Un
buon libro l'ultimo di Giacomo Revelli “La lingua della terra”
edito da Arkadia, nella collana Senza Rotta, curata da Marino
Magliani, Luigi Preziosi, Paolo Ciampi.
Un
buon libro sotto vari punti di vista. Innanzitutto è scritto bene:
una lingua chiara e immediata, a tratti poetica, con efficaci
intrusioni di dialetto ligure. Poi vi si racconta una storia dalla
trama semplice con attenzione e profondità, senza retorica,
riuscendo nell'intento di dire cose importanti senza pedanterie o
moralismi. Al contrario.
Si
narra dell'incontro tra un africano “clandestino” che approda in
Valle Argentina e si rintana in un capanno di campagna pieno di
attrezzi e veleni e il contadino che lo trova e, superata la diffidenza iniziale, cerca un
modo per comunicare con lui, trovandolo nella lingua della terra
che accomuna quanti con la terra ci parlano e lavorano.
La
narrazione procede su due piani. Alla vicenda principale s'intreccia,
attraverso la voce di quello maggiore, quella delle vicissitudini dei
due figli di Bedé, quest'uomo di campagna con la
sua terra, le sue olive, il suo orto,
uomo ruvido ma di buon senso. Da un lato dunque gli studi, le
ragazze, le spiagge della Riviera, la ribellione alle regole
genitoriali, musica, fumetti, abitudini di un passato recente di cui
molti facilmente si ricorderanno, dall'altro la terra, le piante, le
stagioni, gli odori e i suoni della campagna, le leggi non scritte
che rendono uomo e natura simbionti, il riconoscimento che
inevitabilmente avviene tra chi tali leggi conosce. Ambientazione
rurale descritta con cognizione di causa e sensibilità, cui si affianca
il racconto
dell'abbandono
delle campagne e della devastazione del territorio.
Qualcuno
potrebbe restare deluso dal fatto che la questione migranti sia
trattata solo sfiorandola e dal non scoprire infine chi sia
l'intruso, da dove arrivi e perché. Veniamo a sapere soltanto che viene da un posto tanto lontano da trovarsi oltre i margini della cartina geografica che gli viene mostrata. Nemmeno il nome ci è dato
conoscere. Tutto rimane come in un limbo e questo secondo me è un
punto di forza del libro. Così come è necessario di ogni individuo
conoscere identità, passato, pensieri e intenzioni, prima di
esprimere un qualsivoglia giudizio nei suoi confronti, in letteratura
è doveroso farsi specchio della realtà. E la realtà oggi è che
migliaia e migliaia di individui restano anonimi, arrivano, passano,
e appunto finiscono in un limbo di statistiche e luoghi comuni
tragico forse quanto ciò da cui sono fuggiti. La questione migranti
è però trattata solo apparentemente in superficie perché è
proprio dalla semplicità dei pensieri che vengono espressi dai vari
personaggi che si può partire per arrivare a una comprensione forte.
I grandi discorsi, le argomentazioni complesse, filosofiche, etiche,
sociologiche, spaventano chi è già spaventato da cambiamenti che
non sa gestire. Qualche riflessione, poche parole schiette dettate
dal buon senso e dall'onestà possono essere maggiormente persuasive.
Nell'ultima parte del racconto ho apprezzato una piccola svolta
narrativa. Per quasi tutta la narrazione stupiti dell'apertura di
Bedè nei confronti di uno straniero clandestino, fino a considerarne
la condotta quasi eroica nel contrapporsi ai luoghi comuni che
rendono chi è diverso pericoloso e da evitare, veniamo risvegliati
dalle parole del secondogenito, ribelle e lavativo, che apostrofa il
padre chiedendogli perché, se veramente ha ritenuto quell'uomo
giunto da terre lontane degno di essere considerato con rispetto, non
l'ha trattato veramente da pari offrendogli ospitalità in casa
anziché concedergli quella riservata a un cane randagio o a un
servitore diligente.
Un
buon libro che mi ha fatto pensare a Calvino de “La strada di San
Giovanni” e a Pearl's Buck de “La Buona Terra”.
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