venerdì 8 gennaio 2021

RAGAZZI CHE SI MENANO

Da settimane la cronaca abbonda di articoli riguardanti risse tra ragazzini e adolescenti che sul web si accordano per luogo e ora di appuntamenti collettivi durante i quali dar libero sfogo ai propri impulsi. In sostanza, ragazzi che si menano. A gruppetti, a decine, a centinaia. I sociologi analizzano, genitori e insegnanti rimpallano le responsabilità gli uni agli altri, i media amplificano l'eco favorendo l'emulazione. Le cause vengono rintracciate nell'innaturalità imposta alle nostre vite dalle restrizioni per il contenimento della pandemia e le colpe attribuite ai social che diventano l'unico canale di scarico per le frustrazioni dei giovani. Lì ci si ritrova e ci si incontra con altri che provano disagi simili ai propri.

La rabbia, il senso di noia, inutilità, e ingiustizia, sono comuni. Ci si riconosce come parte di un gruppo che rivendica le medesime cose. Ci si autorizza vicendevolmente a compiere azioni ribelli che si traducono nei fatti in esplosioni di violenza nei confronti dei propri simili, quindi, in ultima analisi, nei confronti di se stessi.

Se ne sta parlando e scrivendo molto in Italia ma è un fenomeno mondiale.

Così, in ordine sparso, al sentire commenti e riflessioni sui recenti fatti nostrani, i primi pensieri che ho avuto sono stati i seguenti.

I ragazzi si sono sempre menati. È un rituale di passaggio. Il primo riferimento che mi viene in mente è “I ragazzi della via Pal”, il romanzo dell'ungherese Ferenc Molnàr. Solo che oggi è la dimensione aumentata di tale prassi a impressionare.

I fight club esistono da tempo ma per accedervi finora è stato necessario appartenere a certi ambienti, conoscere le persone “giuste” o navigare nel deep web quando non nel dark web. Così alla luce del sole raramente si è visto. E, in ogni caso, la partecipazione su base volontaria non tocca fasce anagrafiche così basse. Questo ci spaventa. L'età. Giustamente.

Ma non si può regolarmente cascare dal pero.

Oggi possiamo affermare, senza esitazione, di vivere in quel genere di società distopica annunciata da decenni dalla migliore letteratura di genere e dalle riflessioni di eminenti filosofi, scienziati, pensatori che, evidentemente invano, hanno tentato di metterci in guardia. La maggior parte degli adulti in questo momento storico o è fuori di testa o sta in equilibrio su stampelle fornite alternativamente da alcol, cibo (troppo o troppo poco, a seconda), lavoro compulsivo, psicofarmaci, serie tivù, shopping, interventi estetici, bitcoin, azioni Amazon, influencer, zuffe sui social, esposizione e condivisione virtuale del privato, apericena, diatribe che esito a definire politiche, e, insomma, tutto quello che vi viene in mente e con cui riempiamo i miseri spazi vuoti che restano nelle nostre vite. Stiamo persino per perdere la posizione eretta e la vista, sempre con il capo piegato e gli occhi su schermi di misure variabili. Nella cosiddetta era della comunicazione abbiamo smesso di comunicare, di cercare un linguaggio comune. Di ascoltare. Con supponenza abbiamo fatto orecchie da mercante e deriso i moniti, abbiamo sottovalutato, abbiamo snobbato, abbiamo rifiutato di leggere, di studiare, di analizzare. Abbiamo atteso e attendiamo un deus ex machina che faccia il lavoro sporco e risolva tutto quanto per noi. Ci siamo ostinati a ritenere i problemi sempre problemi di qualcun altro. Abbiamo disconosciuto le nostre responsabilità e adesso inorridiamo a vedere la nostra progenie allo sbando. Abbiamo seminato vento. Il problema è che la tempesta noi la vivremo per poco. Saranno loro, i ragazzi, che dovranno viverci in mezzo improvvisando strumenti di sopravvivenza fisici e mentali per non soccombere. O, forse, in modo distorto, sono già avanti e hanno capito che, piuttosto che sopravvivere a questa maniera, tanto vale dare sfogo all'istinto di autodistruzione.

Ma tornando alle responsabilità, e attenuando il cupo ritratto appena fatto del mondo degli adulti, la discussione su a chi competa maggiormente l'educazione dei giovani, se ai genitori o agli insegnanti, su chi gravi la responsabilità prima del fallimento, trovo sia una diatriba sterile. Non c'è contrapposizione tra le parti ma dovrebbero esse essere un unicum che opera in collaborazione. Il problema è che sia genitori che insegnanti sono come tutti noi privati del medium principale utile a potersi dedicare in modo adeguato al compito cui sono chiamati: il tempo. Si è tanto parlato del tempo in esubero concesso dal confinamento forzato e totale della primavera scorsa, del tempo che avanza ora con l'obbligata rinuncia a uscite e convivialità, ma quello di cui parlo non è un tempo fisico ma principalmente un tempo mentale. Ognuno preso da scadenze e rate, da preoccupazioni per l'oggi più che per il futuro, dalla frustrazione di donchisciotesche battaglie per risolvere problemi che tali non dovrebbero essere, con insegnanti obbligati a destinare molte delle proprie ore alla compilazione di relazioni anziché alla propria e altrui formazione, come possiamo pensare che avanzino lucidità ed energia per votarsi all'educazione, all'ascolto e alla comprensione, all'esempio da trasmettere? Nemmeno i più virtuosi e motivati individui ce la possono fare a districarsi dalle maglie di questa vita frenetica e assurda. Fino a che punto dunque gli si può imputare una colpa?