venerdì 14 febbraio 2020

CORONAVIRUS


Non volevo scriverne temendo di impantanarmi in riflessioni su censura, interessi dell'industria farmaceutica, globalizzazione, ipotesi di complotto, letteratura e cinematografia distopiche, e via discorrendo, poi ho concluso che almeno poche righe su quest'epidemia o pandemia che dir si voglia, dovevo scriverle.

L'epidemia di Coronavirus oltre a essere un'emergenza sanitaria è anche, se non principalmente, una sindrome sociale che, in certi casi, rasenta la psicosi di massa. Una sindrome che rivela molto della condizione umana agli albori del terzo millennio dell'era cristiana. Rivela pregiudizi, fa emergere paure inconsce, scatena istinti aggressivi.

In questo mondo complesso ed estremamente fragile porta alla luce, tra le altre cose, la nostra ipocrisia. Sollecitati da un'informazione globale sfuggita di mano e incapaci di distinguere dove finisce il resoconto di un’emergenza e dove comincia la costruzione mediatica di un allarme, paventiamo un'ecatombe imminente che sicuramente questa volta ci colpirà. Colpirà proprio noi che altrimenti ci sentiamo lontani dai mali del mondo, che ci reputiamo in qualche modo immuni alle tragedie fuori porta. Improvvisamente sicuri che prima o poi arriverà la catastrofe che ci punirà, perché in qualche modo siamo consapevoli di meritarla una punizione.

E ora, con il coronavirus, ci ritroviamo a temere per la nostra vita così come è stato per l'aids, la mucca pazza, l'ebola, la Sars, l'influenza aviaria. Se poi si riuscirà a contenere l'epidemia, se si troveranno un vaccino e una cura efficace, coloro che la scamperanno, presumibilmente la gran parte, vergognandosi della paura provata, liquideranno la faccenda come l'ennesima crisi sovrastimata. Replicando in tal modo la propensione alla superficialità e alla non lungimiranza. Torneremo a considerarci fuori dall'ecosistema terrestre, fuori dalla società umana, insomma non a bordo della stessa barca. Fino alla prossima emergenza.

Intanto, però, come dimostrano gli episodi di intolleranza, le aggressioni e gli insulti, le assurde pantomime di baristi con tuta protettiva e mascherina, la corsa all'accaparramento di disinfettanti e presidi ospedalieri protettivi, il saccheggio dei negozi di ferramenta per le mascherine, in molti, come sempre in queste occasioni, stiamo mostrando il nostro lato peggiore, quello dell'ignoranza presuntuosa e prevaricatrice.

Forse non siamo riusciti, nonostante la professata fiducia nelle dell'umana gente magnifiche sorti e progressive, ad affrancarci da una memoria collettiva profonda pronta a riemergere ai primi segni di una qualche nuova forma di contagio che richiami le pandemie passate della storia umana, di cui la peste è l'emblema. Il rifiuto dell'altro quindi come atavismo mentale, un riflesso comportamentale ben presente in molti aspetti della nostra vita sociale. Come quando siamo infastiditi o imbarazzati di fronte a chi chiede l'elemosina forse perché una parte della nostra memoria di specie ricorda quando le città europee rigurgitavano mendicanti, straccioni, diseredati. Come se gli individui che incontriamo ai bordi dei marciapiedi, quelli che scendono dai barconi, tutti coloro che vivono ai margini di una vita dignitosa, fossero i fantasmi di un passato, peraltro neanche tanto lontano, che fa a pugni con l'idea di un mondo evoluto, prospero e avanzato. Un passato con cui non vogliamo più avere niente a che fare.

Noi che dimentichiamo di far parte di un unico sistema, parte di una società umana strettamente interconnessa, noi che siamo incuranti delle centinaia di migliaia di persone che muoiono ogni anno di malattie facilmente curabili, quali ad esempio la malaria e che non siamo, se non occasionalmente, interessati a tutti quei problemi che schiacciano buona parte dell'umanità perché irrazionalmente persuasi di non farne parte, in questi giorni non dormiamo bene. Siamo tormentati e inquieti.

Ci stanno dicendo che il virus sopravvive a lungo sulle superfici...

Potrebbe mai darsi che l'inquilina del piano di sotto che fa le pulizie dai tedeschi che erano a Venezia a gennaio nello stesso periodo in cui vi ha soggiornato la coppia di Taiwan positiva al Coronavirus, possa aver contratto il contagio? Be', sì, potrebbe darsi.


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