lunedì 15 aprile 2013

CONFESSIONE

Nel 2005 ho smesso di pensare. Avevo buoni motivi per mettere a riposo il cervello: problemi famigliari, di salute, lavorativi, che da anni si accavallavano a ritmo serrato. Quello che capita un po’a tutti: contingenze spesso gravi che obbligano ad accantonare riflessioni sul senso della propria esistenza. 
Ricordo quando negli anni ’70 e primi ’80, il futuro appariva come una meta fatta di progresso, scoperte, crescita e miglior qualità della vita per tutti. Poi dagli anni ’90 qualcosa è iniziato a mutare in modo talmente macroscopico da non essere quasi percettibile. Come un camuffamento. 
Ho dedicato, per una decina d’anni, tutto il tempo libero a studiare, documentarmi, cercare di capire cosa stava avvenendo, intenzionata a trovare una connessione tra le cose. E il quadro che si delineava man mano era inquietante o, meglio, non convincente. Avevo la netta percezione che qualcosa non quadrasse. 
Che la direzione intrapresa fosse molto distante da ciò che ci si aspettava. 
E poi un surplus di informazioni e uno spazio sempre maggiormente ristretto. La digitalizzazione dell’esistenza, l’induzione di bisogni superflui, l’affermazione di strutture di potere sovranazionali, l’economia sempre più distaccata dal commercio e legata alla finanza, le calamità naturali indotte, le pandemie, gli sfruttamenti, le oppressioni, la manomissione del linguaggio. Troppi imput, troppi dati, il senso di impotenza, la sindrome di TINA. 
E dall’altra parte le difficoltà di gestire la quotidianità: le rate, i mutui, la competitività, la flessibilità, gli imbonimenti, l’hig tech, le vacanze low cost, il credito al consumo, l’immigrazione, le ristrutturazioni aziendali, i black block, la sicurezza, le promesse, gli ogm, le allergie, la sindrome da stanchezza cronica, i tumori, i discount, le tessere fedeltà, le bollette, la baby sitter, gli incentivi auto, le lotterie, le selezioni televisive. Un trattato su ognuno di questi punti, non credete? 
E cosa può fare un misero mortale che debba star dietro a tutto questo? Può solo spegnere il cervello. E  credo che dall’inizio del nuovo millennio lo abbiamo fatto in molti. Per sopravvivenza. O perché, a un certo punto, rinneghi la tua ragione e ti dici che, no, non può essere possibile che le cose stiano così. E ci si convince di essere forse almeno un poco paranoici. 
Correre il rischio di essere derisi o presi per pazzi? No. Meglio l’acquiescenza dell’happy hours e delle offerte negli ipermercati. Le diatribe sul calcio o su destra e sinistra. 

Vi voglio raccontare di un vecchio sogno, anzi di una serie di sogni. Le vicende mutavano ma il denominatore comune c’era. Si trattava sempre di circostanze in cui un gruppo di persone doveva trovare rifugio e proteggersi da dei fantomatici “cattivi” che tenevano sotto il giogo l’intera popolazione mondiale. Li ho sempre chiamati i “sogni di resistenza”. Questi sogni ricorrenti li facevo da bambina, dai 7 agli 11 anni circa. Erano situazioni difficili, angoscianti, incomprensibili. Inspiegabile che si formassero nella testa di una bimba delle elementari. In questi sogni faticavo molto, avevo mansioni di guardia, di organizzazione, di protezione. Ero arrivata al punto, con la mia fervida immaginazione, di credere che fossero sogni premonitori. Poi con la pubertà e l’adolescenza tutto ciò è sparito e nel tempo dimenticato. 
Ora, però, vedo segni inequivocabili: quei sogni si sono avverati. E non posso fare finta di nulla. Non posso tradire l’animo cavalleresco dell’infanzia. Non sono qui per raccontare delle verità, non ho certezze da trasmettere, ma so che la conoscenza rende liberi, per cui sono qui a raccontare cosa vedo, cosa ho capito, a chiedere cosa ne pensate, per capire ancora meglio, e a chiedere cosa vedete voi. 
Ognuno di noi ha il dovere di mettersi in gioco per il bene comune condividendo con onestà gli esiti della propria esperienza, perché è solo dal confronto che si ha crescita. 


Pensava che avrebbe attraversato mari e terre, che avrebbe conosciuto genti e persone e compiuto imprese straordinarie e ardimentose. Ora sapeva che, invece, l’opera totale e più strenua della sua vita sarebbe stata non piegarsi. 

settembre 2006

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