Se ci si ritrova senza lavoro, soprattutto tra i 45 e i 65 anni, capofamiglia di se stessi,
se l’Isee è irrisorio, se non esistono proprietà immobiliari, se si è
disoccupati, se si possiede un’auto del 2001, vorrei capire perché se si riceve
una proposta di lavoro in regola per quattro ore la settimana (32 ore mensili
per la somma di 200 euro circa) si è costretti a rifiutarlo pena, in caso
contrario, la perdita dell’esenzione ticket? Perché sì, esistono persone per le quali pagare o meno i ticket sanitari fa la differenza. E la si perde anche per una sola ora
di lavoro mensile regolarmente retribuito. Risultato: chiedere di non essere
messi in regola.
Se si ha tanta buona volontà, se
si è una fucina di idee, se si è capaci di procacciarsi lavori vari per
sopravvivere (pulizie, commissioni, piccoli lavori domestici, riparazioni, ecc.),
mi domando perché, nel momento in cui ci
si attiva per prendere una partita Iva in modo da fare le cose come vanno
fatte, su dieci commercialisti consultati, dodici consiglino (ovviamente) di
lasciar perdere perché non si sarebbe in grado di far fronte a spese, tasse e
contributi, a causa degli studi di settore che stabiliscono che, per i servizi
alla persona o per forme che sconfinano in attività artigianali, minimo si
debba guadagnare tot.
Se uno ha due braccia e
mediamente oggi, se va bene, dandosi da fare può trovar lavoro per una trentina
di ore settimanali mettiamo a una media di 7 euro l’ora, e arriva a un mensile,
un mese per l’altro, di 800 euro, con il quale, stringendo la cinghia, può
anche sopravvivere, perché impedirgli di mettersi in regola? Mettendosi in
regola potrebbe fare pubblicità e trovare più lavoro e magari arrivare anche a
1000 o più euro al mese, vivere un po’ meglio, e forse riuscire a pagarsi
dignitosamente anche i ticket sanitari. Però le braccia restano sempre due. Perché
dunque non lo si tassa in base al guadagno effettivo? Perché gli dite che deve
incassare almeno tremila euro al mese per sperare di non andarci sotto? Perché non
vi assumete concretamente l’onere di
verificare la conformità tra le dichiarazioni e le condizioni reali di vita di
un individuo? E non tassate con un'equa percentuale sugli effettivi guadagni?
Non bisognerebbe invece forse
premiare chi non pesa sullo Stato e sa essere, come si dice, imprenditore di se
stesso, accontentandosi di vivere modestamente? Perché sguardi di sufficienza
verso chi afferma che riesce a vivere con poco facendo a meno del superfluo?
Perché chi è povero ma onesto viene quasi deriso se si informa per
regolarizzarsi da sé, visto che nessun altro lo fa? Perché gli si risponde che
tanto fino a cinquemila euro può fare una ricevuta con il codice fiscale,
precludendogli la possibilità di migliorare la propria condizione con
l’acquisizione di una figura fiscale “normale”?
Perché un operaio che ha perso il
lavoro, che ha rinunciato alla macchina, che non gli avanzano soldi da mettere in un conto corrente, che si è ritirato a vivere in
campagna, da solo, in una buchetto a 200 euro al mese con un piccolo orto che
gli permette di fare economia, e riesce nei dintorni a trovare lavoretti per
arrivare a 600, 700 euro al mese, con i quali però riesce a campare, deve
lavorare di nascosto? O perdere dei lavori perché non può fare una ricevuta
scaricabile?
In buona sintesi: perché ci si
ostina a incentivare il lavoro nero?
Maggio 2016
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