mercoledì 2 ottobre 2024

CONSIDERAZIONI IN ORDINE SPARSO SU CANCEL CULTURE, INCLUSIVITÀ, DISGREGAZIONE SOCIALE

Nel cortile il bambino vede per la prima volta un africano, sgrana gli occhi meravigliato ed esclama “Ma è tutto nero!”

L’africano sorride, io di rimando.

Se il bambino avesse conosciuto la parola negro, forse avrebbe esclamato “Ma è tutto negro!”

E, probabilmente, l’epilogo sarebbe stato identico.

Perché a comandare non è la parola ma il sentire. Nel caso specifico, la meraviglia.

E la meraviglia suscita sorriso perché arriva dal cuore.

Le parole sono tutte pure. In linea di massima.

La descrizione di ciò che si presenta alla vista, ai sensi in generale, attraverso l’utilizzo di termini presenti nei vocabolari non è deprecabile di per sé. Può essere criticabile e riprovevole in specifici contesti e, soprattutto, sulla base di un’intenzione negativa. Anche parole belle possono essere usate in modo offensivo. E, sin qui, tutto molto ovvio.

Ora è però in atto una vera e propria guerra ideologica sull’utilizzo delle parole. Chi le vuole eliminare, chi ne vuole manipolare i significati, chi ne vuole ridurre il numero. Con buona pace della capacità di elaborazione del pensiero critico e quindi della libertà.

Un conflitto che sta ulteriormente dividendo la società per il tramite di un processo di ristrutturazione manicheistica del pensiero che non può che portare allo smarrimento della ragione e alla disintegrazione definitiva della società stessa. Infatti, l’impostazione o bianco o nero è già ben radicata. Che si parli di ecologia, di conflitti, di clima, e a seguire un elenco lunghissimo le cui voci meriterebbero ognuna una trattazione dedicata, o si sta da una parte o dall’altra, o sei con me o sei contro di me. Non è contemplato né contemplabile che ci sia del vero nelle asserzioni di entrambe le parti che si fronteggiano, né che entrambe possano sbagliare. Gli uni hanno totalmente ragione, gli altri totalmente torto. Chi siano gli uni e chi gli altri dipende dalla parte presso cui ci si colloca.

Questo il terreno da cui si parte.

Poi, iniziando dal politicamente corretto, si arriva alla cancel culture e si procede con le varie derive.

Ho un amico che all’alba spazza le strade del quartiere. Il mio amico fa lo spazzino. Ho sempre ritenuto il suo un bel lavoro. Mi piace alzarmi molto presto quando la città è silenziosa, mi piace pulire, mi piace il decoro. Avrei fatto volentieri la spazzina.

Mio nonno era cieco. Una ferita di guerra. Allo sbarco in Sicilia si era unito agli americani. È morto a novant’anni. Ben lucido. Ricordo che s’infastidì quando udì dire per la prima volta “non vedente”. Gli pareva assurdo doversi definire attraverso una locuzione negativa quando dire cieco esemplificava la faccenda. E, con l’ironia caustica che lo contraddistingueva, sciorinava una serie di esempi. Uomo dalla schiena non dritta (che per lui non avere la schiena dritta aveva un altro e ben preciso significato), uomo con una gamba diversamente lunga, uomo non magro,...

Gobbo, zoppo, grasso. Dov’è il problema? Chiedeva.

Minorato, infelice, storpio, infermo, menomato, offeso. Quant’era ricca la lingua italiana per definire gli sfortunati? Perché fare giri di parole? Per non identificare la persona con il proprio handicap? Bene ma questo è un problema di chi sta attorno e deve imparare a stare al mondo e a non giudicare uno perché gli manca magari un piede senza considerare tutto quello che invece non gli manca e per cui magari si distingue o eccelle. Detestava i comportamenti fastidiosamente commiserevoli. Chi sta attorno se lo deve proprio dimenticare che a uno gli manca un piede. O che è cieco. Ovviamente entro i limiti della sicurezza. Specificava.

Un caro amico privo di un braccio, nessuno lo invitava a cena e quando capitava, brodini e purè. Indossava un orribile antica protesi di plastica. D’estate maniche lunghe. Una volta l’ho invitato e, sapendo che ama la carne, bistecca con patate. “Bistecca?” ha sbottato stupito quando si è trovato il piatto davanti. “Sì, bistecca. Te la taglio io. E togliti sta felpa che fa caldo e magari pure il braccio che tanto tutti sanno che ti manca.” Per quanto subito contrariato per essere stato colto alla sprovvista, si è poi sentito alleggerito da un peso e, a fine serata, mi ha ringraziato. Troppi scrupoli e precauzioni nei suoi confronti lo obbligavano a una costrizione maggiore di quella cui era da sempre vincolato e che era già sufficientemente faticosa.

Per non offendere si corre facilmente il rischio che la parola divenga tabù, e nel suo caso le parole tabù erano tante: braccia, protesi, tirare, lanciare, sollevare, abbracciare, un’infinita teoria di verbi legati all’uso delle braccia. E così si ritrovava amputato nella vita, nel dialogo, nella relazione, ben più di quanto non lo fosse per il braccio mancante.

Chiamiamo le cose con il loro nome! Non c’è nulla di male.

Si può dire anche negro. Dipende dal come e dal perché lo si dice. In quale momento, a chi, con quale fine. Non si può avere paura delle parole scomode. Vanno affrontate e non depennate.

Cosa c’è di umiliante nella parola bidello? Operatore scolastico è un termine algido, spersonalizzante, così lontano anche da tutta una tradizione letteraria. Siamo divenuti tutti operatori di qualcosa. Secondo me si tratta di un impoverimento lessicale che nulla ha a che vedere con la salvaguardia della dignità delle persone. Primo perché tutti i lavori sono dignitosi almeno per definizione, secondo perché con definizioni asettiche possiamo nascondere realtà spesso difficili e complesse ed evitare appunto di affrontarle.

Prendiamo i Gig worker. Evvai! Ma che bella parola. Sono un gig worker! Suona accattivante.

I gig worker includono appaltatori indipendenti, lavoratori di piattaforme online, lavoratori di ditte a contratto, lavoratori a chiamata e lavoratori temporanei. Per lo più le ultime due categorie. La precarietà assunta grazie a un neologismo anglofono a crescita dell’occupazione, con buona pace di continuità, sicurezza, diritti e tutta quanta la serie di attributi che dovrebbero caratterizzare il lavoro per poterlo definire tale. E tutto ciò entra nel pensiero collettivo come normalità, al punto che, ad esempio, pare ordinario e accettabile suggerire a una donna sessantenne disoccupata per problemi di salute di lavorare per Deliveroo et similia.

Dobbiamo prestare attenzione alla metamorfosi del linguaggio. Non si tratta di restare attaccati al passato, di rifiutare neologismi, di osteggiare l’uso di parole straniere, ma bisogna salvaguardare i significati e badare a che non vengano stravolti. E sarebbe necessario evitare che un singolo termine includa troppe realtà. Come nell’esempio succitato, ogni categoria lavorativa inclusa nel termine gig worker ha caratteristiche particolari ben definite. Un appaltatore indipendente non è un lavoratore a chiamata. Se si cancellano le differenze ci si preclude la possibilità di risolvere problemi specifici.

Un conto però è ragionare in termini di doverosa attenzione, un altro è servirsi delle differenze per manipolare il pensiero in funzione di un cambiamento sociale disgregante.

Parte integrante di questa trasformazione verso una lingua politicamente corretta sono la cultura woke, nella sua recente versione, con tutte le conseguenti ramificazioni tra cui la scrittura cosiddetta inclusiva.

La cultura woke, un insieme di teorizzazioni e di pratiche nato dall’idea di “risvegliare” gli afroamericani (woke significa “sveglio, persona che tiene gli occhi aperti”) per spingerli a rivendicare i loro diritti, si è ampliata sempre più, andando via via includendo temi apparentemente slegati ma con il denominatore comune di incorporare elementi di discriminazione e anche violenza. Dalla tutela di minoranze etniche, vittime di colonialismo, di epurazioni, o qualsiasi altro genere di sopraffazione e discriminazione, si è giunti a integrare praticamente ogni genere di diversità. Genere, razza, inclinazione sessuale, linguaggio, fede, educazione, cultura, aspetto fisico, alimentazione, gusti letterari, insomma qualsiasi preferenza o idiosincrasia personale, e anche privata, eletta ad attributo appartenente all’ennesima minoranza da difendere e non offendere. Tale movimento, oltre ad aver trovato leader e testi manifesto, oltre a essere divenuto un potente mezzo di marketing e nuovo corposo cliente per il mercato, sta rendendo inammissibile pronunciarsi su pressoché qualsiasi cosa senza incorrere nel rischio di essere tacciati, a seconda del caso, di razzismo, egoismo, insensibilità, conservatorismo, bigottismo, ... A ciò si aggiunga il processo di cancellazioni e demolizioni, materiali e non, in ogni ambito. Dall’abbattimento di statue all’espunzione di parti o totale eliminazione di testi, dalla rimozione di simboli alla censura e all’ostracismo di autori ritenuti portatori di discriminazioni o semplicemente scomodi per appartenenza geografica e quindi essi discriminabili (la storia recentissima è prodiga di esempi). Un innegabile tentativo di rimaneggiamento storico e sociale a colpi di damnatio memoriae.

I neonati movimenti di condanna della cancel culture, per quanto anch’essi spesso settari in quanto poco inclini a un reale confronto, sorgono inevitabilmente da quest’estremizzazione di un movimento nato in origine per un fine sociopolitico necessario e accusano la penetrazione incontrollata del wokismo, in ogni ambito della vita sociale, di produrre una discriminazione inversa.

In effetti ciò accade ormai da tempo senza soluzione di continuità anche con la complicità di chi molto probabilmente non avrebbe personalmente intenzione di infierire contro qualcuno creandogli problemi o difficoltà di sorta. Nell’epoca dei social purtroppo accade spesso che sull’onda dei commenti su un fatto di cronaca, sulle esternazioni di una persona, insomma su una qualunque questione di dominio pubblico, tutti si possa contribuire a una vessazione mediatica con conseguenze anche gravi. Un licenziamento, un allontanamento, una depressione, un suicidio. Il termine in uso per definire tale fenomeno è shitstorm. Un numero consistente di persone che manifesta il proprio dissenso nei confronti di qualcuno. Individuo, gruppo, organizzazione, azienda, che sia. Ciò avviene, se non in modo istantaneo, in tempi assai rapidi, si propaga in modo virale, e impedisce qualsiasi riflessione dettata dal semplice buon senso. Una comunicazione scevra di filtri attraverso cui i partecipanti protetti dall’anonimato ripropongono la dinamica del branco. La vittima ne può uscire veramente malconcia e segnata a vita. Rifiutare questa condotta non significa però negare il diritto all’espressione di un dissenso collettivo. Per portare un esempio tra i tanti, alcune note azioni di boicottaggio sono state importanti e hanno contribuito a una presa di coscienza su problematiche che dovevano essere portate all’onore della cronaca. Ma si tratta di situazioni ben diverse.

Insomma, pur non volendo far del male a nessuno ma solo e semplicemente inserirsi in una discussione “vivace” per sentirsi parte della tendenza del momento, il partecipare a linciaggi mediatici, senza neanche dedicare un minuto alla verifica dei fatti e all’analisi di quanto si va a giudicare, può condurre a conseguenze concrete anche gravi e sarebbe necessario che tutti prendessero coscienza di ciò prima di fare i leoni da tastiera. Si critica qualcosa considerato offensivo o addirittura pericoloso, si prende in giro, si offende, sperando in retweet e reazioni, si creano e condividono meme, il tutto spesso senza volere realmente la testa di qualcuno ma solo perché si ha la necessità vitale di rigettare fuori tutto quanto di negativo si deve ingoiare ogni giorno in un mondo sempre più difficile ed estraniante. Solo che alle volta poi la testa rotola giù per davvero. Singolarmente forse non si desidera sul serio il male di qualcuno ma collettivamente però è quello che si ottiene. Che poi qualcuno se lo possa anche meritare è una questione che scoperchia il vaso, quindi evito qui di entrare nel merito.

In pratica dunque si è partiti dalla rivendicazione di diritti (woke!), si è allargato il movimento in nome della difesa delle minoranze e il raggiungimento di una totale inclusività e si è finiti con l’insultare il prossimo a ogni piè sospinto. A furia di han tutti ragione, la ragione non ce l’ha più nessuno. Un tutti contro tutti che la dice lunga, a mio avviso, sulle reali intenzioni di taluni sponsor di tali movimenti.

Un discorso molto ampio e complesso che porterebbe a lunghe digressioni.

Venendo alla “scrittura inclusiva”, che sostituisce con un complesso sistema di interpunzione il dominante plurale maschile onnicomprensivo, la nota finale in schwa, con la stura all’obbligo di accettazione collettiva sull’infinità e fluidità di generi esistenti sta contribuendo, anziché al rafforzamento, all’indebolimento dell’identità individuale. Che in natura non esistano solo maschi e femmine è risaputo ma il genere sessuale tavolino dubito fortemente sia contemplato nell’elenco. Sicuramente il recente incremento di confessioni e ostentazioni pubbliche di così variegate inclinazioni sessuali sono un sintomo del malessere diffuso e crescente in una società in cui Essere è impresa titanica. L’eco mediatica, l’emulazione, la necessità di apparire per esistere hanno dato il via infatti a un’esplosione di manifestazioni di sessualità che arrivano fino all’identificazione di se stessi quali oggetti, e sempre con la prerogativa implicita che tali inclinazioni possano mutare in continuazione, anche ogni istante secondo il contesto, e ciò in nome di una fluidità che, se pur comprovata dalla biologia animale (protozoi e non solo), in tali eccessivi termini diviene ridicola. Nel privato, e ovviamente senza ledere a nessun livello il prossimo, ognuno è libero di esprimere la propria sessualità come preferisce ma pretendere l’istituzionalizzazione e la propagazione socioculturale della propria idea in un ambito tanto intimo lo trovo stupido e aggressivo. Eppure sono in tanti che fomentano e ci marciano.

Tutti questi fenomeni sono strettamente collegati al discorso dell’inclusività. All’ideale di una società da cui nessuno resti escluso, in cui ogni individuo possa inserirsi senza essere vittima di pregiudizi e discriminazioni. Uguali diritti e opportunità per chiunque, ognuno con le proprie caratteristiche distintive, inclinazioni, credenze, cultura e via elencando, nel gran paniere della società, con l’unico obbligo comune di rispettare le norme di convivenza civile.

Considerazioni ragionevoli in funzione di un obiettivo nobile.

Se non fosse che la faccenda sta decisamente sfuggendo di mano.

Il punto è infatti che se ogni individuo, per una qualsiasi propria peculiarità, può essere considerato vittima di discriminazione e pertanto identificabile con una minoranza, portando all’estremo tale premessa, potremmo arrivare a un numero di minoranze pari al numero di individui e ciò corrisponderebbe alla scomparsa della società. Il paradosso dell’essere totalmente inclusivi è ottenere, tramite una divisione parossistica e irrimediabile, una parcellizzazione del tessuto sociale tale da non poter nemmeno più usare il termine tessuto perché di esso non rimarrebbe traccia. Ogni inclusione presuppone una definizione talmente particolareggiata e specifica che porta gioco forza all’esclusione di chi non rientra appieno nella definizione data. Ogni minima e specifica inclusione comporta esclusione.

L’attenzione al particolare è fondamentale e importantissima in ogni ambito ma quando è estrema, e soprattutto strumentalizzata, distoglie dalla visione d’insieme. Si perde ciò che accomuna. Si perdono le connessioni tra le cose. La specializzazione eccessiva, lo si vede negli indirizzi di studio e nell’esercizio delle professioni, porta a non vedere più tutto quanto sta intorno. La difficoltà che oggi s’incontra per avere una diagnosi medica racconta molto bene questo meccanismo.

Tutti questi fenomeni hanno una corrispondenza a livello politico. Due ambiti, quello culturale e quello politico, che vanno a convergere pur, forse solo apparentemente, partendo da presupposti diversi.

La parcellizzazione politica infatti non nasce da fenomeni sedicenti inclusivi, anzi il contrario, e dipende principalmente dalla debolezza dei governi. La crescente incapacità che questi hanno di farsi carico dei problemi della res publica, incapacità la cui origine è facilmente rintracciabile nella lunga serie di sottoscrizioni di trattati commerciali transnazionali che hanno lasciato agli Stati nazionali solo più il vuoto involucro di un’importanza istituzionale laddove pressoché nessuna decisione pratica può più essere presa in autonomia ma sempre e solo sotto l’egida del beneplacito del sistema finanziario, si esplicita, anziché in una volontà reale di riappropriazione, in un’inclinazione suicida a negare la propria impotenza reale e nel favorire la disgregazione sociale mettendo tutti contro tutti.

Le classi politiche, tutte se pur in modi diversi, favoriscono l’ansia individuale dei propri cittadini raccontando che essa in realtà esiste per la preoccupazione riguardo le minacce all’identità collettiva del Paese cui appartengono. Qualsiasi sia il problema anziché andare alle radici e alle cause prime, improvvisano e giocano. Prendono un sintomo e lo trasformano nella malattia. Prendono un effetto e lo trasformano in causa. Prendono un fenomeno e lo trasformano in spiegazione. Come dire, tu non sei vittima ad esempio della nostra arroganza, o superficialità che sia, che ci ha portato a svendere il Paese ma di chi viene a derubarti dove sei nato. O, in alternativa, le colpe sono tutte del partito avversario. Una cosa non esclude l’altra ma mai ho sentito un’assunzione di responsabilità da parte di qualche governante. E ciò a livello mondiale.

Aggiungiamo a tutto ciò che, per come è strutturata la società dei consumi e senza voler denigrare i propositi di integrazione del reddito a favore di chi è in difficoltà (non entro nemmeno qui nel merito della questione perché si aprirebbe un ampio capitolo a sé), il numero di nuovi poveri è comunque destinato ad aumentare. L’induzione, da parte del capitale produttivo, al “bisogno” di ciò che in realtà non abbisogna, la necessità di smaltire gli eccessi produttivi per evitare l’implosione del sistema, la costrizione a possedere tecnologie sempre di ultima generazione per non essere tagliati fuori dalla possibilità di accesso a servizi essenziali, e tutti gli esempi che si possono fare, sono tra le cause principali. I poveri aumenteranno inesorabilmente e il divario fra poveri e ricchi anche. Non è demagogia, è aritmetica. Cosa fare di questi poveri e nuovi poveri? Per prima cosa evitare di attrarli. O esiste una forma di welfare comune a tutti gli Stati sovrani o quei pochi che ancora ne mantengono uno sono destinati ad abbandonarlo. Esiste già infatti tra gli Stati una competizione negativa per evitare di diventare calamite assistenziali. Quindi erosione più o meno graduale del benessere sociale, riduzione dei servizi, esternalizzazione degli stessi, crescente flessibilità in ogni aspetto della vita, che tradotto vuol dire precarietà, insicurezza, impossibilità di progettare. Solo un’azione sovranazionale e sovracontinentale potrebbe neutralizzare tale spirale mettendo paletti uguali per tutti quanti in settori determinati, quali accesso all’istruzione e alla salute, condizioni e trattamento dei lavoratori, protezione dell’infanzia etc. Ma ne siamo ben lungi. Il sempre maggiore malcontento viene incanalato, agevolmente in quanto sentimento spontaneo nelle situazioni di malessere, in insofferenza e ostilità verso tutti coloro che vengono percepiti come alieni, barbari, nemici. A partire dal vicino di casa nato dove siamo nati noi. Cresce la frammentazione politica, crescono le ideologie segregazioniste. Vengono proposte soluzioni politiche a favore di autonomie geografiche molto circoscritte in nome della tutela dei territori e delle culture locali (il che ha un senso perché chi meglio di chi ci vive, malversazioni a parte, può amministrare il luogo in cui vive?), unità politiche di misure ridotte, che hanno però meno chances di opporsi all’internazionalismo della finanza e di organizzare una qualsiasi forma di opposizione o resistenza. Difficile andar d’accordo tra condomini, figuriamoci tante minuscole entità amministrative separate e chiuse in se stesse.

Dunque, da una parte possiamo dire che più si è inclusivi più necessariamente si presta attenzione alle particolarità, alle differenze, a tutto quando rende diversi, e più questo processo avanza, più l’inclusività presuppone una frammentazione della società che può condurre all’assurda conseguenza che ogni individuo potrebbe rivendicare il riconoscimento di un’autonomia giuridica. Alle volte ho la netta impressione che talune rappresentanze politiche, dietro la maschera del rispetto e dell’integrazione, nascondano un artifizio per riuscire a dirigere con maggior facilità le sorti del pianeta in un momento talmente complesso che star lì ad aspettare che miliardi di persone prendano coscienza e agiscano collettivamente con cognizione di causa è impensabile. Sempre che poi a qualcuno importi di tale presa di coscienza, direi anzi il contrario. Un agire mistificatorio che lede l’integrità delle persone e della società. Lasciando in tal modo un portone spalancato a chi voglia approfittare della situazione per proprio tornaconto.

Dall’altra, possiamo dire che più si teme la perdita della propria identità a livello di appartenenza a uno Stato sovrano, più si propagandano chiusura di confini e rifiuto di identità politiche collettive (e ci tengo a precisare che movimenti quali +Europa suscitano in me repulsione perché sono lontanissimi dagli ideali di Ventotene), l’unica cosa che si ottiene è la perdita definitiva del poter ragionare insieme sul destino dell’umanità.

Insomma, giriamola come vogliamo, il risultato non cambia. Ed è un risultato triste e anch’esso ben lontano dall’ideale di una società civile degna di tale attributo. Resta solo una gran confusione che offre il destro a persone altrimenti inette di poter amministrare, al riparo da critiche e conseguenze, non cittadini ma sudditi ormai defraudati di ogni capacità di comunicazione e collaborazione.

Che sia tramite la manomissione del linguaggio, che sia a causa di scelte politiche operate da individui che al giro possono essere considerati, inetti, impreparati, inconsapevoli, disonesti, scellerati, arriviamo al medesimo esito. Gli effetti li abbiamo sotto gli occhi. Con tutto il potenziale che abbiamo tra le mani siamo in caduta accelerata verso il basso. Anziché elevare ogni individuo a quelli che dovrebbero essere gli alti valori di una società degna, l’imbarbarimento avanza e, purtroppo, l’unica soluzione adottata da tutti pare sia arroccarsi, rinchiudersi nelle proprie roccaforti di pensiero e rinforzare le mura di difesa. Il terrore di vedersi defraudati e travolti non risparmia nessuno. E anche i liberi pensatori, coloro che ancora credono nei valori di humanitas, il vir bonus nella vita pubblica e in quella privata, frutto di educazione e cultura, portato a comprensione e assistenza, o tacciono e scelgono di autoesiliarsi o si parlano addosso dandosi ragione a vicenda all’interno di ristretti ed elitari gruppi di appartenenza. Facendo il gioco del nemico.

Il sogno di una federazione mondiale precipita nell’incubo di una parcellizzazione progressiva di territori e culture, dove piccolo sarà sinonimo di autodeterminazione e libertà, dove si moltiplicheranno minuscole enclavi nate ognuna in nome di una propria appartenenza da proteggere, in uno spirito da campanile portato all’eccesso, fino all’atomizzazione sociale in cui ognuno sarà Stato, chiuse le finestre, sprangate le porte, allarmati i cancelli. Antifurto, telecamere, guardie. E a quel punto la possibilità di arrivare a scalzare le radici dei problemi sarà svanita. Sarà svanita la possibilità di risolverli. Di snidare le cause, di riconoscere le vere forze dietro tali cause. Insicurezza e paura anziché diminuire si acuiranno in modo ossessivo e, a quel punto, mentre staremo nelle nostre prigioni fortezza, ci sarà chi potrà agire impunemente godendo delle risorse del pianeta e arricchendo grazie ad esse.

Alle volte però pare quasi ci sia, oltre a un necessario progetto di controllo delle masse, una componente psicologica umana, quasi una patologia: una strenua volontà di perdersi.

Esiste una via d’uscita?

Si è tanto parlato e scritto di globalizzazione, di omogeneità culturale, di multiculturalismo, di universalismo. Paiono sinonimi ma sono termini che esprimono concetti assai diversi l’uno dall’altro.

Sulla globalizzazione, che è quanto ci sta accadendo, si è detto alla nausea ed è sotto gli occhi di tutti che essa sia servita in massima percentuale ad agevolare il mondo finanziario e imprenditoriale, quindi non mi ci soffermo.

L’omogeneità culturale ha una valenza piuttosto negativa perché implica la rinuncia da parte di tutti di una buona fetta del proprio retroterra. Implica una perdita considerevole in funzione di un consenso e della possibilità di appartenere a un consesso in cui non si litiga perché tutti la pensano uguale.

Multiculturalismo invece, parola dal suono bello e promettente, significa coesistenza di diverse culture. Non è detto però che poi queste comunichino, anche perché principalmente la cultura è qualcosa di legato al luogo di nascita, a un territorio, a una lingua, e non dipende da una scelta, quindi non presuppone necessariamente apertura all’altro. E comunque perché una comunicazione e un confronto avvengano è necessaria un’intermediazione costante che permetta la comunicazione attraverso un sistema di traduzioni tra culture. Un’operazione complessa che potrebbe non rendere fedelmente i significati originali appartenenti appunto a culture eterogenee.

Resta l’universalismo che, filosoficamente parlando, non entra nel merito dei contenuti culturali, non dice chi è meglio, chi ha più ragione, ma si dipana in modo laico al di sopra di territori fisici e politici valorizzando la capacità che dovrebbe essere insita in tutti di comunicare e comprendersi reciprocamente e, soprattutto, di agire costruttivamente anche in presenza di altri che agiscono in modo diverso. Una sorta di lucidità comportamentale basata su alcuni assoluti che ormai avremmo dovuto aver fatto nostri. Una capacità di negoziazione continua che permetta di mettere al centro la cittadinanza come valore assoluto scindendola da ogni altro genere di appartenenza. Un modello appartenente alla migliore tradizione repubblicana. Quella libera da propositi di omogeneizzazione. L’essere cittadino indipendentemente dalla propria estrazione culturale. Una società policulturale laica il cui governo si limiti a un’amministrazione equa e corretta della res publica, senza intrusioni nella vita privata dei cittadini, senza servirsi del privato come arma di distrazione per celare la propria incompetenza.

Sono sempre stata convinta che una global governance intesa come Federazione di Governi che legiferino sui temi fondamentali e comuni, sulla cosa pubblica per intenderci, con equità e lungimiranza, lasciando autonomia sul resto, possa essere la soluzione vincente. Al momento ne stiamo saggiando la versione adulterata. Corrotta, manipolata, contraffatta, manomessa, guastata. Per avidità e fame, a quanto pare inappagabile, di potere. Voglio sperare che sia possibile ancora un cambio di direzione. Lo spero con tutta me stessa.





























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