Non ce ne importa nulla?
O è un problema di percezione? Questo è ormai il mio rovello
quotidiano.
Sappiamo che è in corso
una guerra, un conflitto diffuso, un insieme di guerre, chiamiamo
quello che è un po' come vogliamo, ma lo sappiamo che è così. I
notiziari rigurgitano morte e dolore eppure non ci sentiamo coinvolti
se non nella misura di un dispiacere calmierato. Non riusciamo a
percepire di esserci dentro. Le peggiori tragedie restano fatti di
cui sentiamo parlare che non inficiano la nostra capacità di tornare
alle nostre faccende. Abbiamo bisogno delle immagini. Dell'immagine
di noi stessi dentro la guerra per crederci. Altrimenti è un
qualcosa di non qui e non ora. Si tratta della distanza tra venire a
sapere una cosa e credere ad essa. Della distanza tra il sapere e il
sentire. Il massimo che riusciamo a concepire è che stia accadendo
qualcosa di grave ma di non così diverso da cose già accadute e
superate e pertanto altrettanto superabile anche senza il nostro
intervento o senza che esso sia determinante. Non siamo in grado di
metterci in allarme finché percepiamo fatti e problemi solo a
livello concettuale e non fisico. Dovremmo ogni giorno provare la
sensazione di morire sommersi da un'inondazione o sotto un
bombardamento, di seppellire ogni giorno un figlio avvelenato dal
cibo con cui l'abbiamo nutrito, un fratello morto d'inedia, una
sorella per mancanza di cure adeguate. Di essere ogni giorno
scacciati da casa nostra, ridotti in schiavitù, incarcerati per aver
detto la verità, fatti saltare in aria per un ideale che non abbiamo
voluto tradire. Come un girone infernale che faccia percepire a ogni
molecola del nostro io che non possiamo chiamarci fuori. I dati
sconvolgenti di cui veniamo a conoscenza infatti non hanno su di noi
che un impatto emotivo transitorio. Crediamo che tutto avvenga in
luoghi sufficientemente distanti dalle nostre individuali vite
private, che avvenga a causa di grandi forze esterne e che solo da
grandi forze esterne possa essere risolto. Accusiamo governi,
multinazionali, poteri forti e occulti, di ciò che non va ma
rimuoviamo il fatto che essi agiscono e producono per noi. Se pur per
loro cospicuo profitto, essi agiscono a nostro nome vendendoci ciò
che noi ci aspettiamo di poter avere. E se essi commettono dei
crimini, mal amministrano le risorse, causano disordini e condizioni
belliche, ci ingannano, o comunque procurano danni, noi siamo
corresponsabili senza attenuanti. Quando ci degniamo di scendere per
strada a manifestare dovremmo ricordare che è contro noi stessi che
dovremmo principalmente farlo. Eppure proseguiamo le nostre esistenze
come se tutto fosse altrove, come se noi fossimo, nel migliore dei
casi, soltanto scorati e impotenti spettatori. Come quando, all'ora
di punta, bloccati in un ingorgo imprechiamo contro il mondo intero,
incapaci di vedere che noi siamo l'ingorgo. Che ne siamo parte
integrante e pertanto causa.
Quando penso alle
generazioni future mi domando se ci chiederanno dove eravamo quando
avremmo potuto fare qualcosa o se, nel frattempo, si saranno abituati
alle nuove condizioni di vita non avendo per esse un termine degno di
paragone e si sentiranno, come noi ora, estranei alla realtà che
vivranno e non responsabili per ciò che in essa andrà male.
Il quesito che resta
insoluto è: come impegnarci in una guerra che non viviamo, non
vediamo e che per noi deve ancora scoppiare?
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