domenica 27 ottobre 2019

BURRO DANESE SALATO


Sono un po' in imbarazzo all'idea di ciò che sto per scrivere e che è molto distante dai contenuti cui dedico abitualmente la mia ricerca ma è accaduto un fatto che non riesco a togliermi di testa.
Lo so che se cerco su google cartucce per la stampante o una casa in affitto, nei giorni successivi alla mia ricerca il browser s'intasa di pubblicità di cartucce e portali immobiliari. Fin lì nulla di strano. So che se ho il telefonino acceso accanto a me mentre scherzo con il mio compagno che dice che sono sorda e lo invito a regalarmi un apparecchio acustico, alla prima connessione sul web mi appariranno offerte di apparecchi acustici di sorta. E fin lì non molto bene ma sappiamo come funziona la faccenda. Però quello che mi è accaduto alcuni giorni fa mi ha leggermente scosso.

Prima parte - Colazione a letto prima di andare a lavorare. Caffè, pane tostato, burro e marmellata. Telefonino del mio compagno sul comodino. Chiacchierando gli dico che amo il burro salato per la colazione e che da ragazza in casa mia si usava il burro danese Lurpack, quello con la carta argentata.

(Specifico che per motivi di salute da molti anni non compro burro. Ho ricominciato pochi mesi fa (due confezioni di burro chiarificato in cinque mesi) perché non posso imporre il mio regime alimentare al prossimo e perché mi è tornata una gran voglia di cucinare manicaretti e, si sa, il burro in certi casi è indispensabile in cucina. Risotto senza burro per mantecare non esiste. In ogni caso saranno minimo quindici anni che non compro burro danese.)

Seconda parte – Nel pomeriggio andiamo in un supermercato in cui mi reco mediamente una o due volte al mese per alcuni prodotti specifici. Compriamo solo tre confezioni di birra. Alla cassa passo la mia tessera fedeltà (non voglio qui aprire un capitolo sulle carte fedeltà) e a pagamento effettuato ricevo un buono sconto per una confezione di burro danese salato Lurpack.

Brivido lungo la schiena. Per essere una coincidenza, è inquietante. Percepisco fisicamente mia razionalità vacillare. Per un attimo mi sento catapultata in un mondo controllato dal Grande Fratello, un mondo ovviamente piatto e governato da rettili sotto spoglie umane, con nanochip, diffusi dalle scie chimiche, che vanno a infilarsi nei pori della nostra pelle e con sostanze chimiche introdotte in farmaci e alimenti per condizionare le nostre capacità percettive e intellettive...
Poi mi sono venuti in mente il sistema Echelon, Edward Snowden, l'NSA (l'agenzia per la sicurezza nazionale statunitense). Tutto ciò che negli ultimi decenni è stato indagato e dimostrato, attraverso interrogazioni parlamentari e inchieste serissime. E mi sono ricordata che i dati raccolti su di noi con il nostro più o meno consapevole beneplacito e quelli sottratti attraverso i nostri devices con tecniche degne della migliore letteratura di spionaggio e fantascienza, vengono venduti a grandi aziende e multinazionali. Ma a essere veramente inquietante è la velocità con cui ciò avviene. Solo un complesso e omnicomprensivo sistema di intelligenza artificiale può arrivare a tanto e se si è affidata a un tale sistema la gestione dei dati significa che esistono accordi forti, ad alto livello, non trasparenti, e ben consolidati. Ciò dà la misura dell'inesorabile inadeguatezza dei tentativi di ripensare la società in termini di equità e giustizia. Brivido lungo la schiena.


venerdì 25 ottobre 2019

RIFLESSIONI SERALI SULLA FILANTROPIA


Crediamo che progredire significhi avere più dei nostri predecessori. Non riusciamo ad affrancarci da questa convinzione. Di fronte alle evidenti e dilaganti ingiustizie e sofferenze, tutt'al più tacitiamo la nostra coscienza al pensiero di quel po' di filantropia nel mondo che mette una pezza qua e là. Ma la filantropia è siffatta per lasciare le cose come stanno: da una parte chi dà e dall'altra chi riceve. Nulla nella filantropia ha mai portato né porterà a un cambio di paradigma. Forse perché non abbiamo ben chiaro cosa significhi benessere degli altri, cosa sia il benessere degli altri. Per come ci muoviamo, continueranno a esistere gruppi di persone che daranno sostegno ad altre senza che venga messa in atto una strategia per far sì che diminuisca il numero di coloro cui è necessario dare. Lo stesso dicasi per la carità che esaurisce la propria funzione nel momento in cui viene esercitata. È il momento di dire basta. Il punto è che dal momento in cui nasciamo abbiamo dei debiti intrinseci l'uno con l'altro. Ognuno di noi è responsabile per ogni bambino morto per disidratazione, fame, annegato, saltato in aria. Ognuno di noi lo è per ogni conflitto in atto. Siamo responsabili in solidum per tutto quanto. Ma il massimo che riusciamo a fare è donare il corrispettivo di un paio di colazioni al bar. Dovremmo invece indignarci per ogni spot in cui ci chiedono due euro, raccontandoci la favola che due euro sono pochi per il singolo ma tanti singoli insieme possono fare la differenza. La differenza la farebbe insultare e mettere alle strette chi ci prende per i fondelli e dilapida milioni di euro per sovvenzioni a settori mortiferi. Chi incentiva il razzismo o le diversità quali che siano per dividere chi è sfruttato. Chi rende illegale rispondere alla propria coscienza aiutando chi chiede aiuto, riparo, cibo. Ovunque nel mondo proliferano leggi per impedire qualsiasi atto privato di solidarietà. L'unica identità che ci viene riconosciuta è quella in cui noi accettiamo di esistere per produrre, vendere e comprare. E trasformarci a nostra volta, come è, in prodotti. La povertà è la vergogna, è il tabù di questo millennio storto e malato. Su queste basi la storia dell'umanità è finita.

domenica 20 ottobre 2019

NON CE NE IMPORTA NULLA?


Non ce ne importa nulla? O è un problema di percezione? Questo è ormai il mio rovello quotidiano.
Sappiamo che è in corso una guerra, un conflitto diffuso, un insieme di guerre, chiamiamo quello che è un po' come vogliamo, ma lo sappiamo che è così. I notiziari rigurgitano morte e dolore eppure non ci sentiamo coinvolti se non nella misura di un dispiacere calmierato. Non riusciamo a percepire di esserci dentro. Le peggiori tragedie restano fatti di cui sentiamo parlare che non inficiano la nostra capacità di tornare alle nostre faccende. Abbiamo bisogno delle immagini. Dell'immagine di noi stessi dentro la guerra per crederci. Altrimenti è un qualcosa di non qui e non ora. Si tratta della distanza tra venire a sapere una cosa e credere ad essa. Della distanza tra il sapere e il sentire. Il massimo che riusciamo a concepire è che stia accadendo qualcosa di grave ma di non così diverso da cose già accadute e superate e pertanto altrettanto superabile anche senza il nostro intervento o senza che esso sia determinante. Non siamo in grado di metterci in allarme finché percepiamo fatti e problemi solo a livello concettuale e non fisico. Dovremmo ogni giorno provare la sensazione di morire sommersi da un'inondazione o sotto un bombardamento, di seppellire ogni giorno un figlio avvelenato dal cibo con cui l'abbiamo nutrito, un fratello morto d'inedia, una sorella per mancanza di cure adeguate. Di essere ogni giorno scacciati da casa nostra, ridotti in schiavitù, incarcerati per aver detto la verità, fatti saltare in aria per un ideale che non abbiamo voluto tradire. Come un girone infernale che faccia percepire a ogni molecola del nostro io che non possiamo chiamarci fuori. I dati sconvolgenti di cui veniamo a conoscenza infatti non hanno su di noi che un impatto emotivo transitorio. Crediamo che tutto avvenga in luoghi sufficientemente distanti dalle nostre individuali vite private, che avvenga a causa di grandi forze esterne e che solo da grandi forze esterne possa essere risolto. Accusiamo governi, multinazionali, poteri forti e occulti, di ciò che non va ma rimuoviamo il fatto che essi agiscono e producono per noi. Se pur per loro cospicuo profitto, essi agiscono a nostro nome vendendoci ciò che noi ci aspettiamo di poter avere. E se essi commettono dei crimini, mal amministrano le risorse, causano disordini e condizioni belliche, ci ingannano, o comunque procurano danni, noi siamo corresponsabili senza attenuanti. Quando ci degniamo di scendere per strada a manifestare dovremmo ricordare che è contro noi stessi che dovremmo principalmente farlo. Eppure proseguiamo le nostre esistenze come se tutto fosse altrove, come se noi fossimo, nel migliore dei casi, soltanto scorati e impotenti spettatori. Come quando, all'ora di punta, bloccati in un ingorgo imprechiamo contro il mondo intero, incapaci di vedere che noi siamo l'ingorgo. Che ne siamo parte integrante e pertanto causa.
Quando penso alle generazioni future mi domando se ci chiederanno dove eravamo quando avremmo potuto fare qualcosa o se, nel frattempo, si saranno abituati alle nuove condizioni di vita non avendo per esse un termine degno di paragone e si sentiranno, come noi ora, estranei alla realtà che vivranno e non responsabili per ciò che in essa andrà male.

Il quesito che resta insoluto è: come impegnarci in una guerra che non viviamo, non vediamo e che per noi deve ancora scoppiare?

mercoledì 9 ottobre 2019

MARGA MEDIAVILLA VERSUS JOHN GRAY


Ho letto, entrambi sull'ultimo numero di luglio di Internazionale, l'articolo di John Gray sulle illusioni degli ambientalisti e quello di Marga Mediavilla in risposta a John Gray. Le posizioni sono opposte. Mentre leggevo il primo, ignara di quello successivo, avevo segnato a margine alcune considerazioni alcune delle quali ho poi in parte ritrovato, ben argomentate, nell'articolo di risposta. Allo stesso modo nell'articolo di Mediavilla ho trovato passaggi su cui discutere. Ritengo che entrambi dicano cose vere ma le loro visioni restano parziali. A mio parere i loro diversi punti di vista vanno considerati unitamente e possono essere complementari.
Con una buona dose di ragione Gray sottolinea l'illusorietà dell'efficacia delle misure, apparentemente drastiche, per la riduzione delle emissioni o l'azzeramento delle stesse entro il 2050 come proposto da alcuni Paesi dell'Unione sull'onda dei movimenti Fridays for Future e Extinction Rebellion. Inefficaci come come tutti i provvedimenti urgenti che puntualmente, come usanza ai summit, vengono differiti ai decenni successivi. Misure e provvedimenti che non tengono conto, ad esempio, di meccanismi, quali quelli di retroazione che possono amplificare (retroazione positiva o feedback positivo) o diminuire (retroazione negativa o feedback negativo) gli effetti di un cambiamento e che rispondono solo a dinamiche di convenienza elettorale.
Gli stravolgimenti ormai sono insiti nel sistema. Né cortei di protesta né summit alla mercé delle lobbies potranno mai determinare una soluzione degna di tal nome. Ciò non significa che possiamo allora fregarcene ma non possiamo nemmeno illuderci. Nostro malgrado, sit in, manifesti, raccolte di firme, in buona parte procurano solo autocompiacimento e non posseggono per un'intrinseca debolezza dei movimenti di massa la forza per scalzare il potere offrendo una meditata e concreta alternativa. Laddove la determinazione individuale si indebolisce nell'illusione di una maggiore forza collettiva, al venir meno dell'impeto trascinante di questa, essa rivela la propria debolezza. Abbracciati o nascosti dal fiume in piena, nel lasciarsi trascinare dalla corrente si rilassa il tono muscolare e si dimezza il potenziale d'impatto dei singoli, che se tale rimanesse, nel sommarsi determinerebbe una potenza finale nettamente superiore a quella normalmente riscontrabile nei movimenti di massa. La percezione di una distribuzione del pericolo e della responsabilità su tanti, fa sì che singolarmente si allenti l'impegno. Nella perdita d'identità si lascia spazio al nemico, quale che sia, ed è sufficiente una preda buttata nel mezzo della piazza per generare scompiglio, incertezza, disgregazione.
Il confine tra la forza derivante dalla condivisione di un obiettivo e la perdita della determinazione individuale necessaria a raggiungerlo, proprio a causa dell'affidarsi a un'entità più grande ma, di fatto, acefala e pertanto inesistente, è molto sottile.
Insomma, non c'è scampo? Dobbiamo dunque arrenderci a un futuro in cui pochi, nelle proprie ipertecnologiche torri protese verso il cielo o sepolte sotto terra, godranno di uno stile di vita degno e si compiaceranno di ammirare i resti della biodiversità in asettiche oasi e riserve, mentre il resto dell'umanità lotterà per la sopravvivenza? O possiamo e dobbiamo ambire a qualcosa di meglio?
Dal'altro canto attribuire però una sorta di pensiero magico agli ambientalisti, tacciandoli di scarso realismo, è eccessivo e offende chi tanto seriamente si dedica a cercare di risolvere le cose ed è doveroso difendere l'operato di chi tenta con i mezzi a disposizione di dare un impulso di movimento in direzione contraria alla tendenza dominante.
Ugualmente Gray ha ragione quando sottolinea che parlare di ambiente senza tener conto della situazione geopolitica mondiale è naïf. L'eccellente saggio di Leif Wenar affronta la questione in modo molto chiaro ed efficace. Ma Gray sbaglia, invece, quando afferma che l'abbandono dei combustibili fossili creerebbe solo disordini sociali su larga scala. Gli esempi che porta sono validi e certamente sarebbe necessario attraversare un periodo di assestamenti anche drammatici ma ciò non è prova che la transizione a un nuovo assetto energetico e sociale sia impossibile.
Inoltre l'utilizzo della tecnologia per migliorare la qualità della vita anziché per incentivare la produzione, nell'ottica di un'economia da stato stazionario, non ha senso solo per i miopi. Se a ciò si aggiunge il problema demografico, Mill diceva bene quando si augurava che i posteri accettassero di essere stazionari prima di essere costretti a diventarlo per necessità. Eppure, nella nostra vecchia Europa, mentre esecriamo che altrove si prolifichi a spron battuto perché consapevoli del danno inevitabile di una popolazione in crescita esponenziale, continuiamo a lamentarci della scarsa natalità nelle nostre nazioni e auspichiamo un'inversione di tendenza. Eppure una buona regola dovrebbe valere per tutti, a prescindere dall'origine geografico culturale. E, in ogni caso, come non mi stanco di affermare, le risorse sarebbero ancora sufficienti per tutti. Se però l'alternativa ai fossili implica automobili elettriche per la cui produzione serve il doppio dell'energia rispetto a una vettura convenzionale, estrazione di metallbiocarburantii rari per le batterie, o automobili a biofuel quindi monoculture per biocarburanti, e se per far crescere il Pil si incendia e deforesta per coltivare mangimi per le nostre amate bistecche, allora siamo punto e a capo. Va interdetto tutto ciò che si accompagna all'aggettivo intensivo. Colture ed allevamento intensivi in primis. Ma, a quanto pare, conta solo aumentare le esportazioni. L'unico dictat resta accumulare ricchezza. Ribaltare tale sistema, Gray non ha torto, scatenerebbe disordini e conflitti ma questi già ci sono e non potranno che aumentare di intensità e diffusione. Rinunciare all'idea di uno stravolgimento del nostro sistema socio economico non è quindi meno illusorio che prodigarsi perché esso avvenga. Il modello di economia che abbiamo eletto sovrano non può, per sua propria natura, accettare vincoli e limiti. Nulla è impossibile per esso, meno che mai la crescita infinita, con buona pace di entropia e termodinamica. Come credere dunque che proseguire su questa strada sia meglio che batterne una nuova?
La visione di un futuro con produzione sintetica di alimenti e concentrazione della popolazione in centri urbani ad altissima densità, abbandonando gli spazi naturali a se stessi in modo che si rigenerino mi attrae anche perché tiene conto con maggiore realismo del contesto in cui viviamo. Proposte come decrescita e agricoltura biodinamica purtroppo sono fuori tempo massimo. D'altro canto è una strada che va perseguita, perché è meglio, come dice Mediavilla, decrescere meglio che decrescere peggio, visto che nella decrescita ci siamo fino al collo comunque.
Per secoli, nel nostro percorso verso la laicità, siamo stati incoraggiati a credere di avere sulla vita quel potere per secoli attribuito a dei inesistenti e oggi tale convinzione ci si ritorce contro perché ci ha resi incapaci di ritenerci parte di un unicum. Nonostante ciò perseveriamo in un delirio di onnipotenza alimentato dalla cupidigia di pochi individui molto determinati e dalla dabbenaggine, dalla disonestà, e dall'ignoranza arrogante di tanti amministratori della res publica. Come proclamò George Bush senior, il nostro stile di vita non è negoziabile. L'idolo è lì sul piedistallo. Noi siamo perfetti e in grado di fare ciò che vogliamo senza pagare dazio. Quindi chiunque pretenda un approccio realistico con problemi quali, ad esempio, il cambiamento climatico è ritenuto un disfattista.
Gray afferma che compito della scienza è determinare leggi universali indipendenti dalle convinzioni e dai valori umani. Concordo riguardo alle convinzioni. Riguardo ai valori invece sta a noi riuscire a mantenere vivi e forti principi etici e giustizia all'interno di un contesto dato per quanto difficile si presenti.
Mediavilla definisce le soluzioni di Gray rattoppi, la sua fiducia nelle invenzioni degli ingegneri illusoria. Soltanto chi è ancora convinto che le risorse siano illimitate, la più grande e deleteria utopia dgli ultimi due secoli, può pensare che tacitare gli ecologisti e affidarsi alla sola innovazione tecnologica sia la soluzione. Ma credere di poterne farne a meno è altrettanto ingenuo che credere ciecamente in essa.
Mediavilla ritiene la critica di Gray nei confronti dei movimenti ecologisti puro disprezzo ma non è proprio così. Gray analizza i fatti. Se è innegabile infatti l'importanza di sostenere i gruppi ambientalisti d'altro canto è chiaro che il loro operato è insufficiente. Non hanno il potere necessario.
Giusta, in conclusione, e l'unica che abbia veramente un senso, l'affermazione finale di Mediavilla sul fatto che stiamo comunque già decrescendo e dobbiamo solo decidere se farlo bene o male. Proteggendo la biosfera e la società o alimentando le disuguaglianze. E tocca appunto a noi decidere.