lunedì 29 luglio 2019

IL GOVERNO CHE VORREI


Viviamo in una società isterica che cova desideri di rivalsa ma non lo ammette, che si fa forza cercando di attrarre gli interlocutori dalla propria parte, non con solide argomentazioni ma provocandone le reazioni con opinioni spesso bieche, in un tentativo di corruzione metodico. Ciò nella speranza che chi è di fronte ceda, si tradisca, esprima a propria volta opinioni e sentimenti di cui altrimenti si vergognerebbe. Un processo di svilimento e immiserimento della società in cui si rafforzano, a danno di tutti, pressapochismo e aggressività. Un rancore pervasivo che non aspetta altro che di prendere alle spalle chi non si omologa.

L'inadeguatezza dei vecchi sistemi di governo, la sfiducia nel loro operato, la stanchezza che sfocia in rabbia. Questi sono i temi centrali che accomunano le crisi politiche nel mondo intero e che vengono elusi ignorando o fingendo di ignorarne le cause prime.

Il problema è che i vari Paesi ragionano senza un'opportuna visione transnazionale perché ancorati a una concezione politica inscritta nei relativi confini nazionali, nella convinzione dell'unicità ognuno della propria storia nazionale. Come se mantenere la memoria storica e culturale del proprio Paese fosse in contraddizione con l'elaborazione di una strategia politica unitaria.

Oggi tutti i Paesi fanno parte del medesimo sistema e sono sottoposti alle medesime forze e pressioni. Deregolamentazione finanziaria, impatto tecnologico, pervasività dei media, informazione mediocre, incapacità di controllo sui flussi di denaro, individui deprivati di diritti, di identità, di un luogo cui dignitosamente appartenere, precarietà nelle varie sue forme. È disonesto sostenere l'esistenza di soluzioni che non siano collettive e, soprattutto, vincolanti senza eccezioni. Abbiamo, inevitabilmente, optato per un mondo globalizzato ma ci siamo fermati all'inizio dell'opera e pretendiamo di poter all'infinito esternalizzare gli effetti collaterali dovuti alla nostra mancanza di serietà progettuale. Illusi di poter riversare le passività in luoghi altri del tutto separati da quello in cui viviamo, come quel tipo che ha commentato, a proposito di uno sversamento di oli nel mare qua davanti, tanto la corrente va verso la Costa Azzurra. Con quali parole si può arrivare a riattivare le sinapsi di chi sragiona in tali termini?

Nello scadimento generale, l'erosione progressiva dello Stato, istituzione certo da ripensare ma imprescindibile in previsione di un nuovo assetto politico mondiale, oggi è prerogativa comune alle varie nazioni. Le autorità politiche nazionali sono tutte, salvo rare eccezioni, in evidente declino, anche laddove fino a pochi anni fa si poteva parlare di eccellenze. Rappresentando ciò l'unica realtà evidente conosciuta dalle ultime generazioni, a parte gli inconsapevoli della gravità dei problemi in cui siamo immersi e pertanto beatamente o, mi si perdoni la libertà semantica e l'asprezza di giudizio, beotamente integrati, a parte gli opportunisti e i faccendieri, a molti tra coloro che restano pare di essere in prossimità della fine del mondo anziché di fronte a un cambiamento di paradigma inevitabile e auspicabile. Coloro che, invece, vedono tale prospettiva purtroppo sono pochi e malvisti. Il fatto incontrovertibile è che nessuno Stato è in grado di uscire da questa situazione di crisi da solo. Crisi deriva dal verbo greco krino (κρίνω) che significa separare, cernere, da cui in senso lato distinguere, discernere, giudicare, capire, quindi scegliere. La crisi comporta una scelta, anzi obbliga ad essa. Vivere in un periodo di crisi, tanto più quando essa si protrae e accentua, significa essere investiti da una responsabilità etica individuale e collettiva, non eludibile e non cedibile, nei confronti di se stessi e dell'intera società umana nel suo divenire. Un imperativo categorico di buona conduzione del bene comune. Che piaccia o no. In ogni epoca accade. Se questa volta pare più ardua delle precedenti forse è solo perché le altre non c'eravamo e non abbiamo idea della fatica che hanno dovuto fare coloro che hanno tenuto duro in nome di quegli ideali che ci permettono di chiamarci uomini.

Se vogliamo progredire, dobbiamo immaginare forme politiche nuove, visionarie, lungimiranti. Dobbiamo completare il processo di globalizzazione con un'innovazione di pensiero che permetta di affrancarci dalla pressione di problemi che noi stessi per incapacità o superficialità d'analisi abbiamo determinato e dal controllo esercitato da coloro cui abbiamo demandato la gestione delle nostre vite, e che tutto sono fuorché governanti. Anche qui, la verità sta nel senso della parola. Governare significa reggere il timone. A chi risulta che il timoniere debba far affondare l'imbarcazione affidatagli? I timonieri servono ma devono essere capaci altrimenti vanno sostituiti. Il problema è che in pochi ne capiscono di mare e per la maggior parte dell'equipaggio e dei passeggeri, se c'è uno al timone vuol dire che sarà capace.

Lo ripeto, nuove forme politiche, visionarie, lungimiranti. Non è utopia come generalmente afferma chi, a corto di argomentazioni, si limita a liquidare il discorso senza sottoporsi a un reale e onesto confronto. La vera utopia, meglio, la vera illusione è credere che tutto possa continuare in questo modo, con qualche pezza qua è là, per salvare la faccia. Governi che promettono grandi cambiamenti per convincere di avere tutto sotto controllo con l'evidenza contraria sotto agli occhi di tutti.

Noi Paesi occidentali opponiamo forse una maggiore resistenza mentale all'idea di un cambiamento tanto radicale perché con difficoltà consideriamo possano esserci forze esterne in grado di influenzare, controllare, modificare, le nostre vicende nazionali, rispetto ai Paesi in via di sviluppo per i quali è sempre stato così. Ci siamo disinteressati di quanto accadeva e accade in vaste zone del pianeta e oggi ci stupiamo per gli effetti che tale disinteresse ha generato.


Non possiamo accettare oltre di essere diretti da speculatori che scommettono sulla penuria delle risorse, da arraffatori di ricchezze, da politici che decidono, ripeto, decidono di non occuparsi dei problemi rimbalzandoli alle generazioni future.

È necessaria la nascita di una democrazia che travalichi i confini degli Stati, che sia in grado di assicurare equità per chiunque. Una nuova concezione di cittadinanza. Nazioni inserite in un'unica architettura di strutture transnazionali stabili, capaci di evitare che le difficoltà di singoli Paesi determinino il collasso del sistema, anzi in cui sarà il sistema stesso a risollevare le sorti di chi è in difficoltà. Tale architettura pertanto non potrà reggersi esclusivamente su principi economico finanziari ma dovrà porre le fondamenta su valori di giustizia e di giustezza da realizzare in tutti gli ambiti di interesse comune quali risorse, salute, istruzione, salari, ambiente, produzione. Un socialismo liberale planetario. Non è accettabile vivere in un sistema siffatto in cui esistano differenze tanto radicali in termini di dignità di vita. Una società in cui, man mano che le cose si mettono al peggio, la “survival tech” permette, in parte, a una buona porzione di individui di sopravvivere senza pretendere dai governi cambiamenti reali. A oggi, la quasi totalità delle innovazioni tecnologiche favorisce infatti lo status quo. Quegli stessi individui che, quando le cose il peggio lo avranno raggiunto, scopriranno che gli strumenti a quel punto necessari saranno alla portata esclusivamente di una ristretta élite.

La mancanza di una strategia realmente progressista, di cui lo stesso capitalismo evidentemente necessita, l'assenza di un equilibrio tra mercati e società civile, con una pericolosa concentrazione della ricchezza, in termini di denaro, risorse, e dati, sono fattori che non potranno che far collassare gravemente l'impianto sociale.

È provato che le società con meno disuguaglianze funzionano meglio. Quindi è realistico pensare che una società globale all'insegna dell'equità e della gestione del buon padre di famiglia sia l'obiettivo cui tendere.

L'ostinarsi in un immobilismo cieco e sordo, al contrario, è posizione da condannare senza concedere attenuanti.



lunedì 15 luglio 2019

SAREMO AFRICA



Treno direzione Genova. Entro nello scompartimento. Di quelli rialzati con i gradini, con meno posti a sedere degli altri. È quasi pieno. Africani. Subsahariani. Trovo due sedili liberi, mi siedo lato finestrino. Alla fermata successiva sale un africano piuttosto anziano con una grande borsa di plastica di cose da vendere. Sposto la mia roba e gli faccio cenno di accomodarsi. Ci guardiamo per un secondo poi più nulla. M'incanto a guardare il mare che scorre a pochi metri dalle rotaie. Incantevole residuo di villeggiature d'altri tempi, destinato alla dismissione, tratta dopo tratta. Alle orecchie giunge il suono di una lingua sconosciuta ma famigliare. Alle narici l'odore intenso di un popolo lontano. Resto con lo sguardo sul mare. Improvvisamente sono lungo una linea ferroviaria africana. Straniera in terra altrui. Parrebbe. Il fatto è che sto bene. Quest'intenso senso di straniamento mi procura un inatteso e profondo stato di benessere. Non mi sento per nulla straniera. È tutto normale. Sto abitando il mondo reale. La contaminazione. Inevitabile e pacificatrice. Il pensiero che, non tanto numeri alla mano ma consapevolezza del restringimento del pianeta, saremo Africa sblocca il diaframma. Siamo Africa. Lo saremo sempre più. Così dev'essere. Con lucidità vedo lo svolgersi della storia dell'uomo. E sorrido. Ringrazio. Mi rincresce per chi non riesce a vedere, a sentire. Prego ogni giorno affinché sempre più persone si affranchino dalla paura e riescano a provare il medesimo sollievo che provo io in questo momento.

Giugno 2019

APPARTENIAMO TUTTI AL SISTEMA BIOSFERA


L'unica specie a concepire l'idea di futuro, pertanto in grado di guardare avanti, oltre le istintive necessità prossime, siamo noi. Gli unici capaci di riconoscere intellettualmente (e, badate, non ho scritto intellettivamente, ché ciò riesce a tutte le specie...) le opportunità utili alla sopravvivenza. Eppure i fatti sembrano provare il contrario. Forse perché siamo eccessivamente concentrati ognuno sulla propria singola sopravvivenza individuale. Sulla propria e su quella di pochi intimi e affini. Non riusciamo a pensare a noi stessi come parte di un biosistema. Il senso di unicità che ci contraddistingue, e che ha permesso ad alcuni individui di eccellere, ci illude di esserne al di fuori.
A un certo punto della storia umana è subentrato un qualche elemento che ha accelerato questo senso di estraniazione, l'illusione di essere separati dalla natura, la convinzione alla base della nostra cultura di essere la forma di vita superiore sulla terra. Mentre, al contrario, il solo pensare ciò è da considerarsi un disturbo psichico vero e proprio, una forma di disadattamento, di scollamento dal reale, al pari di altri per i quali riteniamo doverosa una cura. Infatti la presunzione di tale superiorità non è supportata da alcuna verifica fattuale. Ciò che ci dice la scienza è che, per vari motivi, troppo lungo qui entrare nel merito, abbiamo goduto di un canale preferenziale nell'evoluzione e ci siamo evoluti fino a ottenere complesse e stupefacenti forme espressive non riscontrabili in altri animali. Leggendo, se necessario più volte, la precedente frase dovrebbe essere evidente a tutti che utilizzarla come fondamenta della nostra superiorità di specie, non funziona. Non dice quella cosa lì. Ne dice un'altra, di cosa. Per spiegarmi. Una serie di semplici domande. Se io non riscontro una cosa, questa cosa non esiste? Il non riscontrare in un altro un livello di evoluzione pari al proprio nega che questi possa possederne uno superiore? In quale realtà logica pari evoluzione esprime un valore qualitativo? Forzatamente l'evoluzione di chi cerca riscontro è da considerarsi il metro di misura universale? Giusto così, per ragionarci sopra.
Dunque perché affermiamo con tanta convinzione di essere il risultato sommo dell'intera storia biologica? Per sentirci liberi? Svincolati da oneri etici e leggi fisiche? Quindi per paura della morte? Esposti al rischio delle contingenze, siamo a tal punto spauriti e fragili tra le nostre paure?
Anziché ammirare la perfezione del sistema universo ce ne vogliamo affrancare nella vana ricerca di una salvezza che, invece, si rivelerà rovina. Umano, molto umano, forse troppo. Difficile accettare che la nostra personale esistenza sia a tempo determinato. Ma così è e così deve essere, pena la fine della vita. Questione di entropia. Difficile accettare di dover, a un certo momento, terminare. Vorremmo non toccasse mai a noi ma l'unica cosa che possiamo fare è tentare di morire bene. Poter dire nell'ultima ora, sono felice, come suggeriva Solone. E per morire bene bisogna vivere bene. Non intendo senza problemi ma con dentro sempre chiaro e forte il significato dell'esistere. Purtroppo, però, pochi tra noi riescono in questo, e maggiormente coloro che sono a contatto stretto con la natura. La maggior parte delle persone però non ha questa fortuna. Crediamo dunque di sapere tutto ma non sappiamo nulla o ben poco. Tutta la nostra scienza, se commisurata alla realtà, è primitiva e infantile. Dovremmo, prima di ogni altra cosa, attendere alla comprensione della natura, tornare ad essa, ascoltandone le armonie anziché tentare di modificarla. Invece i molti che vivono in stretto rapporto con un habitat naturale, oggi, subiscono principalmente le ricadute, spesso drammatiche, dei nostri abusi. La natura nemica. Se nell'antichità lo era per il proprio manifestarsi, a volte improvviso e violento, in forme e modi che l'uomo non poteva contrastare, ora giorno dopo giorno essa ci restituisce la morte che le abbiamo procurato. Terre morte, acque tossiche, aria contaminata, cibo infetto. Brontoliamo un po' ma non tentiamo un salto di qualità. Rinunciamo a priori a qualsiasi ipotesi di luce.
Esploriamo lo spazio ma nemmeno questo ha il minimo effetto su di noi in termini di comprensione e quindi di guarigione. Cerchiamo altre forme di vita altrove e ignoriamo quelle che ci circondano, di molte delle quali non sospettiamo neanche l'esistenza. Abbiamo identificato meno di 2 milioni di specie su un totale stimato tra 7 e 15 milioni (probabilmente sono molte di più). Una perdita del 10%, media calcolata nell'arco dei prossimi decenni, indica che assisteremo alla scomparsa di decine di migliaia di specie, molte delle quali non hanno un nome. Perfino per quelle che lo hanno, non saremo in grado di indicare il momento in cui si estingueranno. Sono come "morti viventi", specie destinate a morire perché i loro habitat sono diventati troppo piccoli. I tassi di estinzione attuali procedono a ritmi cento volte superiori a quelli naturali preistorici. E per il futuro, il tasso di estinzione subirà una probabile accelerazione di oltre mille volte maggiore rispetto a quella naturale preistorica, dal momento che la deforestazione delle aree tropicali distrugge anche gli ultimi rifugi di molte specie. Oltre all'estinzione, inoltre, esiste un fenomeno più nascosto che è quello della defaunizzazione e cioè della diminuizione del numero di individui, del peso quantitativo di una specie, della sua biomassa. Una sorta di annichilimento biologico che alla fin fine patirà in primis chi sta in cima alla catena alimentare. Noi. Anche perdere solo un 20, 30% di una specie può determinare la sparizione di altre, in un effetto domino non arrestabile che porterà al collasso del sistema.
Egoismo, situazione economica, situazione politica ci illudono però che la vita consista solo degli elementi di cui l'abbiamo riempita. Nient'altro. Tutto il resto è accessorio. Ogni considerazione che riguardi quanto sentiamo estraneo a ciò che abbiamo deciso essere il mondo è opinabile quando non ignorabile. L'ambiente in cui viviamo e che abbiamo creato conferma l'illusione della non appartenenza al ciclo vitale.
Dopo la rivoluzione industriale abbiamo perso il precedente sistema di vita che era rigenerativo e siamo passati al dogma dell'inesauribilità. Prima tutto veniva dal sole che rappresentava la quantità massima di energia a nostra disposizione, sufficiente all'incirca per un miliardo di persone sul pianeta. I combustibili fossili e la rivoluzione agricola hanno accelerato i processi di produzione e l'incremento demografico, e ora non riusciamo più a fermarci. Dal 1800 al 1930 siamo passati da 1 miliardo di persone a 2 miliardi. Nei successivi 30 anni siamo passati a 3 miliardi. Nei vent'anni seguenti, dal 1960 al 1980 siamo raddoppiati e giunti a 6 miliardi. Dopodiché un leggero rallentamento ma siamo comunque alla soglia degli 8 miliardi e nel giro di una trentina d'anni arriveremo a 10 miliardi. Sarebbe a dire decuplicati in 150 anni con solo più un decimo della superficie terrestre libero dall'impatto dell'attività umana E come ci siamo organizzati per questo condominio sovraffollato? Commerciamo emissioni, trasformiamo la gestione dei rifiuti in un allettante affare, li “esportiamo”, e ne ricicliamo meno del 10% a livello mondiale. Ricopriamo la terra ogni anno di tanto cemento da poterci fare una colata sull'Inghilterra intera e disboschiamo al ritmo di trenta campi di calcio al minuto. Basiamo la nostra esistenza su un'economia di rapina, sulla cultura del rinvio e dell'approssimazione. E per quello che non vogliamo vedere, residui mefitici e tossici del nostro operare, tutto in fondo al mare come sotto al tappeto. Fino a quando cercheremo di coltivare terre sterili, lontani da coste allagate, sottoposti a un clima ostile e finalmente capiremo di dover sopravvivere su quel che resterà del pianeta. Eppure.
Capi di Stato provano a eliminare ministeri dell'ambiente, vedi il tentativo di Bolsonaro, evangelici sostengono lobby delle armi, mafie si ripuliscono nel rinnovabile, governi regalano terre e risorse in cambio di sostegno militar elettorale, ... Investiamo esclusivamente in attività intensive, agricoltura a monoculture e allevamenti, promettiamo transamazzoniche e vie della seta, prosciughiamo o avveleniamo falde acquifere, facciamo a gara per la diga più grossa e per la trivella più lunga, sottraiamo nutrimento alla terra, le fracassiamo l'ossatura, la scortichiamo.
Sbraniamo a testa bassa.
Oggettivamente come possiamo pensare di sfangarla? Vista e considerata la nostra scelleratezza. Hanno portato al tavolo un menu ricco di ogni ben di Dio e noi abbiamo ordinato tutto, alcuni han preso parecchi giri di portate e ora, dopo soli duecento anni di bagordi, il cameriere ha portato il conto e non c'è portafogli in grado di saldarlo.
E noi, commensali, che facciamo? Sorridiamo, forse appena imbarazzati, e al cameriere facciamo con le dita cenno, Segna, segna sul conto.
A volte penso che i nostri eccessi siano al contempo indice della nostra miseria e il nostro modo migliore per nasconderla a noi stessi. Credo anche che molti, probabilmente, siano in buona fede. Incapaci di vedere.
Siamo così piccoli che sovrastimiamo lo spazio. È l'unica spiegazione. Vittime di una sorta di fallace algoritmo dell'infinitezza. Così come, ad esempio, per la stragrande maggioranza dei brasiliani la foresta amazzonica è “distante”, una sorta di terra di nessuno, contenuto di documentari da divano, ugualmente tutti viviamo le gravi realtà che stanno sfinendo il pianeta e i suoi abitanti come qualcosa che non ci riguarda. Quel famoso senso di estraneità di cui dicevo all'inizio.
Ho letto, qualche tempo fa, la seguente frase: “Le condizioni entro le quali un popolo produce il proprio sostentamento sono quelle che regolano la sua selezione.” Ne ho intuito subito la forza ma ho dovuto leggerla e rileggerla per comprenderne la portata. Un circolo vizioso. Che fa sì che l'essere umano venga a manifestare esso stesso la contaminazione qualitativa di ciò che produce e di cui si nutre o si serve, e più si abbassa il livello qualitativo, gioco forza la successiva produzione sarà su parametri ancor più scadenti, possedendo sempre meno il cervello la capacità di elaborare progetti alti. Avranno più possibilità di sopravvivenza coloro che sapranno adattarsi con inerzia a questi standard sempre più bassi. L'ho sintetizzata così. Diventiamo quello cui ci aggrappiamo.
Si parla molto negli ultimi tempi di cambiamenti climatici, e c'è ancora chi perde tempo a discutere, ci sono, non ci sono, chi lo sa, mentre la comunità scientifica internazionale, quando non prezzolata, è d'accordo sui punti base della faccenda. Nonostante ciò temporeggiamo. Finché avremo ancora per ognuno di noi di che continuare a vivere come siamo abituati ci sembrerà ragionevole credere che una soluzione verrà trovata. Ma è proprio su questo verrà che bisogna ragionare. Verrà da chi? Verrà quando? Verrà come?
Abbiamo eletto l'avidità a sistema e abbiamo svenduto la vita nostra e quella della nostra discendenza. Non riusciremo mai a legiferare in maniera saggia e lungimirante perché abbiamo ceduto ogni autorità. Non ci interessa capire come funzionano le cose ma solo usarle e illuderci di possederle. Ci preoccupiamo, ad esempio, solo di imparare a sfruttare le potenzialità delle applicazioni dei nostri devices ma ci è del tutto indifferente comprendere come vengano realizzati, come funzionino, cosa comporti la realizzazione dei benefici di cui usufruiamo. Insomma non siamo curiosi di vedere cosa c'è dietro, cosa c'è “dentro”. L'approccio logico e analitico dei fatti ci pare sofisma da perditempo.
E poi ci rassicurano. Dicono, alcuni, che la fine dell'umanità è lontana. Mi piacciono queste verità che nascondono un inganno. È una sfida smascherarle. Probabilmente è vero che la fine dell'umanità, in quanto specie, è, relativamente, lontana. Si estinguerà infatti solo la gran parte di essa. Prima diminuirà, come accade per gli altri animali, la biomassa, cioè la quantità di individui, il peso ponderale della specie. Una parte riuscirà sicuramente a far fronte agli stravolgimenti incalzanti. Da chi sarà costituita questa parte?
È qui che ognuno di noi sarebbe tenuto a entrare in gioco. La ribellione allo status quo è stato sovente origine di progresso e rinascita sociale ma come portare persone non colpite direttamente da un problema a interessarsene? Come riuscire a far passare il concetto su ciò che è legittimo e ciò che non lo è, nel momento in cui l'effetto, apparentemente, non ci tocca?
Forse partendo dalle basi. Esiste un sistema dato A, la biosfera, che comprende anche noi, e un sottosistema B, che potremmo chiamare sinteticamente economia, all'interno di cui operiamo. Il sistema A è fisso, il sottosistema B è in espansione continua. Le deduzioni le lascio a voi.
In passato la natura ci forniva tutto gratuitamente, oggi per ottenere un risultato vagamente paragonabile dobbiamo spendere decine di trilioni di dollari all'anno. Per quanto evoluta e sofisticata, nessuna tecnologia è in grado di darci ciò che la natura può offrire in un contesto rigenerativo. Siamo indubbiamente troppi, però potremmo impegnarci maggiormente.
Finché però per ogni carico di prodotti ne corrispondono una trentina di rifiuti, finché si spendono centinaia di miliardi di dollari ogni anno in pubblicità o in sovvenzioni all'agricoltura intensiva, finché si spende in armamenti ogni anno l'equivalente di intere economie nazionali, o si persevera nell'iperproduzione di beni non durevoli in buona misura superflui, finché adoreremo l'idolo dell'All you can eat, non ne verremo fuori.
Serve un cambiamento culturale innanzitutto. Dobbiamo ricominciare ad apprendere per esperienza diretta, smettere di essere fruitori passivi di una realtà preconfezionata, risvegliarci.
Inebetiti abbiamo smarrito il senso della bellezza del mondo. Siamo alla continua ricerca di qualcosa che ci manca senza sapere più cosa abbiamo perso e che determina il senso di mancanza che proviamo. Dobbiamo renderci conto delle forze globali che influenziamo e che a loro volta gioco forza influenzeranno la nostra vita. Dobbiamo fare atto di umiltà e ammettere di dover rivedere tutta quanta la faccenda.
È stata globalizzata un'aspettativa di stile di vita senza prima misurarla, senza calcolarne l'impatto.
Se non è da psichiatria perseverare in questa direzione, cosa lo è?
Siamo certi di tante cose, abbiamo costruito su queste certezze tutto quanto ma esse, a parte quella della nostra fallibilità, sono quasi sempre un inganno. Le usiamo per consolarci, reduci da disastri. Per appoggiarci quando neghiamo un dubbio. Un'illusione cui indulgiamo e che induce l'uomo a ricadere periodicamente nell'oscurità.
Cosa potremmo fare dunque? Potremmo intanto provare a capovolgere la prospettiva e anziché giustificare la nostra inerzia con una fantomatica impossibilità a risolvere la questione, iniziare a dire: Che bello! Quale grande occasione di rendere questo periodo storico quello del grande cambiamento. Le tecnologie non possono risolvere tutto ma intanto potrebbero, se usate nel modo dovuto, ridurre il nostro impatto di un buon 60%. Poi potremmo rallentare un po', goderci di più la vita e cercare di essere più intelligenti.

maggio