“Orrore in Italia.
Abbandonati nei campi, lungo le strade o nei cumuli di spazzatura,
continua il ritrovamento di neonati. Ormai sono centinaia. Per la
maggior parte di essi ormai è troppo tardi. Le immagini strazianti
dei piccoli corpi senza vita danno la misura della tragedia che si
sta consumando.”
Cose che succedono.
Come sarebbe a dire, cose
che succedono?
Certo, succedono. Cose
così e altre simili o peggiori. Quotidianamente. Qual è il
problema?
Ma è inaudito! Non è
possibile permettere un abominio simile.
Tanto, cosa possiamo
farci?
Muoverci tutti insieme,
pretendere l'intervento delle istituzioni, coinvolgere le nazioni
unite, insomma, qualsiasi cosa pur di mettere fine a questa strage di
innocenti.
Bene. Avete ragione. Ora
però sostituite Italia con Iraq.
Iraq? Stai parlando
dell'Iraq? Ma mi hai fatto venire un colpo. Perché hai detto Italia?
Sei proprio stronza.
Iraq dove alle donne fuggite dalle zone roccaforte dell'Isis, violentate prima dai
combattenti dello Stato Islamico, poi dai militari della parte
avversa, e ora nei campi profughi dalle guardie che dovrebbero
tutelarne l'incolumità, allo stremo delle forze non resta che
tentare di abortire da sé o abbandonare i neonati, cui solo un
futuro di vendetta è garantito.
Senza contare i circa
quindicimila bambini che muoiono ogni giorno di fame, quelli
costretti a imbracciare le armi, quelli venduti e comprati per vari
utilizzi. Quelli storditi dalle droghe, quelli costretti a vivere tra
i rifiuti, o nelle fogne per ripararsi dalle intemperie.
Eccetera,
eccetera, eccetera.
Ognuno di essi ha un
volto e uno sguardo. Ognuno di essi ha emozioni e prova dolore.
Solo che sono lontani,
non sono qui. Non sono i nostri bambini.
Lo so, è difficile
portare il peso del dolore del mondo. Passa la voglia di vivere.
Perché se scomponiamo i milioni in unità e concediamo a ognuno
identità e storia, allora comprendiamo l'entità del nostro
fallimento di esseri umani. Io mi sento così. Sento di avere
fallito.
La provocazione qui sopra
è solo un penoso tentativo di colmare l'incomprensibile divario tra
chi sente troppo e chi non sente nulla. E forse non nasce più dalla
speranza di riuscire a fare qualcosa, dalla speranza che il sapere
sia sprone sufficiente. Forse è solo per l'invidia nei confronti di
chi riesce a farsi scivolare tutto di dosso.
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