galeazza, per il quale è stata ugualmente predisposta l'autopsia. 











Leggo i vari articoli, guardo le foto e i video, finché un dubbio mi coglie. Che si tratti del medesimo globicefalo? Potrebbero non aver prelevato l'esemplare di Diano, potrebbe essere stato riportato in mare dalla mareggiata e finito poi, oltre Capoberta, a spiaggiarsi una seconda volta nel territorio di Imperia. In alternativa, potrebbe non essersi mai mosso da dov'era, fino all'odierna rimozione a fini igienici e autoptici, e le due notizie derivare o dal considerare la zona della Galeazza appartenente al Comune di Diano Marina o dalla superficialità di indagine da parte di addetti all'informazione. Comunque sia, scorrendo le notizie su Google, vien da dedurre che i ritrovamenti siano stati due e non pare proprio sia così. Non è così grave ma un po' meno d'approssimazione di questi tempi gioverebbe. Visto infatti il risultato di sentir parlare in giro di due globicefali anziché di uno. E visto che, grazie a certo giornalismo raffazzonato o prezzolato che sia, di convinzioni errate in giro c'è già sovrabbondanza.

Vi invito a osservare con attenzione i fotogrammi che ho estratti dai video e suggerire la vostra opinione in merito.

domenica 27 ottobre 2019

BURRO DANESE SALATO


Sono un po' in imbarazzo all'idea di ciò che sto per scrivere e che è molto distante dai contenuti cui dedico abitualmente la mia ricerca ma è accaduto un fatto che non riesco a togliermi di testa.
Lo so che se cerco su google cartucce per la stampante o una casa in affitto, nei giorni successivi alla mia ricerca il browser s'intasa di pubblicità di cartucce e portali immobiliari. Fin lì nulla di strano. So che se ho il telefonino acceso accanto a me mentre scherzo con il mio compagno che dice che sono sorda e lo invito a regalarmi un apparecchio acustico, alla prima connessione sul web mi appariranno offerte di apparecchi acustici di sorta. E fin lì non molto bene ma sappiamo come funziona la faccenda. Però quello che mi è accaduto alcuni giorni fa mi ha leggermente scosso.

Prima parte - Colazione a letto prima di andare a lavorare. Caffè, pane tostato, burro e marmellata. Telefonino del mio compagno sul comodino. Chiacchierando gli dico che amo il burro salato per la colazione e che da ragazza in casa mia si usava il burro danese Lurpack, quello con la carta argentata.

(Specifico che per motivi di salute da molti anni non compro burro. Ho ricominciato pochi mesi fa (due confezioni di burro chiarificato in cinque mesi) perché non posso imporre il mio regime alimentare al prossimo e perché mi è tornata una gran voglia di cucinare manicaretti e, si sa, il burro in certi casi è indispensabile in cucina. Risotto senza burro per mantecare non esiste. In ogni caso saranno minimo quindici anni che non compro burro danese.)

Seconda parte – Nel pomeriggio andiamo in un supermercato in cui mi reco mediamente una o due volte al mese per alcuni prodotti specifici. Compriamo solo tre confezioni di birra. Alla cassa passo la mia tessera fedeltà (non voglio qui aprire un capitolo sulle carte fedeltà) e a pagamento effettuato ricevo un buono sconto per una confezione di burro danese salato Lurpack.

Brivido lungo la schiena. Per essere una coincidenza, è inquietante. Percepisco fisicamente mia razionalità vacillare. Per un attimo mi sento catapultata in un mondo controllato dal Grande Fratello, un mondo ovviamente piatto e governato da rettili sotto spoglie umane, con nanochip, diffusi dalle scie chimiche, che vanno a infilarsi nei pori della nostra pelle e con sostanze chimiche introdotte in farmaci e alimenti per condizionare le nostre capacità percettive e intellettive...
Poi mi sono venuti in mente il sistema Echelon, Edward Snowden, l'NSA (l'agenzia per la sicurezza nazionale statunitense). Tutto ciò che negli ultimi decenni è stato indagato e dimostrato, attraverso interrogazioni parlamentari e inchieste serissime. E mi sono ricordata che i dati raccolti su di noi con il nostro più o meno consapevole beneplacito e quelli sottratti attraverso i nostri devices con tecniche degne della migliore letteratura di spionaggio e fantascienza, vengono venduti a grandi aziende e multinazionali. Ma a essere veramente inquietante è la velocità con cui ciò avviene. Solo un complesso e omnicomprensivo sistema di intelligenza artificiale può arrivare a tanto e se si è affidata a un tale sistema la gestione dei dati significa che esistono accordi forti, ad alto livello, non trasparenti, e ben consolidati. Ciò dà la misura dell'inesorabile inadeguatezza dei tentativi di ripensare la società in termini di equità e giustizia. Brivido lungo la schiena.


venerdì 25 ottobre 2019

RIFLESSIONI SERALI SULLA FILANTROPIA


Crediamo che progredire significhi avere più dei nostri predecessori. Non riusciamo ad affrancarci da questa convinzione. Di fronte alle evidenti e dilaganti ingiustizie e sofferenze, tutt'al più tacitiamo la nostra coscienza al pensiero di quel po' di filantropia nel mondo che mette una pezza qua e là. Ma la filantropia è siffatta per lasciare le cose come stanno: da una parte chi dà e dall'altra chi riceve. Nulla nella filantropia ha mai portato né porterà a un cambio di paradigma. Forse perché non abbiamo ben chiaro cosa significhi benessere degli altri, cosa sia il benessere degli altri. Per come ci muoviamo, continueranno a esistere gruppi di persone che daranno sostegno ad altre senza che venga messa in atto una strategia per far sì che diminuisca il numero di coloro cui è necessario dare. Lo stesso dicasi per la carità che esaurisce la propria funzione nel momento in cui viene esercitata. È il momento di dire basta. Il punto è che dal momento in cui nasciamo abbiamo dei debiti intrinseci l'uno con l'altro. Ognuno di noi è responsabile per ogni bambino morto per disidratazione, fame, annegato, saltato in aria. Ognuno di noi lo è per ogni conflitto in atto. Siamo responsabili in solidum per tutto quanto. Ma il massimo che riusciamo a fare è donare il corrispettivo di un paio di colazioni al bar. Dovremmo invece indignarci per ogni spot in cui ci chiedono due euro, raccontandoci la favola che due euro sono pochi per il singolo ma tanti singoli insieme possono fare la differenza. La differenza la farebbe insultare e mettere alle strette chi ci prende per i fondelli e dilapida milioni di euro per sovvenzioni a settori mortiferi. Chi incentiva il razzismo o le diversità quali che siano per dividere chi è sfruttato. Chi rende illegale rispondere alla propria coscienza aiutando chi chiede aiuto, riparo, cibo. Ovunque nel mondo proliferano leggi per impedire qualsiasi atto privato di solidarietà. L'unica identità che ci viene riconosciuta è quella in cui noi accettiamo di esistere per produrre, vendere e comprare. E trasformarci a nostra volta, come è, in prodotti. La povertà è la vergogna, è il tabù di questo millennio storto e malato. Su queste basi la storia dell'umanità è finita.

domenica 20 ottobre 2019

NON CE NE IMPORTA NULLA?


Non ce ne importa nulla? O è un problema di percezione? Questo è ormai il mio rovello quotidiano.
Sappiamo che è in corso una guerra, un conflitto diffuso, un insieme di guerre, chiamiamo quello che è un po' come vogliamo, ma lo sappiamo che è così. I notiziari rigurgitano morte e dolore eppure non ci sentiamo coinvolti se non nella misura di un dispiacere calmierato. Non riusciamo a percepire di esserci dentro. Le peggiori tragedie restano fatti di cui sentiamo parlare che non inficiano la nostra capacità di tornare alle nostre faccende. Abbiamo bisogno delle immagini. Dell'immagine di noi stessi dentro la guerra per crederci. Altrimenti è un qualcosa di non qui e non ora. Si tratta della distanza tra venire a sapere una cosa e credere ad essa. Della distanza tra il sapere e il sentire. Il massimo che riusciamo a concepire è che stia accadendo qualcosa di grave ma di non così diverso da cose già accadute e superate e pertanto altrettanto superabile anche senza il nostro intervento o senza che esso sia determinante. Non siamo in grado di metterci in allarme finché percepiamo fatti e problemi solo a livello concettuale e non fisico. Dovremmo ogni giorno provare la sensazione di morire sommersi da un'inondazione o sotto un bombardamento, di seppellire ogni giorno un figlio avvelenato dal cibo con cui l'abbiamo nutrito, un fratello morto d'inedia, una sorella per mancanza di cure adeguate. Di essere ogni giorno scacciati da casa nostra, ridotti in schiavitù, incarcerati per aver detto la verità, fatti saltare in aria per un ideale che non abbiamo voluto tradire. Come un girone infernale che faccia percepire a ogni molecola del nostro io che non possiamo chiamarci fuori. I dati sconvolgenti di cui veniamo a conoscenza infatti non hanno su di noi che un impatto emotivo transitorio. Crediamo che tutto avvenga in luoghi sufficientemente distanti dalle nostre individuali vite private, che avvenga a causa di grandi forze esterne e che solo da grandi forze esterne possa essere risolto. Accusiamo governi, multinazionali, poteri forti e occulti, di ciò che non va ma rimuoviamo il fatto che essi agiscono e producono per noi. Se pur per loro cospicuo profitto, essi agiscono a nostro nome vendendoci ciò che noi ci aspettiamo di poter avere. E se essi commettono dei crimini, mal amministrano le risorse, causano disordini e condizioni belliche, ci ingannano, o comunque procurano danni, noi siamo corresponsabili senza attenuanti. Quando ci degniamo di scendere per strada a manifestare dovremmo ricordare che è contro noi stessi che dovremmo principalmente farlo. Eppure proseguiamo le nostre esistenze come se tutto fosse altrove, come se noi fossimo, nel migliore dei casi, soltanto scorati e impotenti spettatori. Come quando, all'ora di punta, bloccati in un ingorgo imprechiamo contro il mondo intero, incapaci di vedere che noi siamo l'ingorgo. Che ne siamo parte integrante e pertanto causa.
Quando penso alle generazioni future mi domando se ci chiederanno dove eravamo quando avremmo potuto fare qualcosa o se, nel frattempo, si saranno abituati alle nuove condizioni di vita non avendo per esse un termine degno di paragone e si sentiranno, come noi ora, estranei alla realtà che vivranno e non responsabili per ciò che in essa andrà male.

Il quesito che resta insoluto è: come impegnarci in una guerra che non viviamo, non vediamo e che per noi deve ancora scoppiare?

mercoledì 9 ottobre 2019

MARGA MEDIAVILLA VERSUS JOHN GRAY


Ho letto, entrambi sull'ultimo numero di luglio di Internazionale, l'articolo di John Gray sulle illusioni degli ambientalisti e quello di Marga Mediavilla in risposta a John Gray. Le posizioni sono opposte. Mentre leggevo il primo, ignara di quello successivo, avevo segnato a margine alcune considerazioni alcune delle quali ho poi in parte ritrovato, ben argomentate, nell'articolo di risposta. Allo stesso modo nell'articolo di Mediavilla ho trovato passaggi su cui discutere. Ritengo che entrambi dicano cose vere ma le loro visioni restano parziali. A mio parere i loro diversi punti di vista vanno considerati unitamente e possono essere complementari.
Con una buona dose di ragione Gray sottolinea l'illusorietà dell'efficacia delle misure, apparentemente drastiche, per la riduzione delle emissioni o l'azzeramento delle stesse entro il 2050 come proposto da alcuni Paesi dell'Unione sull'onda dei movimenti Fridays for Future e Extinction Rebellion. Inefficaci come come tutti i provvedimenti urgenti che puntualmente, come usanza ai summit, vengono differiti ai decenni successivi. Misure e provvedimenti che non tengono conto, ad esempio, di meccanismi, quali quelli di retroazione che possono amplificare (retroazione positiva o feedback positivo) o diminuire (retroazione negativa o feedback negativo) gli effetti di un cambiamento e che rispondono solo a dinamiche di convenienza elettorale.
Gli stravolgimenti ormai sono insiti nel sistema. Né cortei di protesta né summit alla mercé delle lobbies potranno mai determinare una soluzione degna di tal nome. Ciò non significa che possiamo allora fregarcene ma non possiamo nemmeno illuderci. Nostro malgrado, sit in, manifesti, raccolte di firme, in buona parte procurano solo autocompiacimento e non posseggono per un'intrinseca debolezza dei movimenti di massa la forza per scalzare il potere offrendo una meditata e concreta alternativa. Laddove la determinazione individuale si indebolisce nell'illusione di una maggiore forza collettiva, al venir meno dell'impeto trascinante di questa, essa rivela la propria debolezza. Abbracciati o nascosti dal fiume in piena, nel lasciarsi trascinare dalla corrente si rilassa il tono muscolare e si dimezza il potenziale d'impatto dei singoli, che se tale rimanesse, nel sommarsi determinerebbe una potenza finale nettamente superiore a quella normalmente riscontrabile nei movimenti di massa. La percezione di una distribuzione del pericolo e della responsabilità su tanti, fa sì che singolarmente si allenti l'impegno. Nella perdita d'identità si lascia spazio al nemico, quale che sia, ed è sufficiente una preda buttata nel mezzo della piazza per generare scompiglio, incertezza, disgregazione.
Il confine tra la forza derivante dalla condivisione di un obiettivo e la perdita della determinazione individuale necessaria a raggiungerlo, proprio a causa dell'affidarsi a un'entità più grande ma, di fatto, acefala e pertanto inesistente, è molto sottile.
Insomma, non c'è scampo? Dobbiamo dunque arrenderci a un futuro in cui pochi, nelle proprie ipertecnologiche torri protese verso il cielo o sepolte sotto terra, godranno di uno stile di vita degno e si compiaceranno di ammirare i resti della biodiversità in asettiche oasi e riserve, mentre il resto dell'umanità lotterà per la sopravvivenza? O possiamo e dobbiamo ambire a qualcosa di meglio?
Dal'altro canto attribuire però una sorta di pensiero magico agli ambientalisti, tacciandoli di scarso realismo, è eccessivo e offende chi tanto seriamente si dedica a cercare di risolvere le cose ed è doveroso difendere l'operato di chi tenta con i mezzi a disposizione di dare un impulso di movimento in direzione contraria alla tendenza dominante.
Ugualmente Gray ha ragione quando sottolinea che parlare di ambiente senza tener conto della situazione geopolitica mondiale è naïf. L'eccellente saggio di Leif Wenar affronta la questione in modo molto chiaro ed efficace. Ma Gray sbaglia, invece, quando afferma che l'abbandono dei combustibili fossili creerebbe solo disordini sociali su larga scala. Gli esempi che porta sono validi e certamente sarebbe necessario attraversare un periodo di assestamenti anche drammatici ma ciò non è prova che la transizione a un nuovo assetto energetico e sociale sia impossibile.
Inoltre l'utilizzo della tecnologia per migliorare la qualità della vita anziché per incentivare la produzione, nell'ottica di un'economia da stato stazionario, non ha senso solo per i miopi. Se a ciò si aggiunge il problema demografico, Mill diceva bene quando si augurava che i posteri accettassero di essere stazionari prima di essere costretti a diventarlo per necessità. Eppure, nella nostra vecchia Europa, mentre esecriamo che altrove si prolifichi a spron battuto perché consapevoli del danno inevitabile di una popolazione in crescita esponenziale, continuiamo a lamentarci della scarsa natalità nelle nostre nazioni e auspichiamo un'inversione di tendenza. Eppure una buona regola dovrebbe valere per tutti, a prescindere dall'origine geografico culturale. E, in ogni caso, come non mi stanco di affermare, le risorse sarebbero ancora sufficienti per tutti. Se però l'alternativa ai fossili implica automobili elettriche per la cui produzione serve il doppio dell'energia rispetto a una vettura convenzionale, estrazione di metallbiocarburantii rari per le batterie, o automobili a biofuel quindi monoculture per biocarburanti, e se per far crescere il Pil si incendia e deforesta per coltivare mangimi per le nostre amate bistecche, allora siamo punto e a capo. Va interdetto tutto ciò che si accompagna all'aggettivo intensivo. Colture ed allevamento intensivi in primis. Ma, a quanto pare, conta solo aumentare le esportazioni. L'unico dictat resta accumulare ricchezza. Ribaltare tale sistema, Gray non ha torto, scatenerebbe disordini e conflitti ma questi già ci sono e non potranno che aumentare di intensità e diffusione. Rinunciare all'idea di uno stravolgimento del nostro sistema socio economico non è quindi meno illusorio che prodigarsi perché esso avvenga. Il modello di economia che abbiamo eletto sovrano non può, per sua propria natura, accettare vincoli e limiti. Nulla è impossibile per esso, meno che mai la crescita infinita, con buona pace di entropia e termodinamica. Come credere dunque che proseguire su questa strada sia meglio che batterne una nuova?
La visione di un futuro con produzione sintetica di alimenti e concentrazione della popolazione in centri urbani ad altissima densità, abbandonando gli spazi naturali a se stessi in modo che si rigenerino mi attrae anche perché tiene conto con maggiore realismo del contesto in cui viviamo. Proposte come decrescita e agricoltura biodinamica purtroppo sono fuori tempo massimo. D'altro canto è una strada che va perseguita, perché è meglio, come dice Mediavilla, decrescere meglio che decrescere peggio, visto che nella decrescita ci siamo fino al collo comunque.
Per secoli, nel nostro percorso verso la laicità, siamo stati incoraggiati a credere di avere sulla vita quel potere per secoli attribuito a dei inesistenti e oggi tale convinzione ci si ritorce contro perché ci ha resi incapaci di ritenerci parte di un unicum. Nonostante ciò perseveriamo in un delirio di onnipotenza alimentato dalla cupidigia di pochi individui molto determinati e dalla dabbenaggine, dalla disonestà, e dall'ignoranza arrogante di tanti amministratori della res publica. Come proclamò George Bush senior, il nostro stile di vita non è negoziabile. L'idolo è lì sul piedistallo. Noi siamo perfetti e in grado di fare ciò che vogliamo senza pagare dazio. Quindi chiunque pretenda un approccio realistico con problemi quali, ad esempio, il cambiamento climatico è ritenuto un disfattista.
Gray afferma che compito della scienza è determinare leggi universali indipendenti dalle convinzioni e dai valori umani. Concordo riguardo alle convinzioni. Riguardo ai valori invece sta a noi riuscire a mantenere vivi e forti principi etici e giustizia all'interno di un contesto dato per quanto difficile si presenti.
Mediavilla definisce le soluzioni di Gray rattoppi, la sua fiducia nelle invenzioni degli ingegneri illusoria. Soltanto chi è ancora convinto che le risorse siano illimitate, la più grande e deleteria utopia dgli ultimi due secoli, può pensare che tacitare gli ecologisti e affidarsi alla sola innovazione tecnologica sia la soluzione. Ma credere di poterne farne a meno è altrettanto ingenuo che credere ciecamente in essa.
Mediavilla ritiene la critica di Gray nei confronti dei movimenti ecologisti puro disprezzo ma non è proprio così. Gray analizza i fatti. Se è innegabile infatti l'importanza di sostenere i gruppi ambientalisti d'altro canto è chiaro che il loro operato è insufficiente. Non hanno il potere necessario.
Giusta, in conclusione, e l'unica che abbia veramente un senso, l'affermazione finale di Mediavilla sul fatto che stiamo comunque già decrescendo e dobbiamo solo decidere se farlo bene o male. Proteggendo la biosfera e la società o alimentando le disuguaglianze. E tocca appunto a noi decidere.

venerdì 27 settembre 2019

UNFLATTENING



Ecco un gran libro. Il fumetto (perdonate ma continuerò a chiamarli così) di Nick Sousanis è un opera di valore che andrebbe adottata nelle scuole superiori e anche nelle università. Il progetto di "Unflattening - Il pensiero visuale e la scoperta della mente grafica", edito da Lavieri, nasce con l'intento di ribellarsi alla supremazia delle parole nella trattazione di temi importanti ricordando che ogni atto cognitivo è il risultato di un processo di incorporazione dati molto complesso, in cui la componente visiva è fondamentale. La ricchezza di contenuti e le riflessioni su noi esseri umani, sul pensiero e sul linguaggio, ne fanno un testo su cui ognuno dovrebbe soffermarsi.



Deproducers - Pianeta Verde





Dall’incontro di quattro produttori del calibro di Vittorio Cosma, Gianni Maroccolo, Max Casacci e Riccardo Sinigallia nasce un progetto innovativo e coinvolgente, un connubio senza precedenti tra musica e scienza. Deproducers è una sorta di collettivo che si propone di musicare dal vivo conferenze scientifiche raccontate in maniera rigorosa ma accessibile.
Planetario, il primo capitolo del 2012, unisce la musica alle conferenze spaziali dell’astrofisico e direttore del Planetario di Milano Fabio Peri. Il tutto con il corredo delle immagini originali concesse dall’ESA per lo spettacolo.
Botanica, il secondo capitolo del 2016, crea una colonna sonora per le incredibili rivelazioni sulla vita segreta delle piante, narrate con rigore da Stefano Mancuso, uno dei massimi neurobiologi viventi.
Nel 2019 vede la luce il terzo capitolo, DNA, prodotto dai Deproducers e da AIRC. Lo spettacolo porta sul palco il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani, e gode della consulenza scientifica del professore e ricercatore Pier Paolo Di Fiore.

martedì 24 settembre 2019

UN NUOVO UMANESIMO di Giuseppe Yusuf Conte

VOGLIO RIPORTARE LE PAROLE DEL POETA E AMICO GIUSEPPE CONTE

Giuseppe Yusuf Conte
Nel 2018 in un convegno internazionale a Madera sul tema "Per un umanesimo del XXI secolo" ho pronunciato la seguente relazione:
L’umanesimo , movimento che a partire da Petrarca alzò ondate di fortissime e nuove energie spirituali, filosofiche, artistiche, ha generato l’uomo moderno e l’età moderna con una spettacolosa ripresa del sapere dei Greci e dei Romani. Lo studioso americano Stephen Greenblatt attribuisce alla scoperta del manoscritto del De rerum natura di Lucrezio, ad opera dell’umanista Poggio Bracciolini, un valore di svolta per tutto il pensiero occidentale. E intanto la dignità dell’uomo è proclamata con una fermezza e chiarezza insuperabile, attingendo oltre che a fonti classiche anche a fonti arabe e ebraiche, dal genio di Pico della Mirandola, Platone torna in Marsilio Ficino, Afrodite e Artemide sono invitate in un giardino toscano da Lorenzo il Magnifico e da Poliziano, ispirano almeno tre secoli di arte e poesia italiana. Esiste una centralità dell’uomo nell’Illuminismo di Voltaire, che afferma la tolleranza e i diritti dell’uomo, cui il più influente esponente del Romanticismo, Victor Hugo, aggiunge i diritti dell’anima. Più vicino a noi si è presentato come un umanesimo l’esistenzialismo di Sartre, un esistenzialismo non più trionfante ma espressione della crisi dell’uomo novecentesco. Ma da un certo momento in poi l’umanesimo, come dottrina della centralità dell’uomo, ha cominciato a perdere presa sulla società, la cultura umanistica è caduta in disuso non solo nei media ma persino nelle scuole, gli Antichi sono stati dimenticati, come in genere ogni tradizione, e alla cancellazione del passato è corrisposta inevitabilmente quella del futuro, verso cui spingevano da secoli sogni a occhi aperti e utopie. Se un umanesimo nascerà ancora nel XXI secolo, sarà qualcosa di totalmente nuovo, sconvolgente, un umanesimo di lotta, che individui tutte le forze disumanizzanti in atto oggi nel mondo e le combatta in nome del primato dello spirito e della persona umana, concetto su cui cultura laica e cultura religiosa possono trovare un terreno comune. Il nuovo umanesimo stabilirà un nuovo ruolo della natura e dei rapporti con essa, che devono cambiare per forza, pena la fine del genere umano sul pianeta Terra. E stabilirà un nuovo ruolo del sacro, superando i fattori che oggi dividono le religioni storiche. Penso a un umanesimo che faccia convergere ragione e passione, che ridia centralità alla conoscenza, all’anima, alla volontà, al confronto con il fato : dunque spessore all’uomo che oggi nella società dei media e della finanza globale si trova compresso nella sola dimensione di spettatore e consumatore. Siamo immersi in una realtà culturale grigiastra, dove salta la distinzione tra bene e male, dove è irrisa la ricerca della verità, dove conta soltanto l’affermazione economica. Non era mai capitato nella storia dell’uomo sulla terra che l’economia e la finanza potessero affermare senza nessuna consistente opposizione il loro dominio assoluto, potessero impunemente porsi in cima alla scala dei valori, finendo per deprezzare o disprezzare tutti gli altri. L’uomo non è più l’artefice della storia e della società in cui vive, ma semplice pedina su una scacchiera dove pochissimi re dell’economia, potenti e nascosti, giocano la loro partita vittoriosa. Un umanesimo del XXI secolo andrà contro gli eccessi disumanizzanti della robotica, lo sfruttamento irragionevole della natura, il profitto a ogni costo, la riduzione dell’essere umano a ologramma. E ridarà lo spazio sovrano che meritano alla bellezza, all’utopia, alla poesia.

sabato 14 settembre 2019

"LA LINGUA DELLA TERRA" DI GIACOMO REVELLI




Un buon libro l'ultimo di Giacomo Revelli “La lingua della terra” edito da Arkadia, nella collana Senza Rotta, curata da Marino Magliani, Luigi Preziosi, Paolo Ciampi.
Un buon libro sotto vari punti di vista. Innanzitutto è scritto bene: una lingua chiara e immediata, a tratti poetica, con efficaci intrusioni di dialetto ligure. Poi vi si racconta una storia dalla trama semplice con attenzione e profondità, senza retorica, riuscendo nell'intento di dire cose importanti senza pedanterie o moralismi. Al contrario.
Si narra dell'incontro tra un africano “clandestino” che approda in Valle Argentina e si rintana in un capanno di campagna pieno di attrezzi e veleni e il contadino che lo trova e, superata la diffidenza iniziale, cerca un modo per comunicare con lui, trovandolo nella lingua della terra che accomuna quanti con la terra ci parlano e lavorano.
La narrazione procede su due piani. Alla vicenda principale s'intreccia, attraverso la voce di quello maggiore, quella delle vicissitudini dei due figli di Bedé, quest'uomo di campagna con la sua terra, le sue olive, il suo orto, uomo ruvido ma di buon senso. Da un lato dunque gli studi, le ragazze, le spiagge della Riviera, la ribellione alle regole genitoriali, musica, fumetti, abitudini di un passato recente di cui molti facilmente si ricorderanno, dall'altro la terra, le piante, le stagioni, gli odori e i suoni della campagna, le leggi non scritte che rendono uomo e natura simbionti, il riconoscimento che inevitabilmente avviene tra chi tali leggi conosce. Ambientazione rurale descritta con cognizione di causa e sensibilità, cui si affianca il racconto dell'abbandono delle campagne e della devastazione del territorio.
Qualcuno potrebbe restare deluso dal fatto che la questione migranti sia trattata solo sfiorandola e dal non scoprire infine chi sia l'intruso, da dove arrivi e perché. Veniamo a sapere soltanto che viene da un posto tanto lontano da trovarsi oltre i margini della cartina geografica che gli viene mostrata. Nemmeno il nome ci è dato conoscere. Tutto rimane come in un limbo e questo secondo me è un punto di forza del libro. Così come è necessario di ogni individuo conoscere identità, passato, pensieri e intenzioni, prima di esprimere un qualsivoglia giudizio nei suoi confronti, in letteratura è doveroso farsi specchio della realtà. E la realtà oggi è che migliaia e migliaia di individui restano anonimi, arrivano, passano, e appunto finiscono in un limbo di statistiche e luoghi comuni tragico forse quanto ciò da cui sono fuggiti. La questione migranti è però trattata solo apparentemente in superficie perché è proprio dalla semplicità dei pensieri che vengono espressi dai vari personaggi che si può partire per arrivare a una comprensione forte. I grandi discorsi, le argomentazioni complesse, filosofiche, etiche, sociologiche, spaventano chi è già spaventato da cambiamenti che non sa gestire. Qualche riflessione, poche parole schiette dettate dal buon senso e dall'onestà possono essere maggiormente persuasive. 
Nell'ultima parte del racconto ho apprezzato una piccola svolta narrativa. Per quasi tutta la narrazione stupiti dell'apertura di Bedè nei confronti di uno straniero clandestino, fino a considerarne la condotta quasi eroica nel contrapporsi ai luoghi comuni che rendono chi è diverso pericoloso e da evitare, veniamo risvegliati dalle parole del secondogenito, ribelle e lavativo, che apostrofa il padre chiedendogli perché, se veramente ha ritenuto quell'uomo giunto da terre lontane degno di essere considerato con rispetto, non l'ha trattato veramente da pari offrendogli ospitalità in casa anziché concedergli quella riservata a un cane randagio o a un servitore diligente.
Un buon libro che mi ha fatto pensare a Calvino de “La strada di San Giovanni” e a Pearl's Buck de “La Buona Terra”.

lunedì 29 luglio 2019

IL GOVERNO CHE VORREI


Viviamo in una società isterica che cova desideri di rivalsa ma non lo ammette, che si fa forza cercando di attrarre gli interlocutori dalla propria parte, non con solide argomentazioni ma provocandone le reazioni con opinioni spesso bieche, in un tentativo di corruzione metodico. Ciò nella speranza che chi è di fronte ceda, si tradisca, esprima a propria volta opinioni e sentimenti di cui altrimenti si vergognerebbe. Un processo di svilimento e immiserimento della società in cui si rafforzano, a danno di tutti, pressapochismo e aggressività. Un rancore pervasivo che non aspetta altro che di prendere alle spalle chi non si omologa.

L'inadeguatezza dei vecchi sistemi di governo, la sfiducia nel loro operato, la stanchezza che sfocia in rabbia. Questi sono i temi centrali che accomunano le crisi politiche nel mondo intero e che vengono elusi ignorando o fingendo di ignorarne le cause prime.

Il problema è che i vari Paesi ragionano senza un'opportuna visione transnazionale perché ancorati a una concezione politica inscritta nei relativi confini nazionali, nella convinzione dell'unicità ognuno della propria storia nazionale. Come se mantenere la memoria storica e culturale del proprio Paese fosse in contraddizione con l'elaborazione di una strategia politica unitaria.

Oggi tutti i Paesi fanno parte del medesimo sistema e sono sottoposti alle medesime forze e pressioni. Deregolamentazione finanziaria, impatto tecnologico, pervasività dei media, informazione mediocre, incapacità di controllo sui flussi di denaro, individui deprivati di diritti, di identità, di un luogo cui dignitosamente appartenere, precarietà nelle varie sue forme. È disonesto sostenere l'esistenza di soluzioni che non siano collettive e, soprattutto, vincolanti senza eccezioni. Abbiamo, inevitabilmente, optato per un mondo globalizzato ma ci siamo fermati all'inizio dell'opera e pretendiamo di poter all'infinito esternalizzare gli effetti collaterali dovuti alla nostra mancanza di serietà progettuale. Illusi di poter riversare le passività in luoghi altri del tutto separati da quello in cui viviamo, come quel tipo che ha commentato, a proposito di uno sversamento di oli nel mare qua davanti, tanto la corrente va verso la Costa Azzurra. Con quali parole si può arrivare a riattivare le sinapsi di chi sragiona in tali termini?

Nello scadimento generale, l'erosione progressiva dello Stato, istituzione certo da ripensare ma imprescindibile in previsione di un nuovo assetto politico mondiale, oggi è prerogativa comune alle varie nazioni. Le autorità politiche nazionali sono tutte, salvo rare eccezioni, in evidente declino, anche laddove fino a pochi anni fa si poteva parlare di eccellenze. Rappresentando ciò l'unica realtà evidente conosciuta dalle ultime generazioni, a parte gli inconsapevoli della gravità dei problemi in cui siamo immersi e pertanto beatamente o, mi si perdoni la libertà semantica e l'asprezza di giudizio, beotamente integrati, a parte gli opportunisti e i faccendieri, a molti tra coloro che restano pare di essere in prossimità della fine del mondo anziché di fronte a un cambiamento di paradigma inevitabile e auspicabile. Coloro che, invece, vedono tale prospettiva purtroppo sono pochi e malvisti. Il fatto incontrovertibile è che nessuno Stato è in grado di uscire da questa situazione di crisi da solo. Crisi deriva dal verbo greco krino (κρίνω) che significa separare, cernere, da cui in senso lato distinguere, discernere, giudicare, capire, quindi scegliere. La crisi comporta una scelta, anzi obbliga ad essa. Vivere in un periodo di crisi, tanto più quando essa si protrae e accentua, significa essere investiti da una responsabilità etica individuale e collettiva, non eludibile e non cedibile, nei confronti di se stessi e dell'intera società umana nel suo divenire. Un imperativo categorico di buona conduzione del bene comune. Che piaccia o no. In ogni epoca accade. Se questa volta pare più ardua delle precedenti forse è solo perché le altre non c'eravamo e non abbiamo idea della fatica che hanno dovuto fare coloro che hanno tenuto duro in nome di quegli ideali che ci permettono di chiamarci uomini.

Se vogliamo progredire, dobbiamo immaginare forme politiche nuove, visionarie, lungimiranti. Dobbiamo completare il processo di globalizzazione con un'innovazione di pensiero che permetta di affrancarci dalla pressione di problemi che noi stessi per incapacità o superficialità d'analisi abbiamo determinato e dal controllo esercitato da coloro cui abbiamo demandato la gestione delle nostre vite, e che tutto sono fuorché governanti. Anche qui, la verità sta nel senso della parola. Governare significa reggere il timone. A chi risulta che il timoniere debba far affondare l'imbarcazione affidatagli? I timonieri servono ma devono essere capaci altrimenti vanno sostituiti. Il problema è che in pochi ne capiscono di mare e per la maggior parte dell'equipaggio e dei passeggeri, se c'è uno al timone vuol dire che sarà capace.

Lo ripeto, nuove forme politiche, visionarie, lungimiranti. Non è utopia come generalmente afferma chi, a corto di argomentazioni, si limita a liquidare il discorso senza sottoporsi a un reale e onesto confronto. La vera utopia, meglio, la vera illusione è credere che tutto possa continuare in questo modo, con qualche pezza qua è là, per salvare la faccia. Governi che promettono grandi cambiamenti per convincere di avere tutto sotto controllo con l'evidenza contraria sotto agli occhi di tutti.

Noi Paesi occidentali opponiamo forse una maggiore resistenza mentale all'idea di un cambiamento tanto radicale perché con difficoltà consideriamo possano esserci forze esterne in grado di influenzare, controllare, modificare, le nostre vicende nazionali, rispetto ai Paesi in via di sviluppo per i quali è sempre stato così. Ci siamo disinteressati di quanto accadeva e accade in vaste zone del pianeta e oggi ci stupiamo per gli effetti che tale disinteresse ha generato.


Non possiamo accettare oltre di essere diretti da speculatori che scommettono sulla penuria delle risorse, da arraffatori di ricchezze, da politici che decidono, ripeto, decidono di non occuparsi dei problemi rimbalzandoli alle generazioni future.

È necessaria la nascita di una democrazia che travalichi i confini degli Stati, che sia in grado di assicurare equità per chiunque. Una nuova concezione di cittadinanza. Nazioni inserite in un'unica architettura di strutture transnazionali stabili, capaci di evitare che le difficoltà di singoli Paesi determinino il collasso del sistema, anzi in cui sarà il sistema stesso a risollevare le sorti di chi è in difficoltà. Tale architettura pertanto non potrà reggersi esclusivamente su principi economico finanziari ma dovrà porre le fondamenta su valori di giustizia e di giustezza da realizzare in tutti gli ambiti di interesse comune quali risorse, salute, istruzione, salari, ambiente, produzione. Un socialismo liberale planetario. Non è accettabile vivere in un sistema siffatto in cui esistano differenze tanto radicali in termini di dignità di vita. Una società in cui, man mano che le cose si mettono al peggio, la “survival tech” permette, in parte, a una buona porzione di individui di sopravvivere senza pretendere dai governi cambiamenti reali. A oggi, la quasi totalità delle innovazioni tecnologiche favorisce infatti lo status quo. Quegli stessi individui che, quando le cose il peggio lo avranno raggiunto, scopriranno che gli strumenti a quel punto necessari saranno alla portata esclusivamente di una ristretta élite.

La mancanza di una strategia realmente progressista, di cui lo stesso capitalismo evidentemente necessita, l'assenza di un equilibrio tra mercati e società civile, con una pericolosa concentrazione della ricchezza, in termini di denaro, risorse, e dati, sono fattori che non potranno che far collassare gravemente l'impianto sociale.

È provato che le società con meno disuguaglianze funzionano meglio. Quindi è realistico pensare che una società globale all'insegna dell'equità e della gestione del buon padre di famiglia sia l'obiettivo cui tendere.

L'ostinarsi in un immobilismo cieco e sordo, al contrario, è posizione da condannare senza concedere attenuanti.



lunedì 15 luglio 2019

SAREMO AFRICA



Treno direzione Genova. Entro nello scompartimento. Di quelli rialzati con i gradini, con meno posti a sedere degli altri. È quasi pieno. Africani. Subsahariani. Trovo due sedili liberi, mi siedo lato finestrino. Alla fermata successiva sale un africano piuttosto anziano con una grande borsa di plastica di cose da vendere. Sposto la mia roba e gli faccio cenno di accomodarsi. Ci guardiamo per un secondo poi più nulla. M'incanto a guardare il mare che scorre a pochi metri dalle rotaie. Incantevole residuo di villeggiature d'altri tempi, destinato alla dismissione, tratta dopo tratta. Alle orecchie giunge il suono di una lingua sconosciuta ma famigliare. Alle narici l'odore intenso di un popolo lontano. Resto con lo sguardo sul mare. Improvvisamente sono lungo una linea ferroviaria africana. Straniera in terra altrui. Parrebbe. Il fatto è che sto bene. Quest'intenso senso di straniamento mi procura un inatteso e profondo stato di benessere. Non mi sento per nulla straniera. È tutto normale. Sto abitando il mondo reale. La contaminazione. Inevitabile e pacificatrice. Il pensiero che, non tanto numeri alla mano ma consapevolezza del restringimento del pianeta, saremo Africa sblocca il diaframma. Siamo Africa. Lo saremo sempre più. Così dev'essere. Con lucidità vedo lo svolgersi della storia dell'uomo. E sorrido. Ringrazio. Mi rincresce per chi non riesce a vedere, a sentire. Prego ogni giorno affinché sempre più persone si affranchino dalla paura e riescano a provare il medesimo sollievo che provo io in questo momento.

Giugno 2019

APPARTENIAMO TUTTI AL SISTEMA BIOSFERA


L'unica specie a concepire l'idea di futuro, pertanto in grado di guardare avanti, oltre le istintive necessità prossime, siamo noi. Gli unici capaci di riconoscere intellettualmente (e, badate, non ho scritto intellettivamente, ché ciò riesce a tutte le specie...) le opportunità utili alla sopravvivenza. Eppure i fatti sembrano provare il contrario. Forse perché siamo eccessivamente concentrati ognuno sulla propria singola sopravvivenza individuale. Sulla propria e su quella di pochi intimi e affini. Non riusciamo a pensare a noi stessi come parte di un biosistema. Il senso di unicità che ci contraddistingue, e che ha permesso ad alcuni individui di eccellere, ci illude di esserne al di fuori.
A un certo punto della storia umana è subentrato un qualche elemento che ha accelerato questo senso di estraniazione, l'illusione di essere separati dalla natura, la convinzione alla base della nostra cultura di essere la forma di vita superiore sulla terra. Mentre, al contrario, il solo pensare ciò è da considerarsi un disturbo psichico vero e proprio, una forma di disadattamento, di scollamento dal reale, al pari di altri per i quali riteniamo doverosa una cura. Infatti la presunzione di tale superiorità non è supportata da alcuna verifica fattuale. Ciò che ci dice la scienza è che, per vari motivi, troppo lungo qui entrare nel merito, abbiamo goduto di un canale preferenziale nell'evoluzione e ci siamo evoluti fino a ottenere complesse e stupefacenti forme espressive non riscontrabili in altri animali. Leggendo, se necessario più volte, la precedente frase dovrebbe essere evidente a tutti che utilizzarla come fondamenta della nostra superiorità di specie, non funziona. Non dice quella cosa lì. Ne dice un'altra, di cosa. Per spiegarmi. Una serie di semplici domande. Se io non riscontro una cosa, questa cosa non esiste? Il non riscontrare in un altro un livello di evoluzione pari al proprio nega che questi possa possederne uno superiore? In quale realtà logica pari evoluzione esprime un valore qualitativo? Forzatamente l'evoluzione di chi cerca riscontro è da considerarsi il metro di misura universale? Giusto così, per ragionarci sopra.
Dunque perché affermiamo con tanta convinzione di essere il risultato sommo dell'intera storia biologica? Per sentirci liberi? Svincolati da oneri etici e leggi fisiche? Quindi per paura della morte? Esposti al rischio delle contingenze, siamo a tal punto spauriti e fragili tra le nostre paure?
Anziché ammirare la perfezione del sistema universo ce ne vogliamo affrancare nella vana ricerca di una salvezza che, invece, si rivelerà rovina. Umano, molto umano, forse troppo. Difficile accettare che la nostra personale esistenza sia a tempo determinato. Ma così è e così deve essere, pena la fine della vita. Questione di entropia. Difficile accettare di dover, a un certo momento, terminare. Vorremmo non toccasse mai a noi ma l'unica cosa che possiamo fare è tentare di morire bene. Poter dire nell'ultima ora, sono felice, come suggeriva Solone. E per morire bene bisogna vivere bene. Non intendo senza problemi ma con dentro sempre chiaro e forte il significato dell'esistere. Purtroppo, però, pochi tra noi riescono in questo, e maggiormente coloro che sono a contatto stretto con la natura. La maggior parte delle persone però non ha questa fortuna. Crediamo dunque di sapere tutto ma non sappiamo nulla o ben poco. Tutta la nostra scienza, se commisurata alla realtà, è primitiva e infantile. Dovremmo, prima di ogni altra cosa, attendere alla comprensione della natura, tornare ad essa, ascoltandone le armonie anziché tentare di modificarla. Invece i molti che vivono in stretto rapporto con un habitat naturale, oggi, subiscono principalmente le ricadute, spesso drammatiche, dei nostri abusi. La natura nemica. Se nell'antichità lo era per il proprio manifestarsi, a volte improvviso e violento, in forme e modi che l'uomo non poteva contrastare, ora giorno dopo giorno essa ci restituisce la morte che le abbiamo procurato. Terre morte, acque tossiche, aria contaminata, cibo infetto. Brontoliamo un po' ma non tentiamo un salto di qualità. Rinunciamo a priori a qualsiasi ipotesi di luce.
Esploriamo lo spazio ma nemmeno questo ha il minimo effetto su di noi in termini di comprensione e quindi di guarigione. Cerchiamo altre forme di vita altrove e ignoriamo quelle che ci circondano, di molte delle quali non sospettiamo neanche l'esistenza. Abbiamo identificato meno di 2 milioni di specie su un totale stimato tra 7 e 15 milioni (probabilmente sono molte di più). Una perdita del 10%, media calcolata nell'arco dei prossimi decenni, indica che assisteremo alla scomparsa di decine di migliaia di specie, molte delle quali non hanno un nome. Perfino per quelle che lo hanno, non saremo in grado di indicare il momento in cui si estingueranno. Sono come "morti viventi", specie destinate a morire perché i loro habitat sono diventati troppo piccoli. I tassi di estinzione attuali procedono a ritmi cento volte superiori a quelli naturali preistorici. E per il futuro, il tasso di estinzione subirà una probabile accelerazione di oltre mille volte maggiore rispetto a quella naturale preistorica, dal momento che la deforestazione delle aree tropicali distrugge anche gli ultimi rifugi di molte specie. Oltre all'estinzione, inoltre, esiste un fenomeno più nascosto che è quello della defaunizzazione e cioè della diminuizione del numero di individui, del peso quantitativo di una specie, della sua biomassa. Una sorta di annichilimento biologico che alla fin fine patirà in primis chi sta in cima alla catena alimentare. Noi. Anche perdere solo un 20, 30% di una specie può determinare la sparizione di altre, in un effetto domino non arrestabile che porterà al collasso del sistema.
Egoismo, situazione economica, situazione politica ci illudono però che la vita consista solo degli elementi di cui l'abbiamo riempita. Nient'altro. Tutto il resto è accessorio. Ogni considerazione che riguardi quanto sentiamo estraneo a ciò che abbiamo deciso essere il mondo è opinabile quando non ignorabile. L'ambiente in cui viviamo e che abbiamo creato conferma l'illusione della non appartenenza al ciclo vitale.
Dopo la rivoluzione industriale abbiamo perso il precedente sistema di vita che era rigenerativo e siamo passati al dogma dell'inesauribilità. Prima tutto veniva dal sole che rappresentava la quantità massima di energia a nostra disposizione, sufficiente all'incirca per un miliardo di persone sul pianeta. I combustibili fossili e la rivoluzione agricola hanno accelerato i processi di produzione e l'incremento demografico, e ora non riusciamo più a fermarci. Dal 1800 al 1930 siamo passati da 1 miliardo di persone a 2 miliardi. Nei successivi 30 anni siamo passati a 3 miliardi. Nei vent'anni seguenti, dal 1960 al 1980 siamo raddoppiati e giunti a 6 miliardi. Dopodiché un leggero rallentamento ma siamo comunque alla soglia degli 8 miliardi e nel giro di una trentina d'anni arriveremo a 10 miliardi. Sarebbe a dire decuplicati in 150 anni con solo più un decimo della superficie terrestre libero dall'impatto dell'attività umana E come ci siamo organizzati per questo condominio sovraffollato? Commerciamo emissioni, trasformiamo la gestione dei rifiuti in un allettante affare, li “esportiamo”, e ne ricicliamo meno del 10% a livello mondiale. Ricopriamo la terra ogni anno di tanto cemento da poterci fare una colata sull'Inghilterra intera e disboschiamo al ritmo di trenta campi di calcio al minuto. Basiamo la nostra esistenza su un'economia di rapina, sulla cultura del rinvio e dell'approssimazione. E per quello che non vogliamo vedere, residui mefitici e tossici del nostro operare, tutto in fondo al mare come sotto al tappeto. Fino a quando cercheremo di coltivare terre sterili, lontani da coste allagate, sottoposti a un clima ostile e finalmente capiremo di dover sopravvivere su quel che resterà del pianeta. Eppure.
Capi di Stato provano a eliminare ministeri dell'ambiente, vedi il tentativo di Bolsonaro, evangelici sostengono lobby delle armi, mafie si ripuliscono nel rinnovabile, governi regalano terre e risorse in cambio di sostegno militar elettorale, ... Investiamo esclusivamente in attività intensive, agricoltura a monoculture e allevamenti, promettiamo transamazzoniche e vie della seta, prosciughiamo o avveleniamo falde acquifere, facciamo a gara per la diga più grossa e per la trivella più lunga, sottraiamo nutrimento alla terra, le fracassiamo l'ossatura, la scortichiamo.
Sbraniamo a testa bassa.
Oggettivamente come possiamo pensare di sfangarla? Vista e considerata la nostra scelleratezza. Hanno portato al tavolo un menu ricco di ogni ben di Dio e noi abbiamo ordinato tutto, alcuni han preso parecchi giri di portate e ora, dopo soli duecento anni di bagordi, il cameriere ha portato il conto e non c'è portafogli in grado di saldarlo.
E noi, commensali, che facciamo? Sorridiamo, forse appena imbarazzati, e al cameriere facciamo con le dita cenno, Segna, segna sul conto.
A volte penso che i nostri eccessi siano al contempo indice della nostra miseria e il nostro modo migliore per nasconderla a noi stessi. Credo anche che molti, probabilmente, siano in buona fede. Incapaci di vedere.
Siamo così piccoli che sovrastimiamo lo spazio. È l'unica spiegazione. Vittime di una sorta di fallace algoritmo dell'infinitezza. Così come, ad esempio, per la stragrande maggioranza dei brasiliani la foresta amazzonica è “distante”, una sorta di terra di nessuno, contenuto di documentari da divano, ugualmente tutti viviamo le gravi realtà che stanno sfinendo il pianeta e i suoi abitanti come qualcosa che non ci riguarda. Quel famoso senso di estraneità di cui dicevo all'inizio.
Ho letto, qualche tempo fa, la seguente frase: “Le condizioni entro le quali un popolo produce il proprio sostentamento sono quelle che regolano la sua selezione.” Ne ho intuito subito la forza ma ho dovuto leggerla e rileggerla per comprenderne la portata. Un circolo vizioso. Che fa sì che l'essere umano venga a manifestare esso stesso la contaminazione qualitativa di ciò che produce e di cui si nutre o si serve, e più si abbassa il livello qualitativo, gioco forza la successiva produzione sarà su parametri ancor più scadenti, possedendo sempre meno il cervello la capacità di elaborare progetti alti. Avranno più possibilità di sopravvivenza coloro che sapranno adattarsi con inerzia a questi standard sempre più bassi. L'ho sintetizzata così. Diventiamo quello cui ci aggrappiamo.
Si parla molto negli ultimi tempi di cambiamenti climatici, e c'è ancora chi perde tempo a discutere, ci sono, non ci sono, chi lo sa, mentre la comunità scientifica internazionale, quando non prezzolata, è d'accordo sui punti base della faccenda. Nonostante ciò temporeggiamo. Finché avremo ancora per ognuno di noi di che continuare a vivere come siamo abituati ci sembrerà ragionevole credere che una soluzione verrà trovata. Ma è proprio su questo verrà che bisogna ragionare. Verrà da chi? Verrà quando? Verrà come?
Abbiamo eletto l'avidità a sistema e abbiamo svenduto la vita nostra e quella della nostra discendenza. Non riusciremo mai a legiferare in maniera saggia e lungimirante perché abbiamo ceduto ogni autorità. Non ci interessa capire come funzionano le cose ma solo usarle e illuderci di possederle. Ci preoccupiamo, ad esempio, solo di imparare a sfruttare le potenzialità delle applicazioni dei nostri devices ma ci è del tutto indifferente comprendere come vengano realizzati, come funzionino, cosa comporti la realizzazione dei benefici di cui usufruiamo. Insomma non siamo curiosi di vedere cosa c'è dietro, cosa c'è “dentro”. L'approccio logico e analitico dei fatti ci pare sofisma da perditempo.
E poi ci rassicurano. Dicono, alcuni, che la fine dell'umanità è lontana. Mi piacciono queste verità che nascondono un inganno. È una sfida smascherarle. Probabilmente è vero che la fine dell'umanità, in quanto specie, è, relativamente, lontana. Si estinguerà infatti solo la gran parte di essa. Prima diminuirà, come accade per gli altri animali, la biomassa, cioè la quantità di individui, il peso ponderale della specie. Una parte riuscirà sicuramente a far fronte agli stravolgimenti incalzanti. Da chi sarà costituita questa parte?
È qui che ognuno di noi sarebbe tenuto a entrare in gioco. La ribellione allo status quo è stato sovente origine di progresso e rinascita sociale ma come portare persone non colpite direttamente da un problema a interessarsene? Come riuscire a far passare il concetto su ciò che è legittimo e ciò che non lo è, nel momento in cui l'effetto, apparentemente, non ci tocca?
Forse partendo dalle basi. Esiste un sistema dato A, la biosfera, che comprende anche noi, e un sottosistema B, che potremmo chiamare sinteticamente economia, all'interno di cui operiamo. Il sistema A è fisso, il sottosistema B è in espansione continua. Le deduzioni le lascio a voi.
In passato la natura ci forniva tutto gratuitamente, oggi per ottenere un risultato vagamente paragonabile dobbiamo spendere decine di trilioni di dollari all'anno. Per quanto evoluta e sofisticata, nessuna tecnologia è in grado di darci ciò che la natura può offrire in un contesto rigenerativo. Siamo indubbiamente troppi, però potremmo impegnarci maggiormente.
Finché però per ogni carico di prodotti ne corrispondono una trentina di rifiuti, finché si spendono centinaia di miliardi di dollari ogni anno in pubblicità o in sovvenzioni all'agricoltura intensiva, finché si spende in armamenti ogni anno l'equivalente di intere economie nazionali, o si persevera nell'iperproduzione di beni non durevoli in buona misura superflui, finché adoreremo l'idolo dell'All you can eat, non ne verremo fuori.
Serve un cambiamento culturale innanzitutto. Dobbiamo ricominciare ad apprendere per esperienza diretta, smettere di essere fruitori passivi di una realtà preconfezionata, risvegliarci.
Inebetiti abbiamo smarrito il senso della bellezza del mondo. Siamo alla continua ricerca di qualcosa che ci manca senza sapere più cosa abbiamo perso e che determina il senso di mancanza che proviamo. Dobbiamo renderci conto delle forze globali che influenziamo e che a loro volta gioco forza influenzeranno la nostra vita. Dobbiamo fare atto di umiltà e ammettere di dover rivedere tutta quanta la faccenda.
È stata globalizzata un'aspettativa di stile di vita senza prima misurarla, senza calcolarne l'impatto.
Se non è da psichiatria perseverare in questa direzione, cosa lo è?
Siamo certi di tante cose, abbiamo costruito su queste certezze tutto quanto ma esse, a parte quella della nostra fallibilità, sono quasi sempre un inganno. Le usiamo per consolarci, reduci da disastri. Per appoggiarci quando neghiamo un dubbio. Un'illusione cui indulgiamo e che induce l'uomo a ricadere periodicamente nell'oscurità.
Cosa potremmo fare dunque? Potremmo intanto provare a capovolgere la prospettiva e anziché giustificare la nostra inerzia con una fantomatica impossibilità a risolvere la questione, iniziare a dire: Che bello! Quale grande occasione di rendere questo periodo storico quello del grande cambiamento. Le tecnologie non possono risolvere tutto ma intanto potrebbero, se usate nel modo dovuto, ridurre il nostro impatto di un buon 60%. Poi potremmo rallentare un po', goderci di più la vita e cercare di essere più intelligenti.

maggio