È
dunque giunta la fine del mondo? L'anziana signora che aiuto mi
racconta della guerra e avverte, Se viene un'altra guerra, guai. Se
viene un'altra guerra guai..., guai. Mentre lo dice ha le mani giunte
e lo sguardo raccolto in un passato che solo lei vede. Vorrei
risponderle che la guerra c'è già. Solo che è diversa. Non è un
conflitto mondiale simile a quello di cui lei ha memoria. Ha una
forma diversa. Liquida direbbe Bauman. È
ovunque sul pianeta e conta innumerevoli vittime. Solo che non le si
somma. Ci si limita a suddividerle per zone geografiche, si evita
accuratamente di trovarne il comun denominatore, si persuade della
loro separatezza.
Tutto non va. L'evidenza
di ingiustizia e dolore non è discutibile, eppure ci si ostina a
negarla. Siamo davanti, anzi dentro, una combinazione di più crisi e
perseveriamo nell'errore di considerarle a compartimenti stagno.
Forse più corretto sarebbe parlare di una combinazione di
sconvolgimenti, perché crisi è una parola cui abitualmente, e
sbagliando, diamo un'accezione negativa e che invece significa
separare, discernere, scegliere. La crisi è un'opportunità, non una
sconfitta. Per questo la mia amica Ada interpreta le difficoltà e le
sofferenze di questo momento storico come quelle del travaglio e del
parto. Il parto per far nascere un uomo nuovo, un'umanità nuova, ed
è impossibile pretendere che un simile cambiamento epocale, una tale
rivoluzionaria trasformazione, possa avvenire senza dolore. Comprendo
ciò che pensa la mia amica ma non riesco ad affrancarmi dal
contingente. Dagli esiti materici di questa fase necessaria. Dal
dolore del singolo essere vivente, del singolo individuo. Dallo
strazio di chi soffre. Ché ogni vita vale e fatico ad accettare il
prezzo pagato soprattutto dai deboli. Soffro nel constatare un giorno
via l'altro le violenze, gli abusi, il disprezzo. Lo stupro metodico
e contabilizzato della vita in ogni sua manifestazione. A vedere le
acque avvelenate, le terre contaminate, la sete, la fame, il
commercio e lo sterminio di esseri viventi, l'avidità che nulla
riconosce se non se stessa. Come se intorno al mio corpo premesse
l'intera umana condizione. L'intera sofferenza del vivente.
E ora, più che mai, ora
che siamo costretti al distanziamento per cura e tutela nostra e del
prossimo, ora che in pochi persino arricchisce a dismisura e specula
sull'ennesima tragedia mentre i più, e tanti tra essi che si
sentivano al sicuro, protetti da qualsiasi rovina, sono destinati a
scivolare inesorabilmente verso il basso, ora che è chiaro che il
peggio dobbiamo ancora vederlo in termini di derive sociali,
disordini, nuove povertà ed emarginazioni, proprio ora, quali
possono essere le soluzioni per non essere travolti?
C'è chi dice una casa in
campagna con orto, un pozzo, libri e galline. Isolarsi come ultima
ratio? C'è chi dice scendere in piazza, manifestare. Isolarsi versus
dimostrare. Entrambe le soluzione però favoriscono il mantenimento
dello status quo. Ripiegarsi sul privato, aumentare il distanziamento
che da fisico diviene sociale, forse è ciò cui ambiscono i poteri
forti perché facilita il mantenimento dell'ordine in un'epoca in cui
i motivi di contestazione abbondano. Manifestare pacificamente,
cercare il dialogo, sperare in un confronto intelligente e
costruttivo risulta impossibile. La rabbia s'insinua, scontento,
frustrazione, rivalità si mescolano. Diventa indistinguibile il buon
intento dallo sfogo dell'istinto a distruggere ciò che non si
capisce e contro cui ci si sente impotenti. Tutti in egual misura
coloro che scendono per le strade vengono atterrati, arrestati, messi
a tacere. Non si può andare per il sottile. È
la massa che agisce e si muove e non si ha tempo per considerarla
composta da individui, va solo fermata e domata. Quindi anche
manifestare favorisce il mantenimento dello status quo e fornisce
inoltre materiale per certa manipolazione mediatica legata al
discorso della sicurezza in cambio dell'acquiescenza. Se isolarsi non
serve, se rivendicare diritti nemmeno, ci troviamo dunque di fronte a
un impasse?
In questa terra
attraversata dal morbo dello scontento, da un'epidemia che
contrappone negazionisti a pecore, come dai primi vengono definiti
coloro che, oltre ad adottare doverosi prudenza e rispetto,
sottostanno a norme di precauzione che una qualsiasi massaia dotata
di buon senso detterebbe migliori e maggiormente efficaci, in cui
strategie mafiose di accaparramento di posizioni di potere,
malagestione fraudolenta, provate malversazioni, corruzione, spianano
la strada a incompetenza, ladrocinii, e giocano senza il minimo
sussulto etico con le vite del prossimo, andrebbero senza processo
puniti con lavori forzati in miniera, questa terra in cui agli
attentati quotidiani (Camerun, Francia, Afghanistan, Pakistan,
Austria, gli ultimi in ordine di tempo) si aggiunge l'incapacità di
capi di Stato a far scendere i toni, penso alla Francia nei confronti
della Turchia di un Erdogan che, oltre a tutto il resto che già
sappiamo, non esita a dare la propria benedizione all'estremismo,
ecco, mi chiedo, in questa terra messa così, veramente allora
l'ultima ratio resta sperare che si tratti di un travaglio non troppo
lungo e che il bambino non nasca morto?