A PROPOSITO DELLA GIORNATA CONTRO
LA VIOLENZA SULLE DONNE (e non solo)
La prima volta che mi è capitato
avevo dodici anni. Il giudice, interrogandomi su fatti risalenti a quattro anni
prima, mi chiese se per caso non avessi confuso normali gesti di affetto con toccamenti
impropri, portando ad esempio la vicenda di una ragazzina che, issata da uno
zio per raccogliere dei frutti da un albero, l’aveva poi accusato di molestie. A fronte della mia risposta negativa, mi disse
allora che, essendo io in grado di operare un distinguo, forse non ero così
innocente e mi chiese se ero certa di non aver in alcun modo provocato le
attenzioni particolari che avevo ricevuto e se ero veramente sicura di non
essere stata io a sedurre l’uomo che stavo incolpando. L’esito dell’udienza,
disertata da altre ragazzine coinvolte, i cui genitori preferirono non mettere
in piazza la vergogna, fu che mi concessero sì il beneficio del dubbio ma
altrettanto fecero con l’individuo che accusavo di molestie protratte negli
anni. Non gli venne comminata alcuna pena, né fu redarguito e poté impunemente
perseverare nelle sue disgustose abitudini fino all'età di novantadue anni, in
un clima di omertà assoluta.
Purtroppo, nei successivi
quarant'anni, mi è accaduto di subire aggressioni altre due volte. In un caso
fui soccorsa da un ragazzo africano (non ne avrei sottolineata l’etnia se non fosse per la
necessità di bilanciare l’eco delle cronache giornalistiche votate evidentemente
alla discriminazione in negativo), nell'altro me la cavai da sola mantenendo il
sangue freddo. In entrambe le situazioni non vi erano circostanze di rischio da
me prese alla leggera. Non ero vestita in modo sconveniente, non ero alticcia,
non era notte, non ho dato confidenza in modo avventato a chicchessia. Però,
entrambe le volte, mi sono ritrovata a dovermi poi giustificare così come era, ancor
più assurdamente, accaduto quand'ero ragazzina.
Questo non deve accadere.
L’umiliazione di doversi spiegare e giustificare resta come un marchio che
procura un senso di colpa inconscio che, nel tempo, desensibilizza le vittime
riguardo eventuali successivi abusi e anzi, per assurdo, li facilita. Inoltre
può sopravvenire la tendenza ad andare a cacciarsi reiteratamente in situazioni
a rischio per procurarsi il male prima che ce lo procurino gli altri, in un perverso
automatismo psicologico che ci persuade di avere in tal modo il controllo della
nostra vita.
Gli abusi diventano infine qualcosa
di poi non così grave e a cui comunque, in un modo o nell’altro, si sopravvive,
anche senza l’indebita punizione di sociali e istituzionali seconde violenze.
Uno psicologo, con cui mi
confrontai anni dopo, mi disse che quando qualcuno subisce un abuso è perché lo
permette. Fu un’affermazione che rifiutai di prendere in considerazione. Non mi offese perché proveniva da una persona
che gode della mia stima, e della cui onestà intellettuale sono certa, ma
m’infastidì perché la ritenni retaggio, se pur inconsapevole, di una visione
androcentrica della società.
Alcuni anni fa ho però riflettuto
sulla questione analizzando le dinamiche dei miei rapporti lavorativi che sono
stati sempre, e inesorabilmente, connotati da un iniquo riconoscimento
economico, dovuto ora alle mia scarsa autostima, ora alla convinzione che non
esistesse una relazione tra corrispettivo pecuniario e valore della prestazione.
Convinzione, presunzione anzi, che la mia bravura non potesse essere intaccata
dal fatto di essere retribuita in modo talvolta offensivo. Che i valori fossero
(e lo sono) altri. Per questo ho sempre
accettato, se pur per necessità, lavori sottopagati che hanno regolarmente
impregnato e invaso tutto il mio tempo. Ho permesso cioè che non si portasse
rispetto alla mia persona. Perché io per prima non ho avuto rispetto del mio
valore. Del valore assoluto della dignità dell’essere umano. Come indignarsi di
paghe da 2 euro l’ora, quando non al giorno, se se ne accettano comunque da 5 euro e senza la minima
tutela contributiva? Se si accetta di far parte di un ingranaggio bisogna
accettare anche la propria individuale complicità nella colpa di determinare il malessere sociale collettivo e non solo il
nostro. Ho quindi dato il mio beneplacito a un abuso. Non sessuale ma comunque
un abuso. Con tutte le implicazioni di dovere, inclusa quella di determinare
una ricaduta su altri. Se tutti tacciono, l’ingiustizia diventa sistema.
Ugualmente esiste una
responsabilità per chi passa sopra al dover cedere ad avances sessuali o lo
considera un qualcosa che si può fare senza che rimanga il segno. In tal senso
ho ripensato alle parole dello psicologo e ho compreso cosa intendesse.
Il movimento di denuncia che, da
neanche due mesi, sta dilagando nel mondo, sotto le insegne di hastag virali
quali #MeToo, #BalanceTonPorc, #QuellaVoltaChe, #AnaKamen, #YoTambien, è una
buona cosa, che si tratti o meno, come è stato recentemente scritto, del segno
della fine della società patriarcale. Basta omertà, basta vergogna. Spero che duri, spero che serva, spero che le
persone vittime della sindrome da emulazione siano poche, spero che nessuno
strumentalizzi. E che le vittime abbiano la forza d’animo di riconoscere,
quando il caso, in quale misura possono essere state corresponsabili. È una
forma mentis sociale quella che deve essere modificata, per cui siamo tutti
coinvolti e ognuno deve fare la propria parte. Imparare collettivamente che non
si può continuare a dar tutto per scontato solo perché “il mondo è sempre
andato avanti così”, richiede grande impegno da parte di tutti.
Una mollezza di costumi. La si
potrebbe definire così la traccia continua di acquiescenza che caratterizza la
società contemporanea. Cosa c’è di diverso nell'andare avanti nella vita a
colpi di compromessi? Che sia per lavoro, per quieto vivere, per fare una
vacanza che non ci si può permettere o acquisti compulsivi? Che sia girarsi dall'altra parte per evitare di
essere chiamati in causa o aspirare a un corpo in formaldeide? Non è forse
anch'esso un abdicare agli stereotipi comportamentali e di linguaggio di quello
che ormai si ritiene il modello di vita universalmente condiviso? Del tutto
all'insegna dell’omologata ricerca del superfluo. Non è forse anch'esso un modo
di prostituirsi e dare pertanto beneplacito all'abuso? Il non ascoltare se
stessi, il non rispettarsi: esiste un nesso forte tra il poco amore verso sé e
la possibilità che qualcuno ne approfitti. E ciò a prescindere dall'ambito in
cui ciò avviene.
Nel momento in cui cediamo una
qualunque parte di noi stessi perché il non farlo implicherebbe un’esclusione
in termini di visibilità sociale, sottraiamo valore alla persona e consegniamo
nelle mani di chi ha potere la possibilità di violarla con sempre maggior
facilità. E le nuove generazioni sono quelle che ne pagano e pagheranno il
maggior scotto.
A proposito di un recente fatto
di cronaca nostrana, un paio di preti
hanno detto che le ragazze se la sono cercata. Onestamente, vi chiedo, della
marea di ragazzine in pubertà che si offrono giulive e oscene in webcam, quante
conoscono il proprio valore, quante si amano a sufficienza, quante anche solo
lontanamente sospettano che ci sia dell’altro nell’esistenza di un individuo? E
quante pensate si comportino, uscendo la sera, da educande? Nulla giustifica
violenza e mancanza di rispetto, né mi
riferisco qui al caso specifico, ma banalmente i richiami sessuali esistono
perché vi sia una risposta. Forse l’unico caso, tra tutti i fenomeni
dell’universo, in cui una visione teleologica abbia un senso. Non possiamo
stupirci né scandalizzarci se accadono fatti sgradevoli e drammatici alle
nostre figlie, nel momento in cui vanno in giro imbottite di cultura da
televisivi piazzisti di momenti di gloria, e make up lampeggianti. Dobbiamo andare
all’origine del problema. La colpa non riguarda solo gli artefici di abusi
perpetuati in grazia di una qualsivoglia posizione di potere nei confronti di
chi è subalterno. Riguarda ognuno di noi.
Sicuramente sono condizionata
dalle ricerche che feci anni addietro sulla pedo/pornografia online, e di tanto
in tanto ci butto un occhio per tenermi aggiornata, ma proprio per questo so di
cosa sto scrivendo. Ho ben chiaro che dev'essere possibile andare in minigonna
senza subire affronti di genere ma anche che molte dodicenni di oggi vivono
clandestinamente una vita che donne d’età nemmeno sospettano esista. Una
precocità d’esperienze in sovrannumero, in gran parte superflue quando
non dannose, dettata dal vuoto. Dall'immediata comprensione intuitiva ed
emotiva di contare poco visto che tutti quanti siamo consultabili a catalogo. Un
nichilismo annoiato, ridanciano e contagioso. Da galleggiamento. Cosa troveranno
queste ragazze e ragazzi ad attenderli tra dieci anni in una società per la
quale non avranno assimilato strumenti di interpretazione? Come potranno distinguere tra ciò che è normale e ciò che è prevaricazione?
Passeremo dalla paura di essere giudicati male in quanto vittime di reati che toccano la sfera intima, personale, e sessuale, direttamente all'incapacità di riconoscerci tali?
L’altra sera a cena un amico mi
ha fatto notare che una volta le gonne arrivavano sotto il ginocchio ma questo
non era d’ostacolo ai giochi di seduzione, al corteggiamento, ai rapporti
sessuali. E c’erano tanti figli. Ora, lasciando da parte ogni considerazione
sull'affrancamento legittimo del piacere dalla procreazione, e sul fatto che le
donne un tempo avessero poca voce riguardo alla scelta del partner,
resta il fatto che oggi l’atto sessuale è avulso sempre più da un
coinvolgimento emotivo, da uno slancio vitale, e da tutto quanto ne consegue. Il piacere del desiderio,
le emozioni legate ad esso, quando questo era rivolto a un unico essere per noi
insostituibile, sono perduti. Esiste sempre un desiderio e un bisogno forte di
esaudirlo ma i destinatari sono per lo più intercambiabili. L’importante è
riuscire, a prescindere dal valore della persona cui rivolgiamo l’attenzione.
L’esigua presenza di figli, che a parer mio non è quella gran catastrofe,
denota inoltre che l’atto sessuale ha perso una connotazione fondamentale: la
vocazione di creare con la persona amata qualcosa di unico, di importante, di,
appunto, vitale.
Provo pena per queste nuove
generazioni di individui che, a parte alcune fortunate eccezioni, non sanno e
difficilmente sapranno cos'è credere fortemente nell'unione con l’altro al
punto da mettere in gioco le proprie rispettive esistenze nel segno di un
futuro che si sogna bello e denso di realizzazioni positive. Che non conoscono
la bellezza e il senso profondo della resa, dell'ar/rendersi all'altro nella
più totale fiducia. Non si tratta qui del solito borbottio tra generazioni,
dove la più datata lamenta la perdita dei vecchi valori in quella più giovane,
la ribellione, il non rispetto. Qui si constata con amarezza l’incapacità
intellettuale, fisica, ed emotiva di percepire qualcosa che è ciò che determina
il valore dell’essere umano.
Il non essere capaci di provare
desiderio, di sperare, di soffrire anche, il non sospettare che esista
un’interiorità viva che non conosce noia, insoddisfazione, depressione, tutto
ciò è una sottrazione di vita di cui tutti noi siamo responsabili nei loro
confronti. E lo siamo nel momento in cui, seduti davanti alla tivù, non ci
indigniamo di fronte agli spot di famiglie i cui componenti sono tutti felicemente e contemporaneamente connessi alla
velocità della luce, e vivono ognuno in un proprio mondo che definire virtuale
è ormai obsoleto. Mondo altrettanto
reale quale quello che abbiamo fino a ieri definito tale e che abbiamo il dovere di capire, in ogni sua
sfaccettatura, implicazione, e livello di complessità, per poterlo spiegare degnamente a chi si
destreggia abilmente nell'abitarlo ma di certo non possiede capacità di
comprenderlo.
2 dicembre 2017
(tutti i diritti riservati)
Nessun commento:
Posta un commento