Treno direzione Genova.
Entro nello scompartimento. Di quelli rialzati con i gradini, con meno posti a sedere degli altri. È
quasi pieno. Africani. Subsahariani. Trovo due sedili liberi, mi
siedo lato finestrino. Alla fermata successiva sale un africano
piuttosto anziano con una grande borsa di plastica di cose da
vendere. Sposto la mia roba e gli faccio cenno di accomodarsi. Ci
guardiamo per un secondo poi più nulla. M'incanto a guardare il mare
che scorre a pochi metri dalle rotaie. Incantevole residuo di
villeggiature d'altri tempi, destinato alla dismissione, tratta dopo
tratta. Alle orecchie giunge il suono di una lingua sconosciuta ma
famigliare. Alle narici l'odore intenso di un popolo lontano. Resto
con lo sguardo sul mare. Improvvisamente sono lungo una linea
ferroviaria africana. Straniera in terra altrui. Parrebbe. Il fatto è
che sto bene. Quest'intenso senso di straniamento mi procura un
inatteso e profondo stato di benessere. Non mi sento per nulla
straniera. È tutto
normale. Sto abitando il mondo reale. La contaminazione. Inevitabile
e pacificatrice. Il pensiero che, non tanto numeri alla mano ma
consapevolezza del restringimento del pianeta, saremo Africa sblocca
il diaframma. Siamo Africa. Lo saremo sempre più. Così dev'essere.
Con lucidità vedo lo svolgersi della storia dell'uomo. E sorrido.
Ringrazio. Mi rincresce per chi non riesce a vedere, a sentire. Prego
ogni giorno affinché sempre più persone si affranchino dalla paura
e riescano a provare il medesimo sollievo che provo io in questo
momento.
Giugno 2019
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