sabato 1 ottobre 2016

SUSHI FUN

Con tutto che ciò che sta succedendo nei mari del pianeta è allarmante e che lo è in misura maggiore perché invisibile, mi piace mangiare pesce.
Le risorse* ittiche si stanno esaurendo, stiamo raggiungendo il punto di non ritorno ma ciò non ci tocca perché, come si dice, lontano dagli occhi lontano dal cuore.
Il mare non è che una distesa dalle varie tonalità di blu su cui far scivolare lo sguardo verso l’orizzonte. Quello che c’è sotto, fantasiose e colorate storie d’animazione a parte, nell'immaginario collettivo, non esiste appunto se non nell'idea di una fonte inesauribile di cibo.
Resta il fatto che mangio pesce. Di stagione e preferibilmente acquistato da uno dei pochi pescatori all'antica rimasti nella città in cui vivo. Di quelli che tornano a terra con pochi chili di pescato vario e spesso con niente. Però nell'ultimo anno mi sono lasciata contagiare dalla moda del sushi e, in qualche occasione, ho accettato di aggregarmi a cene in compagnia in questi ristoranti a catena che spuntano ovunque. Finché, la scorsa settimana, mi sono seduta in un incubo degno di Orwell. Qualcuno racconterebbe il fatto in termini di tripudio. Non solo sushi ma pesce in tutti i modi, self service, prezzo fisso, all you can eat, turni di centinaia di avventori, code, nastri trasportatori, tonnellate di plastica, frenesia alimentare. Trovo più idoneo il termine orgia.
In chiusura chili di cibo finiscono nei bidoni della spazzatura. Non ciò che è stato ordinato e avanzato nei piatti ma quanto è stato cucinato in esubero ed esposto invano. Preparazione di piatti a cottimo sulla previsione di un afflusso x. Il cibo non deve mancare. Deve arrivare alle menti il segno dell’abbondanza. Ovunque lo sguardo si posi deve trovare vassoi colmi, il cibo deve entrare negli occhi, colmare la visuale rendendoci ciechi. Il senso di appartenenza fa il resto. Bipede con vassoio che straborda in mezzo ad altri bipedi con vassoi che strabordano.  Dai che domani si va al centro commerciale. Sì, dai, che vendono anche il set per farsi il sushi da sé. Mi sento un’aliena mentre vago in questo girone infernale. Al tavolo mi sento un’aliena. Tutti gozzovigliano e decantano. Tutti quelli che ci sono stati ne parlano con entusiasmo. Io, giuro, non ci metto più piede. Né stomaco. Prima e ultima volta. Amici che sgranano gli occhi. Non capiscono cosa mi disturba. Avrò avuto una giornata pesante.
Una dote che non possiedo è spiegare l’evidenza. Il problema è che per me ormai troppe cose sono evidenti e mi si è ridotto di molto lo spazio di comunicazione. Mi viene in mente Cecità di Saramago.
Mentre sto lì, il vociare assordante, per i più ormai assimilato a rumor bianco gestibile, la luce chiara e intensa, l’andirivieni di strani animali eretti, il bancone su cui squartano un tonno appena scaricato e, di fronte, i bidoni. C’è un tipo che, vista l’ora tarda, preleva dal nastro trasportatore i sushi non consumati e li getta. Ecco, mi gira la testa. Nausea e vertigine. Non è il sangue del tonno. Lo so. Nessun problema con il sangue né con la morte in quanto tale. Mi sale un pensiero cattivo. Che tutto e tutti si sprofondi nelle viscere della terra.
Con buona pace dei salmoni compostati con la Philadelphia.


*Uso il termine “risorse” malvolentieri ma questo è il linguaggio in uso ed entrare in un dibattito sull'argomento, per quanto utile, amplierebbe la discussione in misura non sostenibile dall'attenzione dei più. La capacità di concentrazione è sempre più breve e ci si deve accontentare, almeno in prima battuta.

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