È
scoppiata da un pezzo la terza guerra mondiale e in pochi se ne sono
accorti. Forse nemmeno quelli che la stanno vivendo sulla propria
pelle sono consapevoli dell'ecumenicità del fenomeno. Bisognerà
attendere i libri di storia dei nostri nipoti perché il capitolo che
narrerà i fatti che stanno accadendo ora porti il titolo: “Il
Terzo conflitto mondiale”.
Proteste
scoppiano ovunque, senza soluzione di continuità da parecchio tempo
a questa parte, e sono destinate a diventare immanenti. È
perlomeno plausibile che
siano collegate.
Come
scrivevo tempo fa, in ogni zona della terra i popoli sono in rivolta.
Con dinamiche più o meno drammatiche e in contesti diversi, ovunque,
laddove non si cede a preoccupanti sbandamenti nazional populisti, ci
si oppone all'autorità costituita. Che siano regimi autoritari,
democrazie neoliberiste, istituzioni inefficienti e/o colluse. In
sintesi ci si ribella a chi accumula potere e ricchezza a discapito
della maggior parte delle persone. Ovunque si invoca il recupero di
un vivere degno ed equo e si denunciano diseguaglianze sociali
crescenti, esito dell'operare cieco e avido di una casta ormai al di
sopra di qualsivoglia controllo.
Che
il detonatore di questa rabbia diffusa, prima ancora che
rivendicazione di valori di umanità e saggezza, possa dunque essere
la crisi economica che da un decennio prosegue con sempre più gravi
ricadute sulla società?
Una
crisi economica incentivata dall'ostinazione del sistema
capitalistico a voler sopravvivere senza trasformarsi. Un'ostinazione
aggressiva che sta trascinando il mondo verso l'abisso e capace solo
di proporre soluzioni di austerità e riforme strutturali che
penalizzano le fasce più deboli.
Un'iperproduzione
industriale che aggrava le condizioni ambientali, quindi quelle
sociali, quindi quelle politiche. Paesi che oggi in un anno producono
quanto è stato prodotto in un secolo. Paesi che ambiscono a fare
altrettanto il prima possibile. Paesi che svendono le proprie risorse
a sostegno di tale malata iperproduzione in cambio di un'elemosina di
sopravvivenza che si traduce in una condizione debitoria perenne.
Cittadini dei Paesi sviluppati che ipotecano la vita per possedere il
superfluo. Cittadini dei Paesi in via di sviluppo che li invidiano e
soverchiano propri concittadini che non hanno di che vivere, in una
competizione spasmodica che non lascia intravvedere un lieto fine.
È
un fatto che il dominio concesso al mercato e alla finanza abbia
creato disparità tali da rendere vano ogni tentativo di costituire
una protezione sociale universale. Ed è un fatto che abbia
determinato e sostenuto condizioni favorevoli a una crescente
interdipendenza tra poteri politici e poteri economici operanti ormai
a circuito chiuso.
Oggi
però vediamo, grazie all'attuale sistema di comunicazione, come la
natura della crisi del cosiddetto neoliberismo non sia un'astrazione
per addetti ai lavori ma qualcosa di molto concreto, come sia di
natura ambientale e sociale, e grave al punto da compromettere la
democrazia che, per quanto difettosa, resta ancora la soluzione
politica migliore. Ma mai dal potere politico la crisi viene
presenta in tali termini; al contrario ci si ostina a proporre una
visione frammentaria della situazione, proprio per rallentare, per
soffocare quella presa di coscienza generale che potrebbe offrire lo
slancio definitivo nella direzione di un futuro degno di tal nome. La
solita faccenda di considerare i problemi a compartimenti stagno, al
punto che anche chi strumentalizza tale prospettiva resta convinto
sia quella corretta. Ma un denominatore comune c'è ed è sotto agli
occhi di chi vuole vedere, quindi
perdersi dietro a spiegazioni sul perché in quel tal luogo sia
successa quella determinata cosa è sì interessante e doveroso ma
pure pleonastico.
Bisogna
cambiare le cose. Qual'è la parola? Rivoluzione. Una parola grossa,
che spaventa. I più timorosi di perdere ciò che hanno paventano per
il ribollire sociale e sono pronti a chiamare pericolosi
rivoluzionari, addirittura terroristi anche coloro che reclamano
giustizia. Secondo me non si tratta di rivoluzione. Forse si tratta
solo della seconda fase di un processo iniziato nell'ultimo ventennio
del secolo scorso, se pur con radici già profonde. Forse
l'opposizione alle derive del pensiero neoliberista non è che la
fase successiva necessaria al compimento della transizione verso un
mondo realmente globalizzato. Fase che i fautori dello stesso non
avevano considerato né preventivato, accecati com'erano, e
malauguratamente sono ancora, dal miraggio di un tutto subito e per
sempre a qualsiasi costo.
Ma
se verrà impedito di portare a termine il perfezionamento di questo
sistema globale allora questa guerra non ancora riconosciuta come tale
esploderà cruenta con tutta la furia
che porta in seno.
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