Mi è stato proposto di scrivere
un pezzo sulla fine del confinamento cui siamo stati costretti per arginare il
contagio, sulle prime impressioni provate a rientrare nel mondo. Sul tanto
atteso permesso di uscita.
Le prime frasi che ho scritto si
sono tradotte in una lunga serie di domande.
Permesso di uscire. Uscire da
dove? Uscire verso dove? Uscire perché?
Uscire dalla propria abitazione
come se si trattasse di una prigione e non del luogo deputato al calore
domestico, al raccoglimento famigliare, alla pace e al riposo. Quanta ansia,
quanto dolore, quanta violenza si annidano tra le pareti di casa? Quanti
silenzi e incomprensioni? Quante attese deluse e piccole quotidiane meticolose
vendette? Dover riconoscere la consistenza ponderale delle proprie scelte
sbagliate, dei compromessi per interesse o per timore dell'ignoto, del non aver
saputo chiedere aiuto per tempo ed essere rimasti intrappolati in relazioni
distruttive. O, più banalmente, scoprire di aver riempito gli spazi di cose e null'altro.
Non tollerare il silenzio, lo stare con i propri pensieri, non conoscere i
benefici dell'otium e aggrapparsi alla rete, ovviamente superveloce, come unica
scialuppa disponibile per non sentirsi trascinare a fondo dall'angoscia
dell'esistere. Un'umanità che riesce a sopravvivere solo nella bagarre del
movimento continuo, dello spostamento, del rumore bianco di un vociare
promiscuo e confuso, solo nell'avere un'ininterrotta serie di impegni,
appuntamenti, incontri, cui tenere dietro a ritmo serrato.
E uscire perché? Per andare dove?
Per vedere cosa?
A me è mancato il poter
approfittare di un mondo vuoto. Respirare lungo la costa l'aria intrisa di
salsedine e l'odore di sottobosco in questa regione che intreccia il mare ai
monti. È mancato
camminare per le strade deserte, osservare la città vuota, ascoltare i rumori
del silenzio. Non avevo alcuna voglia di tornare al mondo di prima.
Fermarsi, al di là dell'aspetto
tragico di una pandemia che ha annientato e annienterà soprattutto i più deboli
in senso lato, al di là di ogni deriva sociale ed economica, di cui per ovvie
ragioni rifiutiamo di vedere la portata travolgente, è stato come riprendere a
respirare dopo una lunga apnea.
Ci hanno detto e ci siamo illusi
che il dopo sarebbe stato meglio del prima, che noi stessi saremmo stati
persone migliori. Che quanto accaduto, alla stregua di un'illuminazione ci
avrebbe condotti in una nuova fase umana. Maggior consapevolezza, lungimiranza,
rispetto. La commozione che ha caratterizzato alcuni momenti del confinamento e
ci ha fatto sentire inaspettatamente vicini al prossimo, le lunghe liste di
buoni propositi, tutto si è incenerito nel momento preciso in cui abbiamo
aperto la porta di casa. Nello stesso modo in cui il coronavirus è entrato nei nostri corpi, ha
amplificato patologie esistenti, ne ha scatenate di nuove, è entrato negli
stati e nella società amplificandone infermità e patologie
strutturali. Ha amplificato ingiustizie,
settarismo, razzismo, ha evidenziato inettitudini e disorganizzazione, ha rinvigorito
prevaricazioni e frodi, e ha determinato quindi, e soprattutto, disuguaglianza.
Ha anche amplificato le nostre paure compromettendo le relazioni umane in una
misura che pensavamo impossibile. Ha corrotto gli slanci, ha alimentato
malversazioni e abusi. Ha nutrito la falsa certezza che, alla fine, visto che
per ora siamo sopravvissuti, quello che conta è andare avanti a pagare le rate.
Tutti ovunque ormai concentrati
sul tempo da recuperare. Come se ci fosse del senso in tale affermazione. Come
se il tempo fosse fatto di una materia plasmabile a nostro piacimento.
L'imperativo categorico del rimettersi in pari. Neanche abbiamo raggiunto la
pubblica via che già la logica di quel poco che avevamo se non capito almeno
intuito è stata capovolta, spazzata via. Quei valori improvvisamente sacri nel
momento della paura sono divenuti in un batter di ciglia debolezze. Uno
sbandamento dell'anima impaurita, qualcosa di cui non necessariamente
vergognarsi ma da mettere velocemente in disparte per non essere rallentati da
dubbi o remore nella corsa collettiva verso un benessere, quale che sia per
ognuno di noi, da riconquistare.
Nei cantieri la parola d'ordine è
stata accelerare e le morti bianche sono raddoppiate in un fiat. Gli
sversamenti illegali di sostanze inquinanti da smaltire sono aumentati per
abbattere i costi di produzione e recuperare le entrate perse durante il
confinamento. In gran parte della produzione intensiva zooagricola si sono
accantonate le poche minime norme di buona condotta ottenute in anni di lotte
per immettere sul mercato prodotti a costi sempre più bassi e andare incontro
all'acquirente medio cui, più che mai ora, preme il borsellino e se gli parli
di costi indiretti ed esternalizzazioni ti guarda con le palle degli occhi
fuori dalle orbite come se gli si stesse parlando in marziano. Le condizioni
dei lavoratori di quasi tutte le categorie, e particolarmente nelle filiere
produttive, sono peggiorate. Le aziende sanitarie, proprio in quanto aziende e
non più unità sanitarie, hanno messo e mettono allo stremo il personale addetto
alla salute pubblica, personale precedentemente ridotto nelle varie operazioni
di ristrutturazione aziendale. Vagonate di lavoratori che accettano di essere
sfruttati di fronte all'evidente e dilagante fame di lavoro. È peggio di prima, non
meglio. Quel poco che finalmente iniziavamo a capire, quel barlume di coscienza
che stava animando le nostre anime letargiche, quel sussulto di consapevolezza
di abitare una palla di terra dalla superficie finita, quel rigurgito di
humanitas che per un attimo ci ha fatto sentire responsabili nei confronti
delle generazioni future, niente, tutto svanito, rimandato a data da definirsi,
come nel migliore dei summit sul clima. Sono altre le priorità ed è ora che
tutti se lo mettano bene in testa. Al bando i sentimentalismi da fricchettoni,
da gente che non ha il senso della realtà. Dobbiamo rimettere il pianeta in
piedi, far ripartire l'economia a qualsiasi costo altrimenti... Altrimenti
cosa? Spiegatemelo per
bene, per favore.
La necessità indiscutibile di una
rapida ripresa delle attività produttive dopo il lockdown vista come la grande
occasione per sbarazzarsi dei pochi controlli e delle deboli norme ambientali e
sanitarie esistenti. La tutela sanitaria degli individui appaltata dogmaticamente a
società farmaceutiche. Il governo della società ridotto a mantenimento
dell'ordine pubblico. Lo stato sociale demandato all'iniziativa e alla buona
volontà dei singoli.
Quindi uscire perché?
Fiumi di insolenti carrette
intasano nuovamente le strade, guanti e mascherine svolazzano ai bordi dei
marciapiedi, prima di divenire, calpestate,
appesantite dalla pioggia e dallo smog, grumi di materia indissolubile,
ennesimo rifiuto alla cui vista assuefarsi. Negli asili i nostri figli vengono
sepolti da bicchieri in plastica monouso* in barba alle buone intenzioni di
appena un anno fa. Ovunque l’usa e getta si prende la rivincita sul buon senso.
Forse l'ambiente in cui viviamo è vero che ci
determina ma noi, a nostra volta, lo determiniamo. Forse, mi viene da pensare,
il degrado che ci circonda ha radici remote dentro di noi e da lì si propaga
contagiando tutto per poi tornarci addosso e affossare definitivamente il
nostro animo così che esso non possa dare altro che un ulteriore impulso verso
il peggio in una spirale perversa verso il basso.
Uscire
quindi per incrociare vacanzieri feroci che affermano la propria libertà
riconquistata disseminando bottiglie, sacchetti, mozziconi di sigarette, come
se appunto non ci fosse un domani? Bagnanti che insozzano le coste e strappano
alle scogliere qualsiasi forma di vita ancora le abiti? Adolescenti che dalle
finestre lanciano lattine sui tetti antistanti in un tiro a segno contro
gabbiani e piccioni? Ragazzine che si vantano di avere accerchiato una loro
coetanea araba e averla linciata, perché la malattia doveva tenersela al suo
paese?
Gente
che infetta l'ambiente delle proprie ferie con tale noncuranza da chiedersi
come viva a casa propria o se, a tal punto alienata, da trovar beneficio
interiore nell'insozzare ciò che non può possedere, che non può avere se non in
un'unica e stremante settimana di ferie. Lo ammetto: non accetto più
l'inutilità e la nocività di taluni esseri umani. Alle volte allo sconforto si
alterna un giudizio inappellabile di condanna. Un'assoluta assenza di
tolleranza.
Uscire poi per constatare
l'inutilità dell'agire dei giusti? La sofferenza intollerabile di creature
innocenti? Per essere spettatore impotente di ingiustizie terribili e crimini
feroci? Per assistere allo stupro metodico della bellezza? All'offesa
sistematica della vita?
Per ammirare il deambulare di
corpi la cui vacuità è esito indotto e necessario alla sopravvivenza in una
società ribaltata in nome dell'interesse di alcuni? Per constatare l'irreversibile
intorpidimento di individui iperconnessi ma di fatto svincolati, esenti,
illesi, immuni a disastri e dolori, nella vana pretesa di non contaminarsi, di
non essere raggiunti dai mali che toccano gli altri? Individui per i quali vige
l'equivoco della morte anonima, quella per cui si muore a migliaia ma è come se
nessuno morisse. Una società chiusa, ripiegata su se stessa, composta da
schiere di solitudini chiassose.
Noi, i primi a dover imparare
daccapo a credere nella morte senza riuscirci. Ad aver rimosso il senso della
ciclicità della vita. E, soprattutto, i primi a dover prendere sul serio in
considerazione il fatto di essere forse inesorabilmente gli ultimi. E cosa
facciamo? Usciamo nel mondo che ci è stato brevemente precluso e ricominciamo
daccapo a usarlo come una cloaca a cielo aperto in cui riversare i nostri
rifiuti domestici e mentali.
Ci comportiamo come se il futuro
fosse un posto vuoto. E cos'è un posto vuoto se non un luogo in cui non vive
nessuno e che si può quindi utilizzare come discarica?
Ma qual è il problema? Forse
semplicemente viviamo in un tempo inabitabile. I minuti incombono e dileguano.
In un mondo lanciato ad alta velocità su un tapis roulant che man mano aumenta
la pendenza, il baratro alle spalle. Un mondo capovolto in cui ben poco avviene
secondo logica ed etica, in cui l'empatia è debolezza da essere derisa,
debolezza che lascia sfiancati coloro che la provano, a molti dei quali resta
soltanto il pensiero del ramo d'un albero e di un nodo scorsoio come ultima
ratio per non soccombere all'assurdo che circonda. Siamo dunque solo più
questo? Esseri inetti del tutto incapaci di riprendere in mano le redini del
nostro destino di Uomini?
Ma come fare? La vecchia sindrome
di Tina (There is not alternative) si propaga più rapidamente del Covid19 e una
volta intaccati i tessuti del cuore e del cervello non lascia scampo, non
esiste cura. Così come (l'esempio più vicino che mi viene in mente) per le
morti dirette e indirette dell'Ilva di Taranto, dove da sempre si vive in una
situazione di confinamento e a seconda della direzione da cui arriva il vento
si serrano le finestre, anche per la sindrome di Tina non esistono tamponi e
statistiche. I morti sul campo non si contano perché è come non esistessero.
Tutt'al più si potrebbero considerare vittime collaterali. Depressi che non si
sono voluti curare nonostante i consigli di medici e conoscenti. Un po' di
Xanax, in fondo, non ha mai fatto male a nessuno.
Siamo di fronte a uno, neanche
più tanto graduale, smantellamento istituzionale. È in atto uno strisciante e sotterraneo slittamento
di sovranità. La popolazione mondiale pare più che altro un ammasso di cavie
per i laboratori sperimentali delle aziende, senza nemmeno il tentativo di una
reale supervisione da parte di coloro che eleggiamo ad amministrare e tutelare
noi e il bene comune. Il contratto sociale viene cambiato e stravolto nella sua
essenza mentre ci consoliamo con una buona bevuta. Solitaria o tra pochi
intimi, i rassegnati e i cinici, collettiva tutti gli altri.
Ogni paese del pianeta
ha ormai al suo interno il suo terzo mondo, come si usava dire un tempo,
così come in ogni paese c’è chi beneficia dei tanti processi di esclusione dei
più. Non si vede altro nel panorama davanti ai nostri occhi. Siamo all'assurdo
che i migliori servitori dello Stato, coloro che credono nella responsabilità
del compito assegnatogli, sono trattati come i peggiori, perché tanto meglio
governano, tanto più s'impegnano e restano al potere, tanto più sono
pericolosi. Infatti dai tempi di Falcone e Borsellino, di tal tempra se n'è
visti pochi e poi non se n'è visti più, almeno qui da noi. Alcune anime oneste
si aggirano, certo, ma del tutto prive di mezzi e tenute all'angolo. Quando
non, in giro per il pianeta, destinate a prigioni, torture, rapimenti, a vani scioperi
della fame. Nella migliore delle ipotesi a una breve e inutile eco mediatica.
Il governo dei
peggiori. Kakistocrazia si chiama. Questo paga.
Una società in cui l'alternanza
politica nei governi avviene se non disturba. Biden potrà anche vincere perché
non intende cambiare nulla, Navalny invece no. Le proteste, come quelle recenti
a Hong-Kong o contro Lukashenko in Bielorussia, per quanto intense siano, sono
tutte già sul nascere in odore di fallimento. Manifestare, protestare,
arrabbiarsi, sperare. Inutile. Superato il punto di non ritorno. Perché le
rivoluzioni non si attuano in virtù della loro moralità e legittimità. A essere
determinanti sono i rapporti di forza su cui fa affidamento il potere per
agevolarle o affossarle. Triste ma è l'evidenza degli esiti a confermarlo.
Viviamo in una società nella
quale, senza voler scendere nell'abominio della compravendita di bambini da
“ricreazione” e altri infami mercimonii e obbrobriose mercature, esiste un
mercato in cui è possibile “comprare” il nome di una via in cui non si vive e
un contratto di lavoro fasullo per poter essere riconosciuti come persone.
Nella quale per compensare la compressione del tempo cui siamo costretti ci
vengono offerte gratificazioni immediate, anch'esse, come elettrodomestici, a
obsolescenza programmata. Nella quale novelli sofisti, maestri di retorica, manipolatori di
significati, curvi e senza posa come galeotti ai remi, stuprano le parole, le
schiantano, le trasformano, ed elaborano nuovi linguaggi per far apparire
validi ragionamenti che non lo sono, buoni discorsi pessimi, e concedere spazio
allo zoccolo duro dell'analfabetismo becero. Una società nella quale espelliamo con noncuranza
criminale segmenti di biosfera dallo spazio vitale lasciando alle nostre spalle
residui di terra morta e acque morte. Né possiamo più recuperarle. In cui nulla
è più facile che screditare esperti onesti precipitandoli nel calderone
ribollente dei complottisti. In cui le disuguaglianze sono condizione sine qua
non del capitalismo globale mentre non lo è un'auspicabile cooperazione
transnazionale di cui infatti non si vede traccia. Perché tra nazionalismi,
balcanizzazioni, e aperture, tra coloro a favore del protezionismo e coloro che
vogliono economie aperte in realtà non vi sono differenze. Perché
malauguratamente i secondi non credono veramente all'internazionalismo ma
cercano semplicemente di ottenere accordi più vantaggiosi o mercati che
favoriscano vendite più facili.
Una società in cui la politica muore perché è diventata un
gioco senza ragione e senza conoscenza, perché, incapacità e corruzione a
parte, non è più sufficiente avere una coscienza di classe o sperare in un
elettorato cosciente, ed è stupido rivaleggiare con differenti programmi di
partito però tutti a breve e medio termine che non dicono granché e, alla resa
dei conti, non portano a nulla. Una politica che abdica al proprio ruolo e
delega ad agenzie per la sicurezza, a polizie statali e private, a forze
militari, il controllo del territorio, perché consapevole che la situazione non
potrà che peggiorare e perciò degenerare. Serve una coscienza di specie, come,
tra molti altri, diceva già Maria Montessori, di cui a breve ricorrerà il
150esimo anniversario della nascita.
Continuo a pensare che dovremmo avere una visione cosmica
della vita. Dovremmo riuscire, noi che ci vantiamo di essere superiori a ogni
altro essere animale, a scorgere quella particella invisibile all'interno della
quale, cominciata l'esplorazione, ci si accorge che non esistono confini di
sorta e che si apre uno spazio infinito che porta oltre i limiti di ogni realtà
visibile e verso una verità perlomeno intuibile. Dovremmo ambire a quella
capacità di raggiungere la conoscenza di una realtà oggettiva proiettandoci
mentalmente verso la realtà cosmica dell'esistenza umana. Come esseri sensibili
quali siamo avremmo il dovere di interrogarci sulle nostre “origini” e
difendere quella spiritualità che consente di rispettare ogni individuo vivente
ed è portatrice del bene comune. Ma quanto siamo lontani da tale apertura mentale?
È vero che il nostro agire singolarmente non ha la
forza di determinare un cambio di direzione, e comprendo la frustrazione di chi
tenta di fare del bene e constata l'incremento del male su scala planetaria, ma
non possiamo comunque chiamarci fuori e rinunciare all'esercizio della nostra
responsabilità individuale. La frantumazione delle responsabilità, le
difficoltà, l'assenza di risultati non possono essere un alibi. Tanto meno il
cascare dal pero a ogni piè sospinto. Nell'anno del Signore 2020 l'ignorare lo
stato delle cose non è accettabile, non è giustificabile, non è perdonabile.
Altresì vero che vi sono dei “nemici” reali, potenti, in alcuni casi noti, che
si spanciano di grasse e laide risate di fronte ai ridicoli tentativi di chi
vorrebbe un mondo retto da onestà, equità, lungimiranza. Il gridar loro in
faccia con rabbia, il chiedere conto e spiegazioni, il pretendere messe in
stato d'accusa laddove necessario, non fa che accrescere la loro ilarità.
Perché il meglio dell'esistenza umana è già finito, la guerra è già persa.
Come credere ancora?
Invocare un'etica socratica che
regoli il pensiero e l'agire.
Far sì che ciascuno di noi viva, si comporti e
consumi in modo che le sue scelte possano valere ed essere praticate da tutti i
miliardi di donne e uomini che abitano il pianeta.
Stilare un piano di battaglia, pensando a una
pianificazione gestionale del pianeta, con buona pace di chi, per pigrizia
intellettuale, alla parola piano evoca spettri di dittature sinistre.
Stare
sempre e comunque dalla parte delle vittime a prescindere dal campo di
appartenenza, avere cura di chi è in difficoltà e battersi contro ogni forma di
discriminazione.
Ma può una società
smettere all'improvviso di fare qualcosa che ha sempre fatto? No, perché ci si accorge delle
cose solo quando le si è capite. Ed è proprio contro la nostra capacità di
comprendere e capire che da tempo metodicamente si opera una manomissione.
La tragedia è che, oltre a tutto
questo, dobbiamo prepararci a una lunga serie di eventi pandemici come quello
attuale. Abbiamo attribuito l'origine del virus a riprovevoli abitudini
alimentari dei cinesi, ad attività illecite di qualche laboratorio criminale, a
un complotto dei signori del male, abbiamo azzardato le più svariate ipotesi
ma, se anche una di esse fosse vera oltre che verosimile, l'unica cosa certa è
che il virus viene da noi, dal nostro stile di vita intensivo in ogni sua
manifestazione. Agricoltura, allevamenti, metropoli, fabbriche. Probabilmente
se durante il confinamento abbiamo patito disturbi del sonno è stato perché una
qualche parte dentro ognuno di noi sa di avere, chi più chi meno, la coscienza
sporca.
Permesso di uscita.
Forse, dovremmo per prima cosa
provare a uscire da noi stessi e tentare di guardarci dal di fuori. Chissà che
di fronte alla triste immagine dei nostri corpi piegati a tutto, del nostro
sguardo vuoto, del nostro sorriso da centro commerciale, un rigurgito
d'orgoglio non ci spinga a spogliarci di queste vesti guaste che indossiamo da
troppo tempo e che non ci fanno onore.
Barbara Panelli Imperia 1° settembre 2020
*da due a quattro bicchieri
al giorno per bambino, classe di quindici bambini, una media di cinquanta
bicchieri/die, uguale un migliaio di bicchieri al mese. In una sola classe.
4 commenti:
Bellissimo articolo! Vi ho ritrovato tutti i miei pensieri, le mie convinzioni. Devo ringraziare te che lo hai scritto e Patrizia Petri che lo ha condiviso con me!
Scusa, mi chiamo Elena, Elena Orsini
Grazie Elena. Felice di essere riuscita a trasmettere i miei pensieri. E grazie a Patrizia, donna e amica veramente speciale. Non ci crederai ma tante pagine scritte su questo blog e questo è il primo commento che ricevo.
Incredibile!
Ora che scoperto il blog ti seguirò.
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