La prima volta che ho sentito
utilizzare il termine “appetibile” è stato da un veterinario, a proposito di
mangimi animali.
Non amo i dolci, salvo quelli al
cucchiaio fatti in casa con amore e in modo tradizionale, però ieri alla cassa di
un discount ho ceduto alla tentazione di acchiappare una confezione in offerta
di Kinder Pane Cioc cacao. Di sicuro è stata la parola cacao a sedurmi,
alimento che amo e che non può certo essere definito dolce.
Un'ora prima di cena, riordinando
in cucina ho dato un morso a una delle merendine e ho risposto in una scatola i due terzi
avanzati. Il tempo di andare nell'altra stanza per dedicarmi ad
altro e sono dovuta tornare indietro per riaprire la scatola e ingurgitare con
altri due morsi il resto della merendina. Agghiacciante. Appetibile è un
termine riduttivo. La dipendenza è immediata.
Da un ventennio mi interesso di cibo (agricoltura, pesca, allevamenti, processi industriali, sofisticazione
alimentare) quindi nessuna sorpresa ma mentre ingoiavo avidamente l'ultimo
boccone mi sono ricordata di un libro.
«Mangia, bimbo bello, mangia», pensai.
Avevo riconosciuto la confezione. Il produttore era un mio cliente. Ogni mese lo rifornivo di alcuni quintali di ovoprodotto. Proveniva da una ditta di riciclaggio di rifiuti del torinese che, invece di smaltire uova ammuffite, rotte, invase da parassiti, le ripuliva alla buona della putrescina e della cadaverina e le trasformava in una poltiglia confezionata in comodi bidoncini da cinque chili, pronti per essere versati nelle impastatrici delle industrie dolciarie. E non doveva essere cattiva dato il gusto con cui il bambino ora addentava la merendina con un'avidità da adulto, senza lasciare che neppure una briciola cadesse fra i sedili. Il proprietario della ditta non aveva mai fatto domande sulla qualità del prodotto ma il prezzo e l'assenza di etichette sui contenitori spiegavano già tutto.
© 2007, Giulio Einaudi editore
Francesco Abate, Massimo Carlotto – Mi fido di te
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