martedì 15 settembre 2020

PERMESSO DI USCITA

SONO ONORATA E GRATA DI AVER RICEVUTO PER QUESTO ARTICOLO UN RICONOSCIMENTO PRESTIGIOSO: IL TERZO PREMIO NELLA SEZIONE GIORNALISMO E CRITICA DEL CONCORSO MARIO SOLDATI 2020 INDETTO DAL CENTRO STUDI E RICERCHE "MARIO PANNUNZIO" DI TORINO


Mi è stato proposto di scrivere un pezzo sulla fine del confinamento cui siamo stati costretti per arginare il contagio, sulle prime impressioni provate a rientrare nel mondo. Sul tanto atteso permesso di uscita.
Le prime frasi che ho scritto si sono tradotte in una lunga serie di domande.
Permesso di uscire. Uscire da dove? Uscire verso dove? Uscire perché?
Uscire dalla propria abitazione come se si trattasse di una prigione e non del luogo deputato al calore domestico, al raccoglimento famigliare, alla pace e al riposo. Quanta ansia, quanto dolore, quanta violenza si annidano tra le pareti di casa? Quanti silenzi e incomprensioni? Quante attese deluse e piccole quotidiane meticolose vendette? Dover riconoscere la consistenza ponderale delle proprie scelte sbagliate, dei compromessi per interesse o per timore dell'ignoto, del non aver saputo chiedere aiuto per tempo ed essere rimasti intrappolati in relazioni distruttive. O, più banalmente, scoprire di aver riempito gli spazi di cose e null'altro. Non tollerare il silenzio, lo stare con i propri pensieri, non conoscere i benefici dell'otium e aggrapparsi alla rete, ovviamente superveloce, come unica scialuppa disponibile per non sentirsi trascinare a fondo dall'angoscia dell'esistere. Un'umanità che riesce a sopravvivere solo nella bagarre del movimento continuo, dello spostamento, del rumore bianco di un vociare promiscuo e confuso, solo nell'avere un'ininterrotta serie di impegni, appuntamenti, incontri, cui tenere dietro a ritmo serrato.
E uscire perché? Per andare dove? Per vedere cosa?
A me è mancato il poter approfittare di un mondo vuoto. Respirare lungo la costa l'aria intrisa di salsedine e l'odore di sottobosco in questa regione che intreccia il mare ai monti. È mancato camminare per le strade deserte, osservare la città vuota, ascoltare i rumori del silenzio. Non avevo alcuna voglia di tornare al mondo di prima.
Fermarsi, al di là dell'aspetto tragico di una pandemia che ha annientato e annienterà soprattutto i più deboli in senso lato, al di là di ogni deriva sociale ed economica, di cui per ovvie ragioni rifiutiamo di vedere la portata travolgente, è stato come riprendere a respirare dopo una lunga apnea.
Ci hanno detto e ci siamo illusi che il dopo sarebbe stato meglio del prima, che noi stessi saremmo stati persone migliori. Che quanto accaduto, alla stregua di un'illuminazione ci avrebbe condotti in una nuova fase umana. Maggior consapevolezza, lungimiranza, rispetto. La commozione che ha caratterizzato alcuni momenti del confinamento e ci ha fatto sentire inaspettatamente vicini al prossimo, le lunghe liste di buoni propositi, tutto si è incenerito nel momento preciso in cui abbiamo aperto la porta di casa. Nello stesso modo in cui il coronavirus è entrato nei nostri corpi, ha amplificato patologie esistenti, ne ha scatenate di nuove, è entrato negli stati e nella società amplificandone infermità e patologie strutturali. Ha amplificato ingiustizie, settarismo, razzismo, ha evidenziato inettitudini e disorganizzazione, ha rinvigorito prevaricazioni e frodi, e ha determinato quindi, e soprattutto, disuguaglianza. Ha anche amplificato le nostre paure compromettendo le relazioni umane in una misura che pensavamo impossibile. Ha corrotto gli slanci, ha alimentato malversazioni e abusi. Ha nutrito la falsa certezza che, alla fine, visto che per ora siamo sopravvissuti, quello che conta è andare avanti a pagare le rate.
Tutti ovunque ormai concentrati sul tempo da recuperare. Come se ci fosse del senso in tale affermazione. Come se il tempo fosse fatto di una materia plasmabile a nostro piacimento. L'imperativo categorico del rimettersi in pari. Neanche abbiamo raggiunto la pubblica via che già la logica di quel poco che avevamo se non capito almeno intuito è stata capovolta, spazzata via. Quei valori improvvisamente sacri nel momento della paura sono divenuti in un batter di ciglia debolezze. Uno sbandamento dell'anima impaurita, qualcosa di cui non necessariamente vergognarsi ma da mettere velocemente in disparte per non essere rallentati da dubbi o remore nella corsa collettiva verso un benessere, quale che sia per ognuno di noi, da riconquistare.
Nei cantieri la parola d'ordine è stata accelerare e le morti bianche sono raddoppiate in un fiat. Gli sversamenti illegali di sostanze inquinanti da smaltire sono aumentati per abbattere i costi di produzione e recuperare le entrate perse durante il confinamento. In gran parte della produzione intensiva zooagricola si sono accantonate le poche minime norme di buona condotta ottenute in anni di lotte per immettere sul mercato prodotti a costi sempre più bassi e andare incontro all'acquirente medio cui, più che mai ora, preme il borsellino e se gli parli di costi indiretti ed esternalizzazioni ti guarda con le palle degli occhi fuori dalle orbite come se gli si stesse parlando in marziano. Le condizioni dei lavoratori di quasi tutte le categorie, e particolarmente nelle filiere produttive, sono peggiorate. Le aziende sanitarie, proprio in quanto aziende e non più unità sanitarie, hanno messo e mettono allo stremo il personale addetto alla salute pubblica, personale precedentemente ridotto nelle varie operazioni di ristrutturazione aziendale. Vagonate di lavoratori che accettano di essere sfruttati di fronte all'evidente e dilagante fame di lavoro. È peggio di prima, non meglio. Quel poco che finalmente iniziavamo a capire, quel barlume di coscienza che stava animando le nostre anime letargiche, quel sussulto di consapevolezza di abitare una palla di terra dalla superficie finita, quel rigurgito di humanitas che per un attimo ci ha fatto sentire responsabili nei confronti delle generazioni future, niente, tutto svanito, rimandato a data da definirsi, come nel migliore dei summit sul clima. Sono altre le priorità ed è ora che tutti se lo mettano bene in testa. Al bando i sentimentalismi da fricchettoni, da gente che non ha il senso della realtà. Dobbiamo rimettere il pianeta in piedi, far ripartire l'economia a qualsiasi costo altrimenti... Altrimenti cosa? Spiegatemelo per bene, per favore.
La necessità indiscutibile di una rapida ripresa delle attività produttive dopo il lockdown vista come la grande occasione per sbarazzarsi dei pochi controlli e delle deboli norme ambientali e sanitarie esistenti. La tutela sanitaria degli individui appaltata dogmaticamente a società farmaceutiche. Il governo della società ridotto a mantenimento dell'ordine pubblico. Lo stato sociale demandato all'iniziativa e alla buona volontà dei singoli.
Quindi uscire perché?
Fiumi di insolenti carrette intasano nuovamente le strade, guanti e mascherine svolazzano ai bordi dei marciapiedi, prima di divenire, calpestate, appesantite dalla pioggia e dallo smog, grumi di materia indissolubile, ennesimo rifiuto alla cui vista assuefarsi. Negli asili i nostri figli vengono sepolti da bicchieri in plastica monouso* in barba alle buone intenzioni di appena un anno fa. Ovunque l’usa e getta si prende la rivincita sul buon senso.
Forse l'ambiente in cui viviamo è vero che ci determina ma noi, a nostra volta, lo determiniamo. Forse, mi viene da pensare, il degrado che ci circonda ha radici remote dentro di noi e da lì si propaga contagiando tutto per poi tornarci addosso e affossare definitivamente il nostro animo così che esso non possa dare altro che un ulteriore impulso verso il peggio in una spirale perversa verso il basso.
Uscire quindi per incrociare vacanzieri feroci che affermano la propria libertà riconquistata disseminando bottiglie, sacchetti, mozziconi di sigarette, come se appunto non ci fosse un domani? Bagnanti che insozzano le coste e strappano alle scogliere qualsiasi forma di vita ancora le abiti? Adolescenti che dalle finestre lanciano lattine sui tetti antistanti in un tiro a segno contro gabbiani e piccioni? Ragazzine che si vantano di avere accerchiato una loro coetanea araba e averla linciata, perché la malattia doveva tenersela al suo paese?
Gente che infetta l'ambiente delle proprie ferie con tale noncuranza da chiedersi come viva a casa propria o se, a tal punto alienata, da trovar beneficio interiore nell'insozzare ciò che non può possedere, che non può avere se non in un'unica e stremante settimana di ferie. Lo ammetto: non accetto più l'inutilità e la nocività di taluni esseri umani. Alle volte allo sconforto si alterna un giudizio inappellabile di condanna. Un'assoluta assenza di tolleranza.
Uscire poi per constatare l'inutilità dell'agire dei giusti? La sofferenza intollerabile di creature innocenti? Per essere spettatore impotente di ingiustizie terribili e crimini feroci? Per assistere allo stupro metodico della bellezza? All'offesa sistematica della vita?
Per ammirare il deambulare di corpi la cui vacuità è esito indotto e necessario alla sopravvivenza in una società ribaltata in nome dell'interesse di alcuni? Per constatare l'irreversibile intorpidimento di individui iperconnessi ma di fatto svincolati, esenti, illesi, immuni a disastri e dolori, nella vana pretesa di non contaminarsi, di non essere raggiunti dai mali che toccano gli altri? Individui per i quali vige l'equivoco della morte anonima, quella per cui si muore a migliaia ma è come se nessuno morisse. Una società chiusa, ripiegata su se stessa, composta da schiere di solitudini chiassose.
Noi, i primi a dover imparare daccapo a credere nella morte senza riuscirci. Ad aver rimosso il senso della ciclicità della vita. E, soprattutto, i primi a dover prendere sul serio in considerazione il fatto di essere forse inesorabilmente gli ultimi. E cosa facciamo? Usciamo nel mondo che ci è stato brevemente precluso e ricominciamo daccapo a usarlo come una cloaca a cielo aperto in cui riversare i nostri rifiuti domestici e mentali.
Ci comportiamo come se il futuro fosse un posto vuoto. E cos'è un posto vuoto se non un luogo in cui non vive nessuno e che si può quindi utilizzare come discarica?
Ma qual è il problema? Forse semplicemente viviamo in un tempo inabitabile. I minuti incombono e dileguano. In un mondo lanciato ad alta velocità su un tapis roulant che man mano aumenta la pendenza, il baratro alle spalle. Un mondo capovolto in cui ben poco avviene secondo logica ed etica, in cui l'empatia è debolezza da essere derisa, debolezza che lascia sfiancati coloro che la provano, a molti dei quali resta soltanto il pensiero del ramo d'un albero e di un nodo scorsoio come ultima ratio per non soccombere all'assurdo che circonda. Siamo dunque solo più questo? Esseri inetti del tutto incapaci di riprendere in mano le redini del nostro destino di Uomini?
Ma come fare? La vecchia sindrome di Tina (There is not alternative) si propaga più rapidamente del Covid19 e una volta intaccati i tessuti del cuore e del cervello non lascia scampo, non esiste cura. Così come (l'esempio più vicino che mi viene in mente) per le morti dirette e indirette dell'Ilva di Taranto, dove da sempre si vive in una situazione di confinamento e a seconda della direzione da cui arriva il vento si serrano le finestre, anche per la sindrome di Tina non esistono tamponi e statistiche. I morti sul campo non si contano perché è come non esistessero. Tutt'al più si potrebbero considerare vittime collaterali. Depressi che non si sono voluti curare nonostante i consigli di medici e conoscenti. Un po' di Xanax, in fondo, non ha mai fatto male a nessuno.
Siamo di fronte a uno, neanche più tanto graduale, smantellamento istituzionale. È in atto uno strisciante e sotterraneo slittamento di sovranità. La popolazione mondiale pare più che altro un ammasso di cavie per i laboratori sperimentali delle aziende, senza nemmeno il tentativo di una reale supervisione da parte di coloro che eleggiamo ad amministrare e tutelare noi e il bene comune. Il contratto sociale viene cambiato e stravolto nella sua essenza mentre ci consoliamo con una buona bevuta. Solitaria o tra pochi intimi, i rassegnati e i cinici, collettiva tutti gli altri.
Ogni paese del pianeta ha ormai al suo interno il suo terzo mondo, come si usava dire un tempo, così come in ogni paese c’è chi beneficia dei tanti processi di esclusione dei più. Non si vede altro nel panorama davanti ai nostri occhi. Siamo all'assurdo che i migliori servitori dello Stato, coloro che credono nella responsabilità del compito assegnatogli, sono trattati come i peggiori, perché tanto meglio governano, tanto più s'impegnano e restano al potere, tanto più sono pericolosi. Infatti dai tempi di Falcone e Borsellino, di tal tempra se n'è visti pochi e poi non se n'è visti più, almeno qui da noi. Alcune anime oneste si aggirano, certo, ma del tutto prive di mezzi e tenute all'angolo. Quando non, in giro per il pianeta, destinate a prigioni, torture, rapimenti, a vani scioperi della fame. Nella migliore delle ipotesi a una breve e inutile eco mediatica.
Il governo dei peggiori. Kakistocrazia si chiama. Questo paga.
Una società in cui l'alternanza politica nei governi avviene se non disturba. Biden potrà anche vincere perché non intende cambiare nulla, Navalny invece no. Le proteste, come quelle recenti a Hong-Kong o contro Lukashenko in Bielorussia, per quanto intense siano, sono tutte già sul nascere in odore di fallimento. Manifestare, protestare, arrabbiarsi, sperare. Inutile. Superato il punto di non ritorno. Perché le rivoluzioni non si attuano in virtù della loro moralità e legittimità. A essere determinanti sono i rapporti di forza su cui fa affidamento il potere per agevolarle o affossarle. Triste ma è l'evidenza degli esiti a confermarlo.
Viviamo in una società nella quale, senza voler scendere nell'abominio della compravendita di bambini da “ricreazione” e altri infami mercimonii e obbrobriose mercature, esiste un mercato in cui è possibile “comprare” il nome di una via in cui non si vive e un contratto di lavoro fasullo per poter essere riconosciuti come persone. Nella quale per compensare la compressione del tempo cui siamo costretti ci vengono offerte gratificazioni immediate, anch'esse, come elettrodomestici, a obsolescenza programmata. Nella quale novelli sofisti, maestri di retorica, manipolatori di significati, curvi e senza posa come galeotti ai remi, stuprano le parole, le schiantano, le trasformano, ed elaborano nuovi linguaggi per far apparire validi ragionamenti che non lo sono, buoni discorsi pessimi, e concedere spazio allo zoccolo duro dell'analfabetismo becero. Una società nella quale espelliamo con noncuranza criminale segmenti di biosfera dallo spazio vitale lasciando alle nostre spalle residui di terra morta e acque morte. Né possiamo più recuperarle. In cui nulla è più facile che screditare esperti onesti precipitandoli nel calderone ribollente dei complottisti. In cui le disuguaglianze sono condizione sine qua non del capitalismo globale mentre non lo è un'auspicabile cooperazione transnazionale di cui infatti non si vede traccia. Perché tra nazionalismi, balcanizzazioni, e aperture, tra coloro a favore del protezionismo e coloro che vogliono economie aperte in realtà non vi sono differenze. Perché malauguratamente i secondi non credono veramente all'internazionalismo ma cercano semplicemente di ottenere accordi più vantaggiosi o mercati che favoriscano vendite più facili.
Una società in cui la politica muore perché è diventata un gioco senza ragione e senza conoscenza, perché, incapacità e corruzione a parte, non è più sufficiente avere una coscienza di classe o sperare in un elettorato cosciente, ed è stupido rivaleggiare con differenti programmi di partito però tutti a breve e medio termine che non dicono granché e, alla resa dei conti, non portano a nulla. Una politica che abdica al proprio ruolo e delega ad agenzie per la sicurezza, a polizie statali e private, a forze militari, il controllo del territorio, perché consapevole che la situazione non potrà che peggiorare e perciò degenerare. Serve una coscienza di specie, come, tra molti altri, diceva già Maria Montessori, di cui a breve ricorrerà il 150esimo anniversario della nascita.
Continuo a pensare che dovremmo avere una visione cosmica della vita. Dovremmo riuscire, noi che ci vantiamo di essere superiori a ogni altro essere animale, a scorgere quella particella invisibile all'interno della quale, cominciata l'esplorazione, ci si accorge che non esistono confini di sorta e che si apre uno spazio infinito che porta oltre i limiti di ogni realtà visibile e verso una verità perlomeno intuibile. Dovremmo ambire a quella capacità di raggiungere la conoscenza di una realtà oggettiva proiettandoci mentalmente verso la realtà cosmica dell'esistenza umana. Come esseri sensibili quali siamo avremmo il dovere di interrogarci sulle nostre “origini” e difendere quella spiritualità che consente di rispettare ogni individuo vivente ed è portatrice del bene comune. Ma quanto siamo lontani da tale apertura mentale?
È vero che il nostro agire singolarmente non ha la forza di determinare un cambio di direzione, e comprendo la frustrazione di chi tenta di fare del bene e constata l'incremento del male su scala planetaria, ma non possiamo comunque chiamarci fuori e rinunciare all'esercizio della nostra responsabilità individuale. La frantumazione delle responsabilità, le difficoltà, l'assenza di risultati non possono essere un alibi. Tanto meno il cascare dal pero a ogni piè sospinto. Nell'anno del Signore 2020 l'ignorare lo stato delle cose non è accettabile, non è giustificabile, non è perdonabile. Altresì vero che vi sono dei “nemici” reali, potenti, in alcuni casi noti, che si spanciano di grasse e laide risate di fronte ai ridicoli tentativi di chi vorrebbe un mondo retto da onestà, equità, lungimiranza. Il gridar loro in faccia con rabbia, il chiedere conto e spiegazioni, il pretendere messe in stato d'accusa laddove necessario, non fa che accrescere la loro ilarità. Perché il meglio dell'esistenza umana è già finito, la guerra è già persa.
Come credere ancora?
Invocare un'etica socratica che regoli il pensiero e l'agire.
Far sì che ciascuno di noi viva, si comporti e consumi in modo che le sue scelte possano valere ed essere praticate da tutti i miliardi di donne e uomini che abitano il pianeta.
Stilare un piano di battaglia, pensando a una pianificazione gestionale del pianeta, con buona pace di chi, per pigrizia intellettuale, alla parola piano evoca spettri di dittature sinistre.
Stare sempre e comunque dalla parte delle vittime a prescindere dal campo di appartenenza, avere cura di chi è in difficoltà e battersi contro ogni forma di discriminazione.
Ma può una società smettere all'improvviso di fare qualcosa che ha sempre fatto? No, perché ci si accorge delle cose solo quando le si è capite. Ed è proprio contro la nostra capacità di comprendere e capire che da tempo metodicamente si opera una manomissione.
La tragedia è che, oltre a tutto questo, dobbiamo prepararci a una lunga serie di eventi pandemici come quello attuale. Abbiamo attribuito l'origine del virus a riprovevoli abitudini alimentari dei cinesi, ad attività illecite di qualche laboratorio criminale, a un complotto dei signori del male, abbiamo azzardato le più svariate ipotesi ma, se anche una di esse fosse vera oltre che verosimile, l'unica cosa certa è che il virus viene da noi, dal nostro stile di vita intensivo in ogni sua manifestazione. Agricoltura, allevamenti, metropoli, fabbriche. Probabilmente se durante il confinamento abbiamo patito disturbi del sonno è stato perché una qualche parte dentro ognuno di noi sa di avere, chi più chi meno, la coscienza sporca.
Permesso di uscita.
Forse, dovremmo per prima cosa provare a uscire da noi stessi e tentare di guardarci dal di fuori. Chissà che di fronte alla triste immagine dei nostri corpi piegati a tutto, del nostro sguardo vuoto, del nostro sorriso da centro commerciale, un rigurgito d'orgoglio non ci spinga a spogliarci di queste vesti guaste che indossiamo da troppo tempo e che non ci fanno onore.

Barbara Panelli                 Imperia 1° settembre 2020









*da due a quattro bicchieri al giorno per bambino, classe di quindici bambini, una media di cinquanta bicchieri/die, uguale un migliaio di bicchieri al mese. In una sola classe.