giovedì 28 dicembre 2017

BAMBINI E CANI

Una cara amica, per validi motivi che non è necessario divulgare, è costretta a separarsi dal suo cane. Un paio di settimane fa, dopo aver consultato invano amici e conoscenti, si è attivata telefonando per informarsi presso il canile e presso alcune associazioni della provincia in cui vive. La risposta complessiva è stata negativa non solo per la mancata risoluzione del problema ma anche per le pesanti e inopportune critiche.
Mortificata ed esasperata, si è sfogata dicendo che per assurdo da un figlio ci si può separare più facilmente che da un cane. Sufficiente non riconoscerlo appena partorito. Ho obiettato che il paragone non regge. Nel momento di un sì drammatico rifiuto, si decide infatti, quali che siano le cause, di non divenire in alcun modo responsabile di un altro essere vivente. Ma nel momento in cui si accetta la responsabilità, la faccenda è tutta un’altra. Nel decidere se prendere un animale con sé bisognerebbe parimenti considerare le proprie capacità, possibilità, e volontà di provvedere ad esso qualunque siano le circostanze in cui verremo a trovarci, positive o negative. Esaminati tutti gli scenari possibili, se non si è sicuri, meglio anzi doveroso rinunciare. Non intraprendere la relazione. Una volta invece scelto di prendersi carico di un altro essere che da noi dipende, in caso di difficoltà siamo tenuti a trovare una soluzione che non risolva solo i nostri problemi ma garantisca una buona qualità di vita e la minor sofferenza psicologica possibile all'altro.

Detto questo, coloro che, sulla base di un’alta casistica che in buona misura giustifica tale reazione emotiva, accusino indiscriminatamente chiunque di assenza di cuore, incapacità educativa, menefreghismo, egoismo, superficialità, leggerezza, dovrebbero fare esercizio di umiltà e riflettere sul fatto che giudicare con tanta intransigenza qualcuno che non si conosce, e concentrarsi su una distanza non necessariamente reale anziché sul confronto costruttivo, comporta mancanza di rispetto ed equivale al sottrarre energia alla ricerca della migliore soluzione possibile.

mercoledì 27 dicembre 2017

TORINO È CASA NOSTRA



Lessi tempo fa i due libri di Giuseppe Culicchia  “Torino è casa mia” e “Torino è casa nostra”. Il primo lo prestai non ricordo più a chi. Mia madre, sapendo che intendevo ricomprarlo, lo ha cercato su internet per regalarmelo a Natale. Non l’ha trovato disponibile ma ha scovato un “Torino è casa nostra” Michele Di Salvo Editore a cura di Francesco Vietti, ispirato al testo di Culicchia ma dal punto di vista di cittadini migranti e studenti stranieri approdati a Torino. Anch’essi rivisitano la città suddividendola in stanze. Il libro promuove il progetto dirittixdiritti a favore del diritto all’istruzione e alla cultura. Una piccola preziosa scoperta.


martedì 19 dicembre 2017

MIGRANTI AL PARASIO

17 dicembre
Borgo Parasio Imperia Porto Maurizio
Ore 8.30

Una dozzina di metri ingombri di valige, sacche, coperte, un materasso, giacconi infilati e pressati  in borse di plastica, resti della dispensa in scatoloni di cartone, borse legate con corde. Tutto addossato con ordine al muretto che fiancheggia il marciapiedi e da cui ci si affaccia sul mare.  Un tripudio di colori sullo sfondo blu terso del mattino, nel silenzio delle persiane ancora chiuse di un giorno festivo. Un peccato che pochi vedranno questa scena. Percorro con lo sguardo la teoria di oggetti fino al gruppo di uomini e donne. Chi seduto su una panchina, chi accovacciato, chi in piedi, chi appoggiato al muretto. Sono in attesa e paiono immobili. Anch’essi brillano di acconciature e di colori sgargianti. Per un attimo è come un affresco.
Parlano sottovoce in quell'idioma musicale che profuma di Africa. Devo passare in mezzo a loro per raggiungere la scala che conduce verso le Logge di Santa Chiara e la casa di un’amica. Rallento avvicinandoli e mi rivolgo a una donna. Le chiedo dove saranno trasferiti. Ai Piani, mi risponde con gentilezza. Bene, dico, anche se non ne sono del tutto convinta. In realtà sono convinta che ben poco sia intelligentemente pensato e organizzato riguardo al loro futuro. Che è il nostro, collettivo futuro. Gli altri del gruppo mi guardano con un misto tra curiosità e perplessità. Chi è questa donna mai vista che ora ci chiede dove andiamo?
Mentre mi allontano scendendo la scala rispondo mentalmente alla domanda che nessuno mi ha fatto. Non sono nessuno. Meglio, sono una piccola mediocre persona che in tanti mesi non è stata capace di trovare il tempo per venire a conoscervi e farsi conoscere da voi, pur abitando a pochi metri. Solo occasionali buongiorno lungo tragitti quotidiani. Basterebbe il semplice presentarsi  l’un l’altro. Almeno quello. Che è poi la base fondamentale per la costruzione del vivere sociale.
Cosa mi ha frenato? Pudore anzitutto. Il rispetto della riservatezza delle altrui esistenze a prescindere dalle condizioni di vita. Poi, perché mai avvicinarsi per offrire aiuto a chi non dà mostra di averne bisogno? Solo perché di pelle nera? Con che arroganza mettere maggior premura? O sono la dignità e l’orgoglio che trasudano a mettere soggezione? Le uniche cose rimaste loro. Giusto che se le tengano strette. Sta a noi farci avanti a costo di essere respinti. 
Formano comunità chiuse? Incutono timore? Suscitano imbarazzo? Noi faremmo lo stesso.

Cammino e penso che ho perso un'occasione.





(tutti i diritti riservati)

lunedì 18 dicembre 2017

"LA VITA SEGRETA" di Andrew O'Hagan

Appena terminato il saggio narrativo di Andrew O’Hagan “La vita segreta” edito da Adelphi. L’ho letto in una giornata. Stile scorrevole e discorsivo che consente a chiunque di avventurarsi nel racconto di tre vicende attinenti il mondo online: quella di Julian Assange, quella di Satoshi Nakamoto e la nascita dei bitcoin, e un assaggio di come funziona il dark web (che sarebbe più corretto chiamare dark net  visto che non si utilizza il consueto protocollo web http). Lettura consigliata..
Quanto ai contenuti, ci sarebbero spunti per scrivere pagine e pagine. Qui mi limito a riportare poche righe praticamente identiche a quelle che scrissi tempo addietro riflettendo sull’operato di Assange.

Pag.44
...
Dopo la diffusione dei cablo diplomatici del 2011 ho sempre coltivato la speranza che qualcuno facesse un serio lavoro di redazione, ordinandoli per paese, contestualizzando ciascuno di essi, fornendogli un’adeguata introduzione, elencando nel dettaglio ogni ingiustizia e ogni violazione…
...
Eppure a tutt’oggi, a distanza di anni, i cablo non hanno ancora ricevuto l’attenzione che meritano. Hanno fatto il botto e sono stati lasciati lì a marcire.






17/12/17

domenica 10 dicembre 2017

#MeToo


A PROPOSITO DELLA GIORNATA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE (e non solo)

La prima volta che mi è capitato avevo dodici anni. Il giudice, interrogandomi su fatti risalenti a quattro anni prima, mi chiese se per caso non avessi confuso normali gesti di affetto con toccamenti impropri, portando ad esempio la vicenda di una ragazzina che, issata da uno zio per raccogliere dei frutti da un albero, l’aveva poi accusato di molestie. A fronte della mia risposta negativa, mi disse allora che, essendo io in grado di operare un distinguo, forse non ero così innocente e mi chiese se ero certa di non aver in alcun modo provocato le attenzioni particolari che avevo ricevuto e se ero veramente sicura di non essere stata io a sedurre l’uomo che stavo incolpando. L’esito dell’udienza, disertata da altre ragazzine coinvolte, i cui genitori preferirono non mettere in piazza la vergogna, fu che mi concessero sì il beneficio del dubbio ma altrettanto fecero con l’individuo che accusavo di molestie protratte negli anni. Non gli venne comminata alcuna pena, né fu redarguito e poté impunemente perseverare nelle sue disgustose abitudini fino all'età di novantadue anni, in un clima di omertà assoluta.

Purtroppo, nei successivi quarant'anni, mi è accaduto di subire aggressioni altre due volte. In un caso fui soccorsa da un ragazzo africano (non ne avrei  sottolineata l’etnia se non fosse per la necessità di bilanciare l’eco delle cronache giornalistiche votate evidentemente alla discriminazione in negativo), nell'altro me la cavai da sola mantenendo il sangue freddo. In entrambe le situazioni non vi erano circostanze di rischio da me prese alla leggera. Non ero vestita in modo sconveniente, non ero alticcia, non era notte, non ho dato confidenza in modo avventato a chicchessia. Però, entrambe le volte, mi sono ritrovata a dovermi poi giustificare così come era, ancor più assurdamente, accaduto quand'ero ragazzina.

Questo non deve accadere. L’umiliazione di doversi spiegare e giustificare resta come un marchio che procura un senso di colpa inconscio che, nel tempo, desensibilizza le vittime riguardo eventuali successivi abusi e anzi, per assurdo, li facilita. Inoltre può sopravvenire la tendenza ad andare a cacciarsi reiteratamente in situazioni a rischio per procurarsi il male prima che ce lo procurino gli altri, in un perverso automatismo psicologico che ci persuade di avere in tal modo il controllo della nostra vita.

Gli abusi diventano infine qualcosa di poi non così grave e a cui comunque, in un modo o nell’altro, si sopravvive, anche senza l’indebita punizione di sociali e istituzionali seconde violenze.

Uno psicologo, con cui mi confrontai anni dopo, mi disse che quando qualcuno subisce un abuso è perché lo permette. Fu un’affermazione che rifiutai di prendere in considerazione.  Non mi offese perché proveniva da una persona che gode della mia stima, e della cui onestà intellettuale sono certa, ma m’infastidì perché la ritenni retaggio, se pur inconsapevole, di una visione androcentrica della società.

Alcuni anni fa ho però riflettuto sulla questione analizzando le dinamiche dei miei rapporti lavorativi che sono stati sempre, e inesorabilmente, connotati da un iniquo riconoscimento economico, dovuto ora alle mia scarsa autostima, ora alla convinzione che non esistesse una relazione tra corrispettivo pecuniario e valore della prestazione. Convinzione, presunzione anzi, che la mia bravura non potesse essere intaccata dal fatto di essere retribuita in modo talvolta offensivo. Che i valori fossero (e lo sono) altri.  Per questo ho sempre accettato, se pur per necessità, lavori sottopagati che hanno regolarmente impregnato e invaso tutto il mio tempo. Ho permesso cioè che non si portasse rispetto alla mia persona. Perché io per prima non ho avuto rispetto del mio valore. Del valore assoluto della dignità dell’essere umano. Come indignarsi di paghe da 2 euro l’ora, quando non al giorno, se se ne accettano comunque da 5 euro e senza la minima tutela contributiva? Se si accetta di far parte di un ingranaggio bisogna accettare anche la propria individuale complicità nella colpa di determinare il  malessere sociale collettivo e non solo il nostro. Ho quindi dato il mio beneplacito a un abuso. Non sessuale ma comunque un abuso. Con tutte le implicazioni di dovere, inclusa quella di determinare una ricaduta su altri. Se tutti tacciono, l’ingiustizia diventa sistema.

Ugualmente esiste una responsabilità per chi passa sopra al dover cedere ad avances sessuali o lo considera un qualcosa che si può fare senza che rimanga il segno. In tal senso ho ripensato alle parole dello psicologo e ho compreso cosa intendesse.

Il movimento di denuncia che, da neanche due mesi, sta dilagando nel mondo, sotto le insegne di hastag virali quali #MeToo, #BalanceTonPorc, #QuellaVoltaChe, #AnaKamen, #YoTambien, è una buona cosa, che si tratti o meno, come è stato recentemente scritto, del segno della fine della società patriarcale. Basta omertà, basta vergogna.  Spero che duri, spero che serva, spero che le persone vittime della sindrome da emulazione siano poche, spero che nessuno strumentalizzi. E che le vittime abbiano la forza d’animo di riconoscere, quando il caso, in quale misura possono essere state corresponsabili. È una forma mentis sociale quella che deve essere modificata, per cui siamo tutti coinvolti e ognuno deve fare la propria parte. Imparare collettivamente che non si può continuare a dar tutto per scontato solo perché “il mondo è sempre andato avanti così”, richiede grande impegno da parte di tutti.

Una mollezza di costumi. La si potrebbe definire così la traccia continua di acquiescenza che caratterizza la società contemporanea. Cosa c’è di diverso nell'andare avanti nella vita a colpi di compromessi? Che sia per lavoro, per quieto vivere, per fare una vacanza che non ci si può permettere o acquisti compulsivi? Che sia  girarsi dall'altra parte per evitare di essere chiamati in causa o aspirare a un corpo in formaldeide? Non è forse anch'esso un abdicare agli stereotipi comportamentali e di linguaggio di quello che ormai si ritiene il modello di vita universalmente condiviso? Del tutto all'insegna dell’omologata ricerca del superfluo. Non è forse anch'esso un modo di prostituirsi e dare pertanto beneplacito all'abuso? Il non ascoltare se stessi, il non rispettarsi: esiste un nesso forte tra il poco amore verso sé e la possibilità che qualcuno ne approfitti. E ciò a prescindere dall'ambito in cui ciò avviene.

Nel momento in cui cediamo una qualunque parte di noi stessi perché il non farlo implicherebbe un’esclusione in termini di visibilità sociale, sottraiamo valore alla persona e consegniamo nelle mani di chi ha potere la possibilità di violarla con sempre maggior facilità. E le nuove generazioni sono quelle che ne pagano e pagheranno il maggior scotto.

A proposito di un recente fatto di cronaca nostrana, un paio di preti  hanno detto che le ragazze se la sono cercata. Onestamente, vi chiedo, della marea di ragazzine in pubertà che si offrono giulive e oscene in webcam, quante conoscono il proprio valore, quante si amano a sufficienza, quante anche solo lontanamente sospettano che ci sia dell’altro nell’esistenza di un individuo? E quante pensate si comportino, uscendo la sera, da educande? Nulla giustifica violenza e  mancanza di rispetto, né mi riferisco qui al caso specifico, ma banalmente i richiami sessuali esistono perché vi sia una risposta. Forse l’unico caso, tra tutti i fenomeni dell’universo, in cui una visione teleologica abbia un senso. Non possiamo stupirci né scandalizzarci se accadono fatti sgradevoli e drammatici alle nostre figlie, nel momento in cui vanno in giro imbottite di cultura da televisivi piazzisti di momenti di gloria,  e make up lampeggianti. Dobbiamo andare all’origine del problema. La colpa non riguarda solo gli artefici di abusi perpetuati in grazia di una qualsivoglia posizione di potere nei confronti di chi è subalterno. Riguarda ognuno di noi.

Sicuramente sono condizionata dalle ricerche che feci anni addietro sulla pedo/pornografia online, e di tanto in tanto ci butto un occhio per tenermi aggiornata, ma proprio per questo so di cosa sto scrivendo. Ho ben chiaro che dev'essere possibile andare in minigonna senza subire affronti di genere ma anche che molte dodicenni di oggi vivono clandestinamente una vita che donne d’età nemmeno sospettano esista. Una precocità d’esperienze in sovrannumero, in gran parte superflue quando non dannose, dettata dal vuoto. Dall'immediata comprensione intuitiva ed emotiva di contare poco visto che tutti quanti siamo consultabili a catalogo. Un nichilismo annoiato, ridanciano e contagioso. Da galleggiamento. Cosa troveranno queste ragazze e ragazzi ad attenderli tra dieci anni in una società per la quale non avranno assimilato strumenti di interpretazione? Come potranno distinguere tra ciò che è normale e ciò che è prevaricazione?
Passeremo dalla paura di essere giudicati male in quanto vittime di reati che toccano la sfera intima, personale, e sessuale, direttamente all'incapacità di riconoscerci tali?

L’altra sera a cena un amico mi ha fatto notare che una volta le gonne arrivavano sotto il ginocchio ma questo non era d’ostacolo ai giochi di seduzione, al corteggiamento, ai rapporti sessuali. E c’erano tanti figli. Ora, lasciando da parte ogni considerazione sull'affrancamento legittimo del piacere dalla procreazione, e sul fatto che le donne un tempo avessero poca voce riguardo alla scelta del partner, resta il fatto che oggi l’atto sessuale è avulso sempre più da un coinvolgimento emotivo, da uno slancio vitale, e da tutto quanto ne consegue. Il piacere del desiderio, le emozioni legate ad esso, quando questo era rivolto a un unico essere per noi insostituibile, sono perduti. Esiste sempre un desiderio e un bisogno forte di esaudirlo ma i destinatari sono per lo più intercambiabili. L’importante è riuscire, a prescindere dal valore della persona cui rivolgiamo l’attenzione. L’esigua presenza di figli, che a parer mio non è quella gran catastrofe, denota inoltre che l’atto sessuale ha perso una connotazione fondamentale: la vocazione di creare con la persona amata qualcosa di unico, di importante, di, appunto, vitale.

Provo pena per queste nuove generazioni di individui che, a parte alcune fortunate eccezioni, non sanno e difficilmente sapranno cos'è credere fortemente nell'unione con l’altro al punto da mettere in gioco le proprie rispettive esistenze nel segno di un futuro che si sogna bello e denso di realizzazioni positive. Che non conoscono la bellezza e il senso profondo della resa, dell'ar/rendersi all'altro nella più totale fiducia. Non si tratta qui del solito borbottio tra generazioni, dove la più datata lamenta la perdita dei vecchi valori in quella più giovane, la ribellione, il non rispetto. Qui si constata con amarezza l’incapacità intellettuale, fisica, ed emotiva di percepire qualcosa che è ciò che determina il valore dell’essere umano.

Il non essere capaci di provare desiderio, di sperare, di soffrire anche, il non sospettare che esista un’interiorità viva che non conosce noia, insoddisfazione, depressione, tutto ciò è una sottrazione di vita di cui tutti noi siamo responsabili nei loro confronti. E lo siamo nel momento in cui, seduti davanti alla tivù, non ci indigniamo di fronte agli spot di famiglie i cui componenti sono tutti felicemente e contemporaneamente connessi alla velocità della luce, e vivono ognuno in un proprio mondo che definire virtuale è ormai obsoleto. Mondo altrettanto reale quale quello che abbiamo fino a ieri definito tale e  che abbiamo il dovere di capire, in ogni sua sfaccettatura, implicazione, e livello di complessità, per poterlo spiegare degnamente a chi si destreggia abilmente nell'abitarlo ma di certo non possiede capacità di comprenderlo.


2 dicembre 2017

(tutti i diritti riservati)

mercoledì 6 dicembre 2017

UNA FIAT PANDA VERDE

Ieri mi stavo recando a Torino alla cerimonia del Premio Pannunzio quando, poco dopo Mondovì, ho deciso di sostare presso un autogrill per una pausa e per impostare sul telefono l'indirizzo che dovevo raggiungere. Ho parcheggiato con il muso dell'auto rivolto verso l'esterno dell'autostrada. Dal parabrezza vedevo in successione guard rail e recinzione, un ampio campo incolto, una strada statale. Mentre sovrappensiero osservavo davanti a me, ho visto una Fiat Panda verde, vecchio modello, rallentare, una portiera aprirsi e un cane scuro di taglia media buttato fuori. Poi l'auto si è allontanata accelerando e il cane si è messo a inseguirla correndo a perdifiato. Non ho potuto fare altro che assistere impotente alla scena, rimettere in moto e dirigermi verso la mia destinazione. Della piacevole e interessante giornata che è seguita avrei voluto scrivere oggi ma in testa ho solo un'immagine triste e un senso di frustrazione.
Ho chiesto a un bimbo di fare un disegno.


26 novembre

lunedì 4 dicembre 2017

ZERO CALCARE "MACERIE PRIME"

Sempre acuto e bravo ZeroCalcare. Ormai ho superato la resistenza iniziale al suo tratto, molto lontano da quello dei disegnatori che amo, e ogni volta mi immergo piacevolmente nella lettura.





"Macerie prime" di Zerocalcare per la Baopublishing