venerdì 21 agosto 2020

VIOLENZE

Come rendere a parole lo stridore acuto di rimproveri urlati da una madre al figlio piccolo?
È da poco terminato il confinamento obbligatorio. Da tre giorni sto dando una mano a una parente anziana che vive in un condominio di sette piani attorniato da altri condomini. Inizia a fare caldo. Le finestre sono aperte. La vita privata diviene di dominio pubblico. Una promiscuità eccessiva.
La donna grida, isterica, contro il figlio che piange disperato senza sosta. Un pianto convulso, singhiozzi violenti per prendere fiato. Lei non smette di gridare, lo insulta, sbatte le cose, lo strattona. Lo si capisce dalle sue parole e dal pianto che si fa terrore e che prende il ritmo degli scossoni. Penso alla pandemia, agli oltre due mesi durante i quali madre e figlio sono stati costretti tra le mura domestiche senza poter nemmeno andare nel cortile. A un certo punto la intravvedo, la madre, passare nel riquadro di una finestra. Avrà una trentina d'anni, sovrappeso, i capelli tinti di giallo in parte raccolti con una grossa pinza, una canottiera nera scollata, il rossetto.
Il loro balcone è ad angolo e misura all'incirca quattro metri quadrati. Un accumulo di cose, arrembate le une sulle altre sotto al sole.
Un mobile alto in plastica grigia con un'anta che non si chiude, un tavolino in plastica bianca ingiallita dal tempo, due sedie pieghevoli, un mocio, una scopa, due palette, un triciclo rosso con le ruote azzurre la plastica corrosa dal salino e scolorita dal sole, uno stendino pieghevole arrugginito, due bacinelle, un bidoncino verde muschio con il coperchio, alcune paia di scarpe e ciabatte, un pallone sgonfio, due scatoloni di cartone sopravvissuti alle piogge invernali chiusi con scotch da pacchi, una cuccia sdrucita, alcune piante defunte da tempo, un cocker spaniel uggiolante che chiede di entrare. Gli infissi sono scrostati, i vetri sporchi. È tutto molto triste. Una sorta di natura morta, l'istantanea di esistenze alla deriva. Eppure non siamo nella desolante periferia di una metropoli ma in una più o meno ridente città di mare. Il mare si vede. Il cielo è terso, non è oscurato e contaminato da fumi e miasmi industriali. L'orizzonte è aperto verso approdi possibili.
Forse l'ambiente in cui viviamo è vero che ci determina ma noi, a nostra volta, lo determiniamo. Forse il degrado che ci circonda ha radici remote dentro di noi e da lì si propaga contagiando tutto per poi tornarci addosso e affossare definitivamente il nostro animo così che esso non potrà che dare un ulteriore impulso verso il peggio in una spirale perversa verso il basso.
Penso al bambino che sta crescendo nell'appartamento qui sotto. Dunque il suo destino è già segnato e senza possibilità di riscatto? Di questa violenza, fatta non solo di colpi e di grida, siamo tutti responsabili e complici. Accettare e rassegnarci all'immiserimento della vita è la nostra colpa.

Dall'interno le urla non cessano. Ora piange sfiancata anche la madre. Una radio viene accesa e sintonizzata su un canale che trasmette musica da discoteca a volume alto.

maggio 2020




1 commento:

Unknown ha detto...

Riesci sempre a rendere in pochi tratti, proprio come le tue fotografie non fatte, una situazione vivida, familiare, rapace, silente.