domenica 29 gennaio 2017

ASCOLTANDO SEPULVEDA A FAHRENHEIT

Trascrivo qui di seguito gli appunti di stamane mentre ascolto Radio3. Ospite di Fahrenheit il grande Luis Sèpulveda. Quando si dice le coincidenze.

Mi chiedo se si tratti di ansia da prestazione, di dispersiva gestione del tempo, o di banale perdita di interesse. So solo che negli ultimi quattro anni decine e decine e decine di ore sono andate smarrite, intrappolate nella rete, e che ne voglio uscire.
È una riflessione cui giungo considerando varie situazioni. Ad esempio il lavoro: a parità di cose da fare e di risultati, il tempo  necessario è superiore al passato, e l’incremento, a parte le ore in più dovute all’abbassamento della paga oraria, va sotto la voce “contatti”. L’avvento della posta mail all’epoca ci è parso una gran facilitazione e lo è stato: si controllava ed evadeva la posta una volta al giorno e tutto procedeva fluidamente, allegati e compagnia bella. Oggi invece per non risultare inefficienti bisogna rispondere entro mezz’ora al massimo e stare sempre sul pezzo. L’esito non è conseguentemente migliore. Né quantitativamente né qualitativamente, solo, non sempre, più rapido. E quindi bisogna stare sempre con il telefono sotto agli occhi. Mediamente, a manciate di secondi, buttiamo lì più di un’ora al giorno solo per controllare che non ci sia sfuggita qualche notifica. Pare proprio che la promessa di agevolare la vita nei vari suoi aspetti e permettere di godere di maggior tempo libero sia stata disattesa. Peccato.
Ho sempre creduto che il problema non sia mai il mezzo ma chi lo utilizza e come, ma inizio a ricredermi. Forse abbiamo sottostimato la forza dirompente di una virtualità introdotta sotto spinta in ogni ambito della nostra quotidianità. Ognuno di noi può facilmente verificare i cambiamenti avvenuti nella propria persona, fisici, psicologici, comportamentali.
Io per prima ho ceduto alla lusinga dell’interconnessione. Ho aperto questo blog i cui post girano dopo ventiquattr’ore su Twitter, e su Twitter tra chi seguo e chi mi segue, si trova sempre qualcosa di interessante da leggere e da condividere (soffro per questo meraviglioso verbo che se va in giro a capo chino, svilito, con aria rassegnata), ma che genere di condivisione è se l’unico risultato cui porta è che sempre più individui trascorrono sempre più tempo davanti a uno schermo?
Negli ultimi mesi ho avuto una media di 400, 500 lettori mensili del blog (Chi sono? Leggono? Ci finiscono per caso?), e mi sorprendo a voler mantenere almeno tale media, pena la perdita di quel minimo di visibilità che, oltre agli intenti idealistici per cui il blog è nato, potrebbe tornare utile per un paio di progetti che ho in testa. Ma sto impazzendo? Come posso credere che possa servire a qualcosa. La tentazione però è forte. Chi è già che diceva negli anni sessanta che in futuro ogni persona avrebbe avuto i propri quindici minuti di fama?
Stavo riflettendo su quante volte ho pensato di scrivere alle persone note che stimo e che, secondo me, hanno dato e danno un contributo positivo all’andamento delle vicende umane. Difficile però raggiungerle, trovarne un recapito. Lo scopo del contatto, chiederete, quale dovrebbe essere? Espressione di gratitudine e scambio di opinioni su tematiche di interesse comune. Grosso modo questo. Nella vita sono stata fortunata e ho avuto modo di abbracciare Vandana Shiva, di avere uno scambio epistolare con Susan George, di regalare un libro a Marco Paolini. Mi piacerebbe stringere le mani a Paul Watson e dirgli grazie, solo questo, grazie. Mi piacerebbe parlare di resistenza e di rivoluzione con Luis Sepùlveda davanti a un buon vino e fargli una domanda che da un po’ mi ronza nella testa. Ecco, ora su twitter, potrei contattarlo: incredibilmente risulta nell’elenco di coloro che mi seguono. Basterebbe una chiocciola ma non l’ho mai digitata né lo farò (forse oggi, giusto per segnalargli questa pagina). Non è il mio modo, non è sufficiente, non è empatico. Sento maggior vicinanza nel sentire la sua voce in diretta mentre trascrivo questi appunti. Se un giorno lo incontrerò, lo guarderò negli occhi e gli proporrò un caffè. Nel frattempo guarderò negli occhi le altre persone che incontro.

Oggi un recente movimento di pensiero cresciuto tra intellettuali e studiosi nei vari settori sta teorizzando e mettendo in pratica la disconnessione come dotazione fondamentale per poter interpretare la realtà presente e futura in modo il più possibile oggettivo o, perlomeno, più completo. Google è talmente presente nelle nostre vite, risponde a ogni nostro quesito, che dimentichiamo che esiste una realtà più ampia di quella in esso contenuta. Anziché ampliarlo, ha ristretto il nostro mondo e conseguentemente il nostro margine di azione mentale. Al punto da farci ritenere superflue esperienza e verifiche dirette. Facciamo atto di fede ventiquattro ore al giorno aderendo a una visione se non necessariamente falsa, di certo monca.
Forse per fare qualcosa di buono è semplicemente più utile andare per strada.

7 novembre 2016

sabato 28 gennaio 2017

MIGRANTI, EMERGENZA FREDDO

Un freddo eccezionale e subito escono alcuni articoli sui migranti bloccati dal filo spinato nei Balcani, sulle pessime condizioni di molti centri di prima accoglienza, sul rischio che, tra codesti disperati, vecchi, bambini, e malati non supereranno l'inverno. Ci sarebbero anche i barboni, le cui fila sono rimpinguate dai nuovi poveri ma, al momento, tira più il migrante. Terremotati a parte.
Un po' di indignazione, qualche raccolta di indumenti pesanti, poi, salvo ulteriori avvenimenti forieri di audience, ognuno può tornare alle proprie occupazioni. Chi a distrarsi, chi a morire di freddo.

venerdì 27 gennaio 2017

RIFLESSIONI NOTTURNE SULLA DEMOCRAZIA

“I nomi collettivi servono a fare confusione. Popolo, pubblico… Un bel giorno ti accorgi che siamo noi; invece credevi che fossero gli altri.”
Ennio Flaiano


La democrazia rappresentativa è il meglio che siamo riusciti a mettere insieme, purtroppo però l’opinione prevalente non ha necessariamente maggior valore. Ritorna il dubbio, da molti ponderato nel corso della storia, se le democrazie siano in grado di sopravvivere all'espressione della volontà della maggioranza.
Mai come in questi giorni si dibatte sulla questione. Il referendum britannico, l’elezione di Trump, l’ascesa dei movimenti populisti, il recente referendum nostrano, tutto si presta ad avvalorare la tesi che il suffragio universale non sia quella gran pensata.
A mio parere le manifestazioni più preoccupanti sono altre, meno plateali, quotidiane, di sonnolenta omologazione e perdita di pensiero critico, di cecità e non ascolto con la presunzione di saperla lunga su tutto.
Allo stesso tempo però credo che questo sistematico svilire gli esiti delle consultazioni popolari, l’instillare la convinzione che quello che pensa la gente non sia giusto, perché la gente, poverina (!), è inconsapevole, manipolata, costretta da bisogni e paure, ecco, credo che questa cassa di risonanza sia utile a chi voglia confondere tra le tante anche le voci giuste e ben consapevoli, quelle che si levano a reclamare giustizia, che si levano a proporre strade alternative, che si levano a denunciare, a gridare verità.
E funziona, infatti queste voci non vengono udite se non per brevi lassi di tempo, e solo udite, mica  comprese, altrimenti certe cose non verrebbero dimenticate, non verrebbero rimosse. Non si continuerebbe a vivere accettando di credere a questa narrazione del progresso con sotto agli occhi le prove del contrario. Ogni narrazione comporta una responsabilità da parte del narrante (e di colui che eventualmente è il committente della narrazione) ma anche da parte di coloro che la odono, soprattutto se ne sottoscrivono, con una fruizione passiva, l’autenticità anche laddove non ci fosse.
È in atto da un pezzo una immensa opera di denigrazione, di calunnia, di offesa nei confronti del pensiero critico e quindi libero. Si è fatto in modo di rendere cerebrolesa una gran parte della popolazione terrestre, le si è data la possibilità di mettersi in mostra ed esprimersi full time, poi, ora, di fronte all'evidente livello di mediocrità, mentre si rivendica la necessità di restituire a un'èlite competente la gestione di tutto quanto, si possono tacciare di superficialità anche le voci serie. Le si confonde, le si mescola, le si denigra o deride, facendo perdere ad esse la forza dirompente che potrebbero avere.
Da chi, poi, dovrebbe essere rappresentata quest’élite? Dagli intellettuali che rimarcano ovvietà nelle loro analisi a fatti avvenuti? Dall'oligarchia economica e finanziaria? Da tecnici in ogni settore?
Che valore hanno le riflessioni, i moniti, le parole, i suggerimenti, gli studi e l’impegno di quanti hanno previsto? Che valore le proposte lungimiranti ed eque, a tal punto rivoluzionarie nella loro assennatezza da spaventare chi preferisce che tutto cambi purché nulla cambi? 
Cassandre indegne persino di riconoscimento a posteriori?  A quanto pare.
Vorrei un governo mondiale composto da precursori illuminati, visionari onesti, rivoluzionari rispettosi, sognatori responsabili, inventori altruisti. E in giro per il mondo di persone simili, come ce ne sono state, continuano ad essercene. Ma non siamo tutti così, dobbiamo accettarlo. Abbiamo tutti diritto a dire la nostra ma non tutti siamo in grado di sostenere la responsabilità che l'applicazione di una persona un voto comporta appunto per ognuno di noi. Non possiamo esprimere una volontà solo in base all'emozione, al bisogno, all'educazione ricevuta, al contesto particolare in cui viviamo, alle difficoltà o meno che dobbiamo affrontare.
Visto che oggi è il giorno della memoria, mi viene in mente che Primo Levi diceva che se comprendere le cose è praticamente impossibile, impegnarsi a conoscerle è un imperativo non negoziabile. Farlo però implica l'avere a disposizione una quantità non indifferente di un bene che ci viene da tempo esponenzialmente sottratto, il tempo. Senza tempo non ci può essere pensiero critico, senza pensiero critico non ci può essere scelta consapevole, senza scelta consapevole non ci può essere responsabilità, senza responsabilità non ci può essere potere, neanche quello limitato all'apposizione di una crocetta.

Avete presente, ad esempio, quando, a distanza di tempo, il coinvolgimento emotivo ormai scemato, si scoprono verità (nella limitata nostra storia nazionale gli esempi abbondano)? Ci si indigna e poi si volta pagina. Ne abbiamo voltate mai tante di pagine noi esseri umani per poter sopravvivere, che ora le verità possono essere scoperte quasi in tempo reale che non riusciamo a restare sul pezzo per più di un paio di giorni. Alcuni certo sì, la maggioranza delle persone però no. Non è una colpa, è che non ce la si può fare. Serve una intima motivazione, serve determinazione, serve un sacco di tempo, e anche una buona dose di masochismo.
Come in mezzo al mare. Hai voglia a dare bracciate. A volte abbandonarsi alla corrente è l’unica salvezza.
Questo per dire che non tutti possono esprimersi sulla gestione della nostra vita comune ma visto che principi illuminati, guide votate al bene comune, non ne esistono, la questione si fa decisamente spinosa.
Quindi manteniamo alta la guardia, rifiutiamo superficialità, generalizzazioni, tutto ciò che oggi va sotto la comune etichetta di populismo ma imponiamoci di imparare a dare potere, non voglio dire a chi (uno, pochi, tanti, tutti, che siano, sinceramente non m'importa) ma semplicemente a ciò che lo merita. Per dirla con le parole del grande Italo Calvino…
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

(Italo Calvino, Le città invisibili)


giovedì 26 gennaio 2017

LUTTI

(tradizionali e/o metaforici)


Esiste un ragionevole numero di lutti raggiunto il quale si può pretendere semplice, puro e rigenerante silenzio attorno a sé, senza che ciò venga considerato, al giro, misantropia, depressione, presunzione, autolesionismo?

LA SCADENZA DELLA VITA

Quand'è che bisogna morire?
Morire è necessario, è necessario alla vita.
Quindi l’unica risposta che mi viene in mente è che se, arrivati a un certo punto, non si è ancora fatto qualcosa di buono, allora un momento vale l’altro.

Non si può continuare a procrastinare e pensare di farla franca.

DIGRESSIONI

Ottobre, ore 11.00
Nella sala d’aspetto del reparto di dermatologia sette persone, inclusa me, in attesa.
Una donna minuta oltre la settantina rivolgendosi alla donna seduta di fronte, come a riprendere un discorso appena sospeso, esclama infilando le dita per allentare la morsa del collo alto:

«… ho la maglia a collo alto perché ieri sera quando mia figlia mi ha portato al pronto soccorso faceva fresco e non immaginavamo che sarei rimasta fino a stamattina e quando l’ho chiamata per dirglielo, perché era andata via poi ieri sera perché era in ritardo con la baby sitter, è una ragazza straniera la baby sitter, brava con il ragazzino e tanto attaccata anche ai nostri due cagnolini, sono così belli, affettuosi, sa, quei bassotti con il pelo ispido, prima stavano da me però ora stanno da mia figlia che ha un bel giardino grande, pieno di piante e fiori, c’è anche l’orto, dovrebbe vederlo, lo curava sempre mio marito finché era vivo, è morto due anni fa mio marito, lo stesso anno del suo migliore amico, un amico di vecchia data, si conoscevano dalla guerra e hanno continuato a vedersi e andavano a caccia, io non ero tanto d’accordo perché è pericoloso andare per boschi, abbiamo una certa età ormai, gli dicevo, fa’ un altro sport, mio nipote fa la pallanuoto, ma non qui, a Genova… che caldo che fa… »

martedì 17 gennaio 2017

TRA LE COSE BELLE CHE HO VISTO


Il sole che sorge sul mare
La nascita di un puledro
Gli anelli di Saturno
I disegni degli storni
Il nuoto delle balenottere
Il cielo dell’Africa equatoriale
La luce del tardo pomeriggio nel giardino di Liliane
Lo sguardo di un daino nel bosco
La piazza del Duomo di Ortigia
La via lattea dai pascoli di Villatalla
I dipinti di van Dyck
Un uomo che osservava i banchi di un mercatino
La paolina Borghese del Canova
La libreria Lello & Irmão a Oporto
Tra  filari di vite la neve illuminata dalla luna


lunedì 16 gennaio 2017

SALVATORE ARANZULLA

Da tanto tempo volevo dirtelo: per quanto mi riguarda, Salvatore, grazie di esistere e di condividere. Hai una soluzione per tutto   ;-)

sabato 14 gennaio 2017

ARCHIVIARE I SOGNI

Ho letto il pezzo di Marco Filoni sul lavoro di Bert Kaplan, la cui storia di aspirante archiviatore di sogni è raccontata nel libro di Rebecca Lemov “Database of dreams” (University Press).

Al suo buon articolo vorrei aggiungere che sarebbe però bellissimo poter realmente registrare su supporto i propri sogni. Con una pendrive da infilare da qualche parte sulla fronte come la bella Stefania Rocca in Nirvana. Dico sempre che quello sì che sarebbe un device che pagherei qualsiasi cifra, certa che sbancherei i botteghini proiettando sul grande schermo le mie avventure oniriche. Ritorno economico a parte, è un vero peccato che di questa realtà così intensa, profonda, odorosa, e variopinta, che è parte integrante della nostra vita, possiamo conservare solo brandelli.

domenica 8 gennaio 2017

COS’È UN OGM?

Che senso ha la recente diatriba sugli ogm (organismo geneticamente modificato), con le aziende che premono affinché le nuove varietà vegetali ottenute modificando il dna senza introduzione di materiale esterno non vengano definite appunto ogm? In molti Paesi infatti, in assenza di tale introduzione, si commercializzano senza problemi nuove varietà a prescindere dalle tecniche con cui sono state ottenute, mentre in Europa viene definito ogm ogni organismo le cui modificazioni non sono spontanee e dovute alle ricombinazioni che avvengono in natura ma appunto indotte dall’intervento umano sul dna. Io credo che le parole abbiano un significato e che una modifica sul dna anche senza l’introduzione di materiale genetico esterno determini la nascita di un organismo geneticamente modificato, quindi come tale deve essere definito. Perché abbiamo paura di chiamare le cose con il loro nome? Nel caso specifico sicuramente perché la dicitura ogm vale un marchio di infamia e comprometterebbe l’accettazione sociale e quindi commerciale, ma questo è.
Altro è entrare nel merito della questione ed essere favorevoli o meno a tali procedure. Certamente le nuove tecniche, non più da film dell’orrore come agli esordi, devono ricondurre alla riflessione tutti quanti e, a parte le modifiche a favore di una crescente resistenza a pesticidi e anticrittogamici*, la maggior parte delle altre, vista la condizione generale del pianeta, ad esempio i problemi idrici, sono da valutarsi con estremo interesse studiandoci sopra.


*una caratteristica, questa della resistenza alle sostanze chimiche che si vuole approvata e adeguatamente finanziata non solo per poter vendere maggiori quantità di veleni, come di fatto accade in barba alle promesse, ma anche perché potrebbe risultare molto utile in relazione all’aumento di tossicità degli habitat. Terre, acque di superficie, falde, pioggia, a tal misura infetti da poter a breve, se non vi sarà una reale rivoluzione mentale, mettere a rischio prima l’agricoltura intensiva poi anche quella tradizionale sostenibile che non farà in tempo a riprendere lo spazio che le è stato in tanti casi vilmente e violentemente sottratto.

giovedì 5 gennaio 2017

Mandiamo In Pensione Riccardo Orioles

LETTERATURA CANADESE E CONSIDERAZIONI

Quando, inevitabilmente, penso al fallimento dei sogni che avevo, bambina e ragazza, mi sale una buona dose di sconforto. Sogni come promesse di quello che sarebbe stata la mia vita. Promesse che rinnoverei se non fosse che, nel frattempo, ho fatto pace con la realtà contingente.
Poi capita (e accadimenti analoghi, analoghi per l’esito che determinano, per fortuna, non sono rari) che decido di leggere con estrema attenzione il numero di fine anno di Internazionale, numero dedicato alla letteratura canadese, e resto colpita dai lavori di alcuni autori. Ne leggo le brevi biografie e sorrido. Mi si apre proprio il cuore. Sono più giovani di me, alcuni di poco, sette, otto anni, e sono riusciti a realizzare cose che avrei realizzato volentieri anch’io. Ci sono riusciti. Qualcuno ci riesce. Lo sconforto scompare. Scompare in un modo che corrisponde allo scoprire in me uno sguardo di madre. Un’attitudine da mariposa, da custode. Una bella scoperta.
Comunque, venendo ai contenuti di Internazionale, ho molto apprezzato il racconto “Gli ultimi nati” di Samuel Archibald, classe ’78, di cui mi sono appuntata di cercare una raccolta di racconti, e lo spirito del progetto fotografico “OH, Canada” di Naomi Harris, classe ’73. Mi ha incuriosito la scrittrice Leanne Betasamosake Simpson (di cui non ho trovato l'età), e commosso Sean Michaels, classe '82, con il racconto “L’altro festival”.