Come
rendere a parole lo stridore acuto di rimproveri urlati da una madre
al figlio piccolo?
È
da poco terminato il confinamento obbligatorio. Da tre giorni
sto dando una mano a una parente anziana che vive in un condominio di
sette piani attorniato da altri condomini. Inizia a fare caldo. Le
finestre sono aperte. La vita privata diviene di dominio pubblico.
Una promiscuità eccessiva.
La
donna grida, isterica, contro il figlio che piange disperato senza
sosta. Un pianto convulso, singhiozzi violenti per prendere fiato.
Lei non smette di gridare, lo insulta, sbatte le cose, lo strattona.
Lo si capisce dalle sue parole e dal pianto che si fa terrore e che
prende il ritmo degli scossoni. Penso alla pandemia, agli oltre due
mesi durante i quali madre e figlio sono stati costretti tra le mura
domestiche senza poter nemmeno andare nel cortile. A un certo punto
la intravvedo, la madre, passare nel riquadro di una finestra. Avrà
una trentina d'anni, sovrappeso, i capelli tinti di giallo in parte
raccolti con una grossa pinza, una canottiera nera scollata, il
rossetto.
Il
loro balcone è ad angolo e misura all'incirca quattro metri
quadrati. Un accumulo di cose, arrembate le une sulle altre sotto al
sole.
Un
mobile alto in plastica grigia con un'anta che non si chiude, un
tavolino in plastica bianca ingiallita dal tempo, due sedie
pieghevoli, un mocio, una scopa, due palette, un triciclo rosso con
le ruote azzurre la plastica corrosa dal salino e scolorita dal sole,
uno stendino pieghevole arrugginito, due bacinelle, un bidoncino
verde muschio con il coperchio, alcune paia di scarpe e ciabatte, un
pallone sgonfio, due scatoloni di cartone sopravvissuti alle piogge
invernali chiusi con scotch da pacchi, una cuccia sdrucita, alcune
piante defunte da tempo, un cocker spaniel uggiolante che chiede di
entrare. Gli infissi sono scrostati, i vetri sporchi. È
tutto molto triste. Una sorta di natura morta, l'istantanea di
esistenze alla deriva. Eppure non siamo nella desolante periferia di
una metropoli ma in una più o meno ridente città di mare. Il mare
si vede. Il cielo è terso, non è oscurato e contaminato da fumi e
miasmi industriali. L'orizzonte è aperto verso approdi possibili.
Forse
l'ambiente in cui viviamo è vero che ci determina ma noi, a nostra
volta, lo determiniamo. Forse il degrado che ci circonda ha radici
remote dentro di noi e da lì si propaga contagiando tutto per poi
tornarci addosso e affossare definitivamente il nostro animo così
che esso non potrà che dare un ulteriore impulso verso il peggio in
una spirale perversa verso il basso.
Penso
al bambino che sta crescendo nell'appartamento qui sotto. Dunque il
suo destino è già segnato e senza possibilità di riscatto? Di
questa violenza, fatta non solo di colpi e di grida, siamo tutti
responsabili e complici. Accettare e rassegnarci all'immiserimento
della vita è la nostra colpa.
Dall'interno
le urla non cessano. Ora piange sfiancata anche la madre. Una radio
viene accesa e sintonizzata su un canale che trasmette musica da
discoteca a volume alto.
maggio
2020
1 commento:
Riesci sempre a rendere in pochi tratti, proprio come le tue fotografie non fatte, una situazione vivida, familiare, rapace, silente.
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