Con tutto che ciò che sta
succedendo nei mari del pianeta è allarmante e che lo è in misura maggiore
perché invisibile, mi piace mangiare pesce.
Le risorse* ittiche si stanno esaurendo,
stiamo raggiungendo il punto di non ritorno ma ciò non ci tocca perché, come si
dice, lontano dagli occhi lontano dal cuore.
Il mare non è che una distesa
dalle varie tonalità di blu su cui far scivolare lo sguardo verso l’orizzonte.
Quello che c’è sotto, fantasiose e colorate storie d’animazione a parte, nell'immaginario
collettivo, non esiste appunto se non nell'idea di una fonte inesauribile di
cibo.
Resta il fatto che mangio pesce.
Di stagione e preferibilmente acquistato da uno dei pochi pescatori all'antica
rimasti nella città in cui vivo. Di quelli che tornano a terra con pochi chili
di pescato vario e spesso con niente. Però nell'ultimo anno mi sono lasciata
contagiare dalla moda del sushi e, in qualche occasione, ho accettato di
aggregarmi a cene in compagnia in questi ristoranti a catena che spuntano
ovunque. Finché, la scorsa settimana, mi
sono seduta in un incubo degno di Orwell. Qualcuno racconterebbe il fatto in
termini di tripudio. Non solo sushi ma pesce in tutti i modi, self service,
prezzo fisso, all you can eat, turni di centinaia di avventori, code, nastri
trasportatori, tonnellate di plastica, frenesia alimentare. Trovo più idoneo il
termine orgia.
In chiusura chili di cibo
finiscono nei bidoni della spazzatura. Non ciò che è stato ordinato e avanzato
nei piatti ma quanto è stato cucinato in esubero ed esposto invano. Preparazione
di piatti a cottimo sulla previsione di un afflusso x. Il cibo non deve mancare.
Deve arrivare alle menti il segno dell’abbondanza. Ovunque lo sguardo si posi
deve trovare vassoi colmi, il cibo deve entrare negli occhi, colmare la visuale
rendendoci ciechi. Il senso di appartenenza fa il resto. Bipede con vassoio
che straborda in mezzo ad altri bipedi con vassoi che strabordano. Dai che domani si va al centro commerciale.
Sì, dai, che vendono anche il set per farsi il sushi da sé. Mi sento un’aliena
mentre vago in questo girone infernale. Al tavolo mi sento un’aliena. Tutti
gozzovigliano e decantano. Tutti quelli che ci sono stati ne parlano con
entusiasmo. Io, giuro, non ci metto più piede. Né stomaco. Prima e ultima
volta. Amici che sgranano gli occhi. Non capiscono cosa mi disturba. Avrò avuto
una giornata pesante.
Una dote che non possiedo è
spiegare l’evidenza. Il problema è che per me ormai troppe cose sono evidenti e
mi si è ridotto di molto lo spazio di comunicazione. Mi viene in mente Cecità
di Saramago.
Mentre sto lì, il vociare
assordante, per i più ormai assimilato a rumor bianco gestibile, la luce chiara
e intensa, l’andirivieni di strani animali eretti, il bancone su cui squartano
un tonno appena scaricato e, di fronte, i bidoni. C’è un tipo che, vista l’ora
tarda, preleva dal nastro trasportatore i sushi non consumati e li getta. Ecco,
mi gira la testa. Nausea e vertigine. Non è il sangue del tonno. Lo so. Nessun problema
con il sangue né con la morte in quanto tale. Mi sale un pensiero cattivo. Che
tutto e tutti si sprofondi nelle viscere della terra.
Con buona pace dei salmoni
compostati con la Philadelphia.
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