sabato 14 settembre 2019

"LA LINGUA DELLA TERRA" DI GIACOMO REVELLI




Un buon libro l'ultimo di Giacomo Revelli “La lingua della terra” edito da Arkadia, nella collana Senza Rotta, curata da Marino Magliani, Luigi Preziosi, Paolo Ciampi.
Un buon libro sotto vari punti di vista. Innanzitutto è scritto bene: una lingua chiara e immediata, a tratti poetica, con efficaci intrusioni di dialetto ligure. Poi vi si racconta una storia dalla trama semplice con attenzione e profondità, senza retorica, riuscendo nell'intento di dire cose importanti senza pedanterie o moralismi. Al contrario.
Si narra dell'incontro tra un africano “clandestino” che approda in Valle Argentina e si rintana in un capanno di campagna pieno di attrezzi e veleni e il contadino che lo trova e, superata la diffidenza iniziale, cerca un modo per comunicare con lui, trovandolo nella lingua della terra che accomuna quanti con la terra ci parlano e lavorano.
La narrazione procede su due piani. Alla vicenda principale s'intreccia, attraverso la voce di quello maggiore, quella delle vicissitudini dei due figli di Bedé, quest'uomo di campagna con la sua terra, le sue olive, il suo orto, uomo ruvido ma di buon senso. Da un lato dunque gli studi, le ragazze, le spiagge della Riviera, la ribellione alle regole genitoriali, musica, fumetti, abitudini di un passato recente di cui molti facilmente si ricorderanno, dall'altro la terra, le piante, le stagioni, gli odori e i suoni della campagna, le leggi non scritte che rendono uomo e natura simbionti, il riconoscimento che inevitabilmente avviene tra chi tali leggi conosce. Ambientazione rurale descritta con cognizione di causa e sensibilità, cui si affianca il racconto dell'abbandono delle campagne e della devastazione del territorio.
Qualcuno potrebbe restare deluso dal fatto che la questione migranti sia trattata solo sfiorandola e dal non scoprire infine chi sia l'intruso, da dove arrivi e perché. Veniamo a sapere soltanto che viene da un posto tanto lontano da trovarsi oltre i margini della cartina geografica che gli viene mostrata. Nemmeno il nome ci è dato conoscere. Tutto rimane come in un limbo e questo secondo me è un punto di forza del libro. Così come è necessario di ogni individuo conoscere identità, passato, pensieri e intenzioni, prima di esprimere un qualsivoglia giudizio nei suoi confronti, in letteratura è doveroso farsi specchio della realtà. E la realtà oggi è che migliaia e migliaia di individui restano anonimi, arrivano, passano, e appunto finiscono in un limbo di statistiche e luoghi comuni tragico forse quanto ciò da cui sono fuggiti. La questione migranti è però trattata solo apparentemente in superficie perché è proprio dalla semplicità dei pensieri che vengono espressi dai vari personaggi che si può partire per arrivare a una comprensione forte. I grandi discorsi, le argomentazioni complesse, filosofiche, etiche, sociologiche, spaventano chi è già spaventato da cambiamenti che non sa gestire. Qualche riflessione, poche parole schiette dettate dal buon senso e dall'onestà possono essere maggiormente persuasive. 
Nell'ultima parte del racconto ho apprezzato una piccola svolta narrativa. Per quasi tutta la narrazione stupiti dell'apertura di Bedè nei confronti di uno straniero clandestino, fino a considerarne la condotta quasi eroica nel contrapporsi ai luoghi comuni che rendono chi è diverso pericoloso e da evitare, veniamo risvegliati dalle parole del secondogenito, ribelle e lavativo, che apostrofa il padre chiedendogli perché, se veramente ha ritenuto quell'uomo giunto da terre lontane degno di essere considerato con rispetto, non l'ha trattato veramente da pari offrendogli ospitalità in casa anziché concedergli quella riservata a un cane randagio o a un servitore diligente.
Un buon libro che mi ha fatto pensare a Calvino de “La strada di San Giovanni” e a Pearl's Buck de “La Buona Terra”.

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