Nella città in cui abito c’è una
via pedonale che raramente percorro la sera. Capita a volte in inverno, andando a cenare da amici. Trovo la via
deserta, semibuia, i pochi esercizi chiusi, a parte un bar e una pizza al
taglio in procinto di esserlo. Ogni volta vedo anche un ragazzino, non saprei
dire l’età, forse nove, forse undici dodici anni, che vaga avanti e indietro davanti
alle luci delle ultime vetrine accese. Scruta a mento alto tra le aiuole,
osserva, si guarda intorno. A volte sta seduto su una sedia di plastica a guardare fisso davanti a sé. Presumo
sia il figlio dei gestori di uno dei due locali. Ha l’espressione seria, quasi
accigliata e, quando scorge qualcuno, lo guarda dritto negli occhi con aria di
sfida, come a chiedere, qualcosa da ridire? Indossa sempre un’uniforme graduata
da carabiniere, per cui quello che normalmente verrebbe definito un ragazzino
grassoccio, in tali panni viene da dire che è massiccio, tarchiato, severo.
L’effetto è quello di un gerarca nazista nano.
Mi chiedo perché, che senso, ben
lontani dal Carnevale, ci sia di indossare, e con tale piglio, un travestimento
simile reso maggiormente tetro dal buio e dalla desolazione del luogo. Un
capriccio ossessivo assecondato malvolentieri dai genitori? Volontà dei
genitori? Mi inquieta incontrarlo. Lo
oltrepasso pensando che travestito da pirata o da mago lo avrei considerato un
ragazzino dalla fervida immaginazione.
gennaio
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