Trascrivo
qui di seguito gli appunti di stamane mentre ascolto Radio3. Ospite di
Fahrenheit il grande Luis Sèpulveda. Quando si dice le coincidenze.
Mi chiedo se si tratti di ansia da
prestazione, di dispersiva gestione del tempo, o di banale perdita di
interesse. So solo che negli ultimi quattro anni decine e decine e decine di
ore sono andate smarrite, intrappolate nella rete, e che ne voglio uscire.
È una
riflessione cui giungo considerando varie situazioni. Ad esempio il lavoro: a
parità di cose da fare e di risultati, il tempo
necessario è superiore al passato, e l’incremento, a parte le ore in più
dovute all’abbassamento della paga oraria, va sotto la voce “contatti”.
L’avvento della posta mail all’epoca ci è parso una gran facilitazione e lo è stato: si controllava ed evadeva la posta
una volta al giorno e tutto procedeva fluidamente, allegati e compagnia bella.
Oggi invece per non risultare inefficienti bisogna rispondere entro mezz’ora al
massimo e stare sempre sul pezzo. L’esito non è conseguentemente migliore. Né
quantitativamente né qualitativamente, solo, non sempre, più rapido. E quindi
bisogna stare sempre con il telefono sotto agli occhi. Mediamente, a manciate
di secondi, buttiamo lì più di un’ora al giorno solo per controllare che non ci
sia sfuggita qualche notifica. Pare proprio che la promessa di agevolare la
vita nei vari suoi aspetti e permettere di godere di maggior tempo libero sia
stata disattesa. Peccato.
Ho sempre
creduto che il problema non sia mai il mezzo ma chi lo utilizza e come, ma
inizio a ricredermi. Forse abbiamo sottostimato la forza dirompente di una
virtualità introdotta sotto spinta in ogni ambito della nostra quotidianità.
Ognuno di noi può facilmente verificare i cambiamenti avvenuti nella propria
persona, fisici, psicologici, comportamentali.
Io per prima ho
ceduto alla lusinga dell’interconnessione. Ho aperto questo blog i cui post girano
dopo ventiquattr’ore su Twitter, e su Twitter tra chi seguo e chi mi segue, si
trova sempre qualcosa di interessante da leggere e da condividere (soffro per
questo meraviglioso verbo che se va in giro a capo chino, svilito, con aria
rassegnata), ma che genere di condivisione è se l’unico risultato cui porta è
che sempre più individui trascorrono sempre più tempo davanti a uno schermo?
Negli ultimi
mesi ho avuto una media di 400, 500 lettori mensili del blog (Chi sono?
Leggono? Ci finiscono per caso?), e mi sorprendo a voler mantenere almeno tale
media, pena la perdita di quel minimo di visibilità che, oltre agli intenti
idealistici per cui il blog è nato, potrebbe tornare utile per un paio di progetti
che ho in testa. Ma sto impazzendo? Come posso credere che possa servire a
qualcosa. La tentazione però è forte. Chi è già che diceva negli anni sessanta
che in futuro ogni persona avrebbe avuto i propri quindici minuti di fama?
Stavo riflettendo su quante volte ho
pensato di scrivere alle persone note che stimo e che, secondo me, hanno dato e
danno un contributo positivo all’andamento delle vicende umane. Difficile però
raggiungerle, trovarne un recapito. Lo scopo del contatto, chiederete, quale
dovrebbe essere? Espressione di gratitudine e scambio di opinioni su tematiche
di interesse comune. Grosso modo questo. Nella vita sono stata fortunata e ho
avuto modo di abbracciare Vandana Shiva, di avere uno scambio epistolare con
Susan George, di regalare un libro a Marco Paolini. Mi piacerebbe stringere le
mani a Paul Watson e dirgli grazie, solo questo, grazie. Mi piacerebbe parlare
di resistenza e di rivoluzione con Luis Sepùlveda davanti a un buon vino e
fargli una domanda che da un po’ mi ronza nella testa. Ecco, ora su twitter,
potrei contattarlo: incredibilmente risulta nell’elenco di coloro che mi
seguono. Basterebbe una chiocciola ma non l’ho mai digitata né lo farò (forse oggi, giusto per segnalargli questa pagina). Non è
il mio modo, non è sufficiente, non è empatico. Sento maggior vicinanza nel
sentire la sua voce in diretta mentre trascrivo questi appunti. Se un giorno lo
incontrerò, lo guarderò negli occhi e gli proporrò un caffè. Nel frattempo
guarderò negli occhi le altre persone che incontro.
Oggi un recente
movimento di pensiero cresciuto tra intellettuali e studiosi nei vari settori
sta teorizzando e mettendo in pratica la disconnessione come dotazione
fondamentale per poter interpretare la realtà presente e futura in modo il più
possibile oggettivo o, perlomeno, più completo. Google è talmente presente
nelle nostre vite, risponde a ogni nostro quesito, che dimentichiamo che esiste
una realtà più ampia di quella in esso contenuta. Anziché ampliarlo, ha
ristretto il nostro mondo e conseguentemente il nostro margine di azione
mentale. Al punto da farci ritenere superflue esperienza e verifiche dirette.
Facciamo atto di fede ventiquattro ore al giorno aderendo a una visione se non
necessariamente falsa, di certo monca.
Forse per fare
qualcosa di buono è semplicemente più utile andare per strada.
7 novembre 2016
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