lunedì 29 luglio 2019

IL GOVERNO CHE VORREI


Viviamo in una società isterica che cova desideri di rivalsa ma non lo ammette, che si fa forza cercando di attrarre gli interlocutori dalla propria parte, non con solide argomentazioni ma provocandone le reazioni con opinioni spesso bieche, in un tentativo di corruzione metodico. Ciò nella speranza che chi è di fronte ceda, si tradisca, esprima a propria volta opinioni e sentimenti di cui altrimenti si vergognerebbe. Un processo di svilimento e immiserimento della società in cui si rafforzano, a danno di tutti, pressapochismo e aggressività. Un rancore pervasivo che non aspetta altro che di prendere alle spalle chi non si omologa.

L'inadeguatezza dei vecchi sistemi di governo, la sfiducia nel loro operato, la stanchezza che sfocia in rabbia. Questi sono i temi centrali che accomunano le crisi politiche nel mondo intero e che vengono elusi ignorando o fingendo di ignorarne le cause prime.

Il problema è che i vari Paesi ragionano senza un'opportuna visione transnazionale perché ancorati a una concezione politica inscritta nei relativi confini nazionali, nella convinzione dell'unicità ognuno della propria storia nazionale. Come se mantenere la memoria storica e culturale del proprio Paese fosse in contraddizione con l'elaborazione di una strategia politica unitaria.

Oggi tutti i Paesi fanno parte del medesimo sistema e sono sottoposti alle medesime forze e pressioni. Deregolamentazione finanziaria, impatto tecnologico, pervasività dei media, informazione mediocre, incapacità di controllo sui flussi di denaro, individui deprivati di diritti, di identità, di un luogo cui dignitosamente appartenere, precarietà nelle varie sue forme. È disonesto sostenere l'esistenza di soluzioni che non siano collettive e, soprattutto, vincolanti senza eccezioni. Abbiamo, inevitabilmente, optato per un mondo globalizzato ma ci siamo fermati all'inizio dell'opera e pretendiamo di poter all'infinito esternalizzare gli effetti collaterali dovuti alla nostra mancanza di serietà progettuale. Illusi di poter riversare le passività in luoghi altri del tutto separati da quello in cui viviamo, come quel tipo che ha commentato, a proposito di uno sversamento di oli nel mare qua davanti, tanto la corrente va verso la Costa Azzurra. Con quali parole si può arrivare a riattivare le sinapsi di chi sragiona in tali termini?

Nello scadimento generale, l'erosione progressiva dello Stato, istituzione certo da ripensare ma imprescindibile in previsione di un nuovo assetto politico mondiale, oggi è prerogativa comune alle varie nazioni. Le autorità politiche nazionali sono tutte, salvo rare eccezioni, in evidente declino, anche laddove fino a pochi anni fa si poteva parlare di eccellenze. Rappresentando ciò l'unica realtà evidente conosciuta dalle ultime generazioni, a parte gli inconsapevoli della gravità dei problemi in cui siamo immersi e pertanto beatamente o, mi si perdoni la libertà semantica e l'asprezza di giudizio, beotamente integrati, a parte gli opportunisti e i faccendieri, a molti tra coloro che restano pare di essere in prossimità della fine del mondo anziché di fronte a un cambiamento di paradigma inevitabile e auspicabile. Coloro che, invece, vedono tale prospettiva purtroppo sono pochi e malvisti. Il fatto incontrovertibile è che nessuno Stato è in grado di uscire da questa situazione di crisi da solo. Crisi deriva dal verbo greco krino (κρίνω) che significa separare, cernere, da cui in senso lato distinguere, discernere, giudicare, capire, quindi scegliere. La crisi comporta una scelta, anzi obbliga ad essa. Vivere in un periodo di crisi, tanto più quando essa si protrae e accentua, significa essere investiti da una responsabilità etica individuale e collettiva, non eludibile e non cedibile, nei confronti di se stessi e dell'intera società umana nel suo divenire. Un imperativo categorico di buona conduzione del bene comune. Che piaccia o no. In ogni epoca accade. Se questa volta pare più ardua delle precedenti forse è solo perché le altre non c'eravamo e non abbiamo idea della fatica che hanno dovuto fare coloro che hanno tenuto duro in nome di quegli ideali che ci permettono di chiamarci uomini.

Se vogliamo progredire, dobbiamo immaginare forme politiche nuove, visionarie, lungimiranti. Dobbiamo completare il processo di globalizzazione con un'innovazione di pensiero che permetta di affrancarci dalla pressione di problemi che noi stessi per incapacità o superficialità d'analisi abbiamo determinato e dal controllo esercitato da coloro cui abbiamo demandato la gestione delle nostre vite, e che tutto sono fuorché governanti. Anche qui, la verità sta nel senso della parola. Governare significa reggere il timone. A chi risulta che il timoniere debba far affondare l'imbarcazione affidatagli? I timonieri servono ma devono essere capaci altrimenti vanno sostituiti. Il problema è che in pochi ne capiscono di mare e per la maggior parte dell'equipaggio e dei passeggeri, se c'è uno al timone vuol dire che sarà capace.

Lo ripeto, nuove forme politiche, visionarie, lungimiranti. Non è utopia come generalmente afferma chi, a corto di argomentazioni, si limita a liquidare il discorso senza sottoporsi a un reale e onesto confronto. La vera utopia, meglio, la vera illusione è credere che tutto possa continuare in questo modo, con qualche pezza qua è là, per salvare la faccia. Governi che promettono grandi cambiamenti per convincere di avere tutto sotto controllo con l'evidenza contraria sotto agli occhi di tutti.

Noi Paesi occidentali opponiamo forse una maggiore resistenza mentale all'idea di un cambiamento tanto radicale perché con difficoltà consideriamo possano esserci forze esterne in grado di influenzare, controllare, modificare, le nostre vicende nazionali, rispetto ai Paesi in via di sviluppo per i quali è sempre stato così. Ci siamo disinteressati di quanto accadeva e accade in vaste zone del pianeta e oggi ci stupiamo per gli effetti che tale disinteresse ha generato.


Non possiamo accettare oltre di essere diretti da speculatori che scommettono sulla penuria delle risorse, da arraffatori di ricchezze, da politici che decidono, ripeto, decidono di non occuparsi dei problemi rimbalzandoli alle generazioni future.

È necessaria la nascita di una democrazia che travalichi i confini degli Stati, che sia in grado di assicurare equità per chiunque. Una nuova concezione di cittadinanza. Nazioni inserite in un'unica architettura di strutture transnazionali stabili, capaci di evitare che le difficoltà di singoli Paesi determinino il collasso del sistema, anzi in cui sarà il sistema stesso a risollevare le sorti di chi è in difficoltà. Tale architettura pertanto non potrà reggersi esclusivamente su principi economico finanziari ma dovrà porre le fondamenta su valori di giustizia e di giustezza da realizzare in tutti gli ambiti di interesse comune quali risorse, salute, istruzione, salari, ambiente, produzione. Un socialismo liberale planetario. Non è accettabile vivere in un sistema siffatto in cui esistano differenze tanto radicali in termini di dignità di vita. Una società in cui, man mano che le cose si mettono al peggio, la “survival tech” permette, in parte, a una buona porzione di individui di sopravvivere senza pretendere dai governi cambiamenti reali. A oggi, la quasi totalità delle innovazioni tecnologiche favorisce infatti lo status quo. Quegli stessi individui che, quando le cose il peggio lo avranno raggiunto, scopriranno che gli strumenti a quel punto necessari saranno alla portata esclusivamente di una ristretta élite.

La mancanza di una strategia realmente progressista, di cui lo stesso capitalismo evidentemente necessita, l'assenza di un equilibrio tra mercati e società civile, con una pericolosa concentrazione della ricchezza, in termini di denaro, risorse, e dati, sono fattori che non potranno che far collassare gravemente l'impianto sociale.

È provato che le società con meno disuguaglianze funzionano meglio. Quindi è realistico pensare che una società globale all'insegna dell'equità e della gestione del buon padre di famiglia sia l'obiettivo cui tendere.

L'ostinarsi in un immobilismo cieco e sordo, al contrario, è posizione da condannare senza concedere attenuanti.



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