martedì 15 maggio 2018

LO STATO NAZIONE – LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI


Riporto un testo di un paio di anni fa



                Continuiamo a discutere di politica riferendoci a quanto accade all'interno dello stato in cui viviamo. Questo è l’approccio mentale della maggioranza delle persone. Importano i fatti degli stati sovrani, a ognuno quello di appartenenza, tutto il resto è politica internazionale, roba estera che non ci riguarda, se non per il tempo del risalto mediatico. Ma le pressioni e le dinamiche con cui gli stati hanno a che fare sono le stesse per tutti. Siamo dentro a un sistema globale che sta determinando la fine delle autorità nazionali così come le abbiamo conosciute sino a oggi. Quante volte ciò che fino al giorno prima pareva impensabile è poi diventato consuetudine? Non è la prima volta che accade nella storia e siamo ancora qua. Ora è il nostro turno. Sicuramente la complessità del cambiamento in atto preoccupa al punto che la tentazione di negarlo e restare aggrappati al passato è forte, ma cedere ad essa si ritorcerà contro noi tutti. Sta all'intelligenza, alla lungimiranza e all'onestà intellettuale di ogni individuo cogliere il momento e compiere lo sforzo che può portarci in una nuova era, un’era in cui tutto ciò che ci spaventa come un qualcosa di irrisolvibile, ciò che pare ci sottragga sicurezza e identità, improvvisamente ci appaia come d’incanto del tutto gestibile. Non è per nulla utopia. Dobbiamo semplicemente accettare la sfida e dimostrare che ne siamo all'altezza. Eppure continuiamo a comportarci e pensare come se gli stati avessero ciascuno un percorso e un destino individuale svincolati da quelli degli altri e del tutto diverso. Come se quanto riguarda noi, riguardasse noi soltanto e, anzi, dovremmo smettere di utilizzare tale pronome in modo errato. Il pronome personale plurale inclusivo per eccellenza. Che non ne presuppone un altro in opposizione, se non in un’interpretazione fallace e fuorviante. Non vale nei rapporti umani, non vale nella politica. Non più, a quest’ora della storia umana. È giunto il momento di superare questa visione obsoleta, senza farsi prendere dal panico. La sovranità statuale, oltreché attore inefficace nel panorama globale contemporaneo governato dalla rapidità di movimento dei flussi finanziari, e maggiormente anche per questo, si sta rivelando ingiusta. Essa è basata sullo stato di diritto. Ed è il concetto di stato di diritto come a tutt'oggi è inteso che non va bene. Lo stato di diritto, come lo conosciamo, è basato sul possesso di un territorio e sull'appartenenza a una comunità sociale da parte di tutti coloro che vi sono nati e lo considerano proprio in modo assolutamente naturale. Tale possesso non è altro, però, che l’esito relativamente recente di un processo di appropriazione basato sulla regola dell’efficacia. Regola dellìefficacia è un modo meno brutale per dire regola della forza.  Alla fin fine l’insieme dei rapporti mondiali non è altro che una sorta di piazza in cui si commerciano i beni delle varie nazioni, sulla base del semplice principio che se qualcuno possiede qualcosa lo può vendere a un altro. Sembra ovvio, sembra scontato ma è del tutto sbagliato. I governi di tutto il mondo autorizzano (sanzioni ed embarghi a parte) i propri cittadini ad acquistare e considerare propria qualunque merce possa essere consegnata e venduta da un paese straniero, in quanto il possesso di tale merce soddisfa appieno i requisiti di legalità richiesti dal commercio internazionale. Peccato che il possesso non implichi la proprietà. Peccato che la legalità non implichi la legittimità.
La domanda fondamentale è: cosa ha determinato tale possesso? Una domanda che i governi non si pongono, troppo impegnati a esaudire le crescenti e incessanti richieste di beni e risorse da parte dei propri cittadini. Una delle prime cose da fare è costituire un organismo legale unico al di sopra dei sistemi nazionali in grado di giudicare in merito ai reali diritti di proprietà e in grado di farli rispettare. I singoli stati non sono nella posizione di poterlo fare, né hanno convenienza a farlo. Non è però più possibile vivere in una società totalmente interconnessa in cui vige un sistema composto da centinaia di legislazioni di diritto privato del tutto indipendenti e scollegate. Non intervenire su quanto sta dietro la proprietà delle risorse implica l’accettare che, in molti casi, la forza produca diritto e il risultato non può essere che l’appropriazione della gestione della res publica da parte di chi la forza la detiene, con la conseguente perdita di controllo da parte dei governi sui processi economici e quindi sociali. Si abdica così alla funzione prima di un governo, e ciò in favore e al cospetto di agenti indiscutibilmente forti di un potere economico e finanziario internazionale senza precedenti nella storia, e questo senza iniziare a pensare seriamente alla creazione di un’istituzione governativa transnazionale e sovranazionale che si ponga in modo concreto ed efficace quale contraltare a tale invece assai concreto ed efficace potere.
Preso atto che l’utilizzo delle risorse e la gestione della ricchezza sono ormai del tutto svincolati dalla politica delle singole nazioni, dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione e pensare a una grande innovazione politica che ci avvicini maggiormente all’idea originaria di società delle nazioni. Altrimenti la politica non potrà che continuare a deluderci. I suoi rappresentanti ci deluderanno. Quando non corrotti e in malafede, saranno comunque e inevitabilmente incapaci di risolvere i problemi in cui siamo immersi, e lo saranno finché non inizieranno di concerto a pensare su larga scala. Dobbiamo pretendere da essi che lo facciano.
I governi tagliano le garanzie sociali, pregiudicano la capacità di accesso al lavoro, alla salute, all'istruzione, al sostentamento stesso, e quindi a una vita dignitosa, a milioni di persone, milioni che messi tutti insieme iniziano a essere miliardi. Nel primo, nel secondo, nel terzo e quarto mondo che sia, non fa differenza. Come si giustificano? Garantendo che le scelte fatte rappresentano l’unico modo di controllare il mercato. Ma quello che in sostanza fanno è mentire. Non mi stancherò mai di ripeterlo: nonostante le molte comprensibili visioni apocalittiche, ci sono risorse, tecnologie, innovazioni possibili che permetterebbero una buona qualità di vita per tutti, ambiente incluso. È necessario però leggere, documentarsi, studiare, riconoscere l’autorità di molti studiosi, scienziati, economisti, filosofi, che da tempo hanno messo sul tavolo ottime soluzioni. È necessario farla finita con l’arroganza e la presunzione. Con il dire che son tutte belle parole ma la realtà è un’altra. Questa è pigrizia, menefreghismo, supponenza, aridità, pochezza d’animo.
La realtà è che i governi, oltre a non avere voce, se non simbolica, a livello internazionale, sono in grado di avere solo più un’influenza parziale e decrescente sulle questioni nazionali. E cosa fanno? Impegnano tutte le energie a cercare di nascondere la cosa con ogni mezzo possibile, in primis procurando emergenze. I politicanti interni alle singole nazioni sguazzano senza rimorsi nel pantano riconosciuto a livello internazionale come l’unico scenario politico possibile e non fanno altro con le loro schermaglie che intorpidire ulteriormente le acque e le menti di chi li ascolta. In effetti sembra sia l’unico scenario politico possibile perché nessuno ha il coraggio di fare il primo passo con autentica e sollecita determinazione. Certo, la prospettiva di provare a muoversi in un insieme di tramagli senza soluzione di continuità dissuaderebbe anche il padreterno ma non c’è alternativa.
La tanto e giustamente criticata globalizzazione non darà i buoni frutti che da essa ci si aspettava, se non verrà completata con un sistema politico capace di avere una visione di insieme sui grandi temi. È necessario integrare la gestione e la salvaguardia delle realtà nazionali con una regolamentazione internazionale e sovranazionale sui temi che hanno a che fare con la vita sul pianeta. Salute, cibo, risorse, finanza, ambiente, diritti. Senza possibilità di veto. Ogni stato deve essere in grado di rientrare all'interno di una più ampia architettura democratica stabile che a propria volta sarà garante nei confronti di tutti dell’equilibrio generale ed eviterà il collasso del sistema. Gli uomini di Ventotene questo avevano in mente. L’Unione europea era questo sogno. Un primo passo nella giusta direzione. Siamo delusi dal risultato? Bene. Al primo tentativo non sempre si riesce. Ricominciamo daccapo. O vogliamo buttare con l’acqua sporca pure il neonato? L’idea di un federalismo planetario è l’unica strada da percorrere. L’ho scritto altre volte e più passano gli anni più ne sono convinta e non mi rassegno alla cecità dilagante. Al teatrino della politica interna, allo spreco di energia mentale che potrebbe essere meglio rivolta. L’energia mentale di cittadini che gli stati si ostinano a turlupinare spacciando come importanti quelle che sono invece dinamiche di potere ormai ammuffite e soprattutto sterili.
Siamo ormai in un’era post industriale, in cui la ricchezza che conta non è più data dalla produzione e dal commercio, ma dalla concentrazione delle risorse e dell’informazione, dalla creazione di monopoli con cui i singoli stati non possono sedersi al tavolo perché non hanno né credenziali né forza contrattuale reale. Possono solo più limitarsi a passare per proprie decisioni obbligate, sperando di riuscire ancora a dare l’illusione di avere tutto sotto controllo. Siamo in un’era in cui milioni di persone non hanno un luogo di appartenenza ed è necessario rivedere il concetto di cittadinanza come un qualcosa che non dipenda da ereditarietà, nascita, possesso. Siamo in un’era in cui la disoccupazione cresce in modo esponenziale e si ignorano i dettami della Terza rivoluzione industriale che invece potrebbero invertire significativamente la tendenza. Siamo in un’era in cui i capitali si spostano con estrema facilità e volatilità determinando le sorti di interi gruppi sociali quando non di intere popolazioni e tutti costoro possono a malapena alzare la voce e soprattutto devono restare dove sono. Siamo in un’era in cui ogni singolo bene, ogni singolo oggetto è di fatto proprietà di tutti, perché è composto da tanti minuscoli pezzettini di vita di persone sparse per il globo terracqueo. Le catene di approvvigionamento, le supply chains, sono ciò che ci lega l’un l’altro. Può piacerci o meno, ma stando così le cose ci tocca tirar su le maniche e affrontare la questione. In alternativa lavarcene le mani. Ma poi muti a prendersi quello che arriva. Senza mugugni, come si dice dove abito.
Ce lo abbiamo sotto gli occhi l’inganno.
Per mascherare l’evidente perdita di ruolo i governi ricorrono a conflitti di sorta, alla difesa di sedicenti purezze etniche, culturali e religiose, al rafforzamento di confini, al disconoscimento di diritti fondamentali attraverso l’appropriazione degli stessi come di qualcosa a proprio uso esclusivo. A un richiamo ai valori di patria e di nazione come unico baluardo possibile. Un richiamo riduttivo e d’opportunismo. Una specie di soluzione finale dove quelli in sovrappiù stanno fuori e s’arrangiano, nella speranza che si facciano fuori l’un l’altro prima di assediare le enclavi di chi si tiene stretto quello che ha o che crede di avere. Io non posseggo senso patriottico ma amo la storia, la conosco, e ho rispetto per la volontà, la determinazione, e l’altezza di pensiero, di tanti che nel mondo hanno fatto ottime cose con nell'anima l’amor di patria. C’è offesa in tutto questo ciarlare sgrammaticato e aggressivo, in questo spronare le genti all’insegna di valori di cui si è smarrito il significato e pertanto la sostanza.
La sintesi di tutte le sollecitazioni mentali che ci giungono è che non ce n’è già più per tutti, che saremo sempre più, e se qualcuno sta senza è meglio. La conseguenza diretta è considerare noi stessi tutti ugualmente vulnerabili, in pericolo e pertanto bisognosi di difesa. Tutta la nostra vita, volenti o nolenti, si conduce su questa falsariga. Ci stanno dicendo in pratica che l’unica possibilità di vivere dignitosamente è legata a doppio filo con la necessità di essere stronzi. Bisogna offendersi. Perché ce ne vogliono convincere per nascondere la propria inettitudine. Sarà la mia formazione umanistica, ma io rifiuto questo stato di cose. Io sono meglio. Nel senso che ho dentro la potenzialità di essere meglio. Tutti noi ce l’abbiamo.  Ci servono solo l’umiltà di riconoscere i nostri limiti, qualunque essi siano, e il coraggio di rimediare ad essi affrontando il cambiamento come la miglior cosa possa accaderci.
Non si tratta di cancellare i confini ma di superarli. Più che una società delle nazioni, si tratta di pensare a un sistema mondiale in cui siano assenti differenze tanto estreme tra le condizioni di vita delle persone, in cui la salvaguardia dei beni comuni e la tutela dei diritti siano la priorità insindacabile. Un governo globale, nel rispetto delle identità, che imponga pacificamente ma fermamente le regole necessarie a fare di questo pianeta un buon luogo dove vivere.
Non è la fine del mondo. È il mondo che cambia. Sta a noi indirizzare tale cambiamento con saggezza.

Novembre 2015