sabato 13 luglio 2024

IL GATTO NERO

 

È diventato un gatto nero bello grosso. Quasi ingombrante. Anzi proprio un gatto mammone pronto a gettarsi sulle nostre anime tremolanti e colpevoli. Giusto che sia così. Perché ognuno di noi singolarmente è responsabile. Colpevole forse è eccessivo anche se, visto che le colpe esistono, ogni tanto bisognerebbe farsene carico.

Sui social sono state dette, o urlate, tante cose ed è così vasta la gamma di commenti che riproporli uno via l’altro creerebbe solo ulteriore confusione sulla faccenda. Sommariamente le posizioni si possono raggruppare in tre schieramenti principali. Il primo conta coloro che sono rimasti sconvolti, addolorati, increduli. Il secondo raggruppa gli arrabbiati, i furiosi, i linciatori, gli occhio per occhio dente per dente. Il terzo gli indulgenti, quelli che minimizzano, quelli che ci sono cose ben più gravi, quelli che i nomi non vanno fatti, quelli che sono solo minorenni. Posizioni contrastanti espresse inesorabilmente insultandosi, in un crescendo di denigrazione reciproca tra utenti di tastiere che dimostra di che pasta siamo fatti e di quanto la crescente incapacità umana di fare il punto collaborando nel confronto sia ormai irreversibile. In particolare, devo ammettere, mi urtano quelli che, esemplificando, dicono “Ma con tutte le atrocità che vivono milioni di bambini nel mondo stiamo a fare una questione di Stato per un gattino?” Quella logica ferrea che presuppone che se uno manifesta una reazione riguardo a un fatto significa che di altri fatti se ne sbatta. E, per inciso, ci tengo a sottolineare che nel caso specifico del gattino m’importa relativamente. Non è il focus delle mie riflessioni ma un semplice punto di partenza e se non fosse stato per le tonnellate di cattiverie che sono venute fuori probabilmente non avrei scritto una riga in merito.

Comunque, tornando alle varie posizioni, secondo me hanno tutti ragione e tutti torto. Nel senso che a caldo ciascuna posizione ha una sua legittimità ma ciò che ha determinato il lancio dell’ormai famoso gattino nero è un insieme di cause interconnesse e complesse.

Sto cercando in questi giorni di mettere giù le basi per un pezzo su intelligenza artificiale, algoritmi, tecnologie virtuali e vorrei evitare di ripetermi qui ma indubbiamente una correlazione con quanto accaduto c’è ed è a essa che vorrei limitarmi con due considerazioni.

La sperimentazione dell’esistenza delle nuove generazione avviene per lo più attraverso mezzi tecnologici (al momento direi in massima percentuale attraverso un unico mezzo tecnologico) che propongono una versione della realtà non adesa alla materia. I sensi sì sono coinvolti ma le esperienze possono essere riprodotte all’infinito. Game over significa conclusione temporanea. Tutto è ripetibile finché si ottengono il risultato e il punteggio ambiti. Si muore e si resuscita. Si uccide ma non davvero. Il sangue è fatto di pixel, la carne maciullata anche. Questa la prima considerazione. Ed è, specifico per non venire immediatamente tacciata di essere antica, una considerazione fatta da una cinquantottenne mezza nerd priva di pregiudizi nei confronti del mondo virtuale e amante delle tecnologie. La differenza è che io, come molti altri, sia per età che per formazione, possiedo un retroterra o, per farmi capire, un background di esperienze e studi tale che non ho alcun problema a distinguere fruizione attiva da fruizione passiva e, soprattutto, virtuale da reale. Tralascio qui le infinite e filosofiche riflessioni su cosa sia o possa essere la realtà. Restando terra terra, mi limito a dire che personalmente sono in grado di distinguere tra un’uccisione o un danno reali e analoghi virtuali. L’imprinting fortissimo cui invece sono sottoposti i giovani a partire da un’età sempre più prossima alla primissima infanzia è qualcosa della cui portata non siamo ancora ben consci. Riuscire a esserlo è un lavoro. Una conoscenza approfondita delle nuove tecnologie e della loro progressiva e rapida evoluzione comporta tempo e studio e lo stile di vita della maggior parte di noi non consente di stare al passo della questione con aggiornata cognizione di causa, per cui è normale e scusabile il nostro sottovalutare. La realtà, però, per le nuove generazioni è quella roba lì che si vede negli schermi. Quando lo sguardo si allontana da essi quello che si trovano di fronte queste creature prive di strumenti di analisi e critica non è altro che un’estensione un poco bizzarra del loro mondo abituale. Il gattino è vivo, è morto, è vivo, è morto, chi lo sa? Insomma una riedizione riduttiva e triste del gatto di Schrödinger. Scagliarlo da un parapetto per vedere l’effetto che fa è un atto normale. Non è uccidere veramente. Lo si capisce dai commenti in cui i ragazzi si giustificano. “A immaginare prima tutta la bagarre che è seguita al nostro atto non lo avremmo fatto!”. Il problema è la bagarre, non l’atto compiuto. Per questo mi rifiuto di attribuire loro una colpa. Certo che viene voglia di prenderli a sberloni e insegnargli a stare al mondo, forse però è proprio nell’insegnare a stare al mondo che siamo stati latitanti. Con buona pace di chi avanzerà obiezioni del tutto legittime su necessità famigliari, orari di lavoro, complessità e logorio della vita moderna, di fatto abbiamo delegato. Giustificati. Costretti. Ma l’abbiamo fatto. Si è iniziato con il delegare ai nonni, poi alla televisione, ora agli smartphone. Riguardo i nonni, visto che ho ricevuto critiche dure in merito, vorrei spiegare che un conto è che l’affidare avvenga in un contesto di famiglia tradizionale, potremmo dire di impostazione contadina, in cui convivono varie generazioni e nell’arco delle ore lavorative i compiti di cura vengono lasciati a chi è più anziano e non lavora più ma è ancora in grado di provvedere alle mansioni domestiche o comunque di trasmettere insegnamenti, un conto è quando ciò avviene in una società in cui ognuno vive a casa propria e i nonni devono farsi perdonare del peso sociale che rappresentano facendo risparmiare sulla baby sitter. Sto ampiamente generalizzando, è ovvio, ma percentualmente la sostanza è questa. Comunque sia, esiste una responsabilità collettiva che risale indietro di qualche generazione. Anzi, una mancanza di assunzione di responsabilità cui appunto di generazione in generazione a succedersi si può sempre meno attribuire colpa proprio perché si sono esponenzialmente ridotti un passo alla volta gli strumenti mentali dei futuri genitori. Infatti una delle domande oggi è: che genitori riusciranno mai a essere queste povere creature? Perché questo sono. Povere creature. Povere perché li abbiamo impoveriti, gli abbiamo sottratto la capacità di comprendere, di analizzare e dunque interagire criticamente con l’ambiente in cui stanno crescendo. Un ambiente in velocissima evoluzione. Non sto dicendo che i giovani siano inetti, incapaci, stupidi. Sto dicendo che nemmeno noi “adulti” abbiamo gli strumenti per gestire tale velocità, gli stessi insegnanti non hanno, e non possono avere per motivi di tempo e programmi ministeriali da rispettare, la formazione adeguata per farlo, quindi come possiamo aspettarci che degli adolescenti possano gestire tali enormi e pesanti cambiamenti in modo ineccepibile? Possono solo lasciarsi andare al flusso della corrente, immergersi in quello che incontrano durante la loro crescita ritenendo a buon diritto che la vita sia quello che incontrano. Ogni generazione ha fatto così. E parliamo di una generazione che ha comunque percepito benissimo di avere di fronte un futuro di merda. Senza tirare in ballo il discorso green che sennò apro una parentesi di pagine dal tono bellicoso nei confronto di tutti quanti, green e no green, è indubbio che questi ragazzi si ritroveranno adulti a dover pagare per l’aria che respirano. Pieni di debiti a babbo morto, senza prospettive degne, già abituati al degrado dove ti giri ti giri.

Per la seconda considerazione mi rifaccio alle “challenges”, alle sfide riportate sempre più frequentemente dalla cronaca e comunque sempre in misura da punta dell’iceberg. In tutte le modalità declinabili. Che siano repliche di fight club con appuntamenti di gruppo per menarsi come se non ci fosse un domani, o imprese individuali sconsiderate come stare attaccato esternamente al vagone di un treno in corsa alla caccia di likes, o ancora torturare se stessi, torturarsi reciprocamente, torturare animali, tutte quante esse si verificano a mio avviso per tre motivi principali: la noia o meglio l’assenza di stimoli che producano entusiasmo e voglia di realizzare qualcosa di bello e importante (e come non capire tale stato d’animo?), l’identificazione del proprio esistere con il numero di “mi piace” perché quello è il metro di autoriconoscimento esistenziale che gli abbiamo lasciato in eredità, e, non ultima, la curiosità di trasporre “fuori” (nel mondo dei vecchi) le esperienze provate “dentro” nel mondo reale in cui vivono loro, i giovani per vedere, come scrivevo sopra, l’effetto che fa.

Dunque sì, hanno compiuto un gesto grave, non si discute, ma sono portatori delle colpe dei padri e, non lo sanno, ma stanno già scontando la pena. E fine pena mai.

Esistono certo isole felici, enclavi sociali in cui una minoranza di essi può godere di buoni insegnamenti, di esperienze formative decenti, di relazioni umane esemplari, e ciò non necessariamente legato all’appartenenza a una classe sociale benestante o ricca, ma tali realtà non possono rappresentare la media da cui è necessario partire per un’analisi verosimile.

Per concludere.

Giusto l’altro ieri sono riuscita finalmente a concedermi una nuotata. A pochi metri da me erano sdraiate due ragazze fotocopia che ascoltavano brani di musica per me inascoltabili (ma non voglio entrare nel merito dei gusti musicali di ognuno, ci mancherebbe) cantandone i testi senza sbagliare una parola. Confesso di non aver recepito una frase di senso compiuto ma anche questo è marginale. O almeno spero lo sia, considerato il recente racconto di una madre che ha accompagnato la figlia quindicenne a un concerto e sotto il palco un’orda di ragazze pettinate, truccate e agghindate uguali inneggiava pollici in su il cantante che urlava che le donne sono buone solo per fare pompini o per essere stuprate. Tornando alle due ragazze in spiaggia, cantavano e, sempre sdraiate, ballavano con le mani (come ho visto fare da una influencer di cui non ricordo il nome) riproducendo una sequenza di gesti in alcuni passaggi allusivi e volgari, il tutto filmandosi soddisfatte. Unghie lunghissime, french manicure (si dice ancora così?) elaborate e anelli su ogni dito. Dopo una mezz’ora di esibizioni hanno spento la musica soddisfatte e si sono messe a chiacchierare ridendo a ogni frase. Ne ho colte due a qualche minuto una dall’altra.

Ma secondo te le unghie vanno ancora bene per i video o sono già antiquate? Le abbiamo fatte dieci giorni fa, dovremmo controllare su tiktok prima di mettere online!”

...

Comunque adesso cosa facciamo? È tutto una noia. Sai cosa dovremmo fare? Hai visto quanto parlano di ‘sta storia del gattino di merda? Stasera parliamo con i ragazzi. Dovremmo farlo anche qui. Un gattino da qualche parte lo troviamo ma dobbiamo lanciarlo da un posto più figo, eh, cosa ne dici?”


Amen.


p.s. Hanno osservato che l’atteggiamento delle due ragazze rappresenta la trasgressione tipica degli adolescenti quando sono liberi dal controllo genitoriale o scolastico. Stupidate da vacanza per farsi notare e fingere di essere grandi. Mi permetto di dissentire. Sì, le motivazioni di partenza sono sempre le stesse e le “trasgressioni” raramente sono esenti da conseguenze ma le modalità odierne sono tristi e inquietanti. Forse perché più che trasgressioni sono atteggiamenti in odore di omologazione inconsapevole. Ne siamo vittima noi grandi, figuriamoci loro. Spero di sbagliare.


venerdì 10 novembre 2023

ARGOMENTI LEGGERI IN TEMPI PESANTI

 

Negli ultimi due giorni mia madre ed io abbiamo visto due film al cinema. Erano anni che non lo facevamo. Abbiamo visto C’è ancora domani della e con la Cortellesi e Comandante con Favino come interprete principale e un bel cast di bravi attori. Purtroppo è abitudine nominare sempre il più noto e mi attengo qui anche io a tale abitudine perché non di questo voglio scrivere ma dei commenti all’uscita dal cinema.


C’è ancora domani

- Filmetto

- Bello eh, ma mi aspettavo di più

- Non ho capito perché il balletto mentre la menava

- Se gli togli il bianco e nero perde quasi tutto, furba la Cortellesi, se lo faceva a colori vedi che non era granché.


Di seguito i pensieri in risposta che ho tenuto diplomaticamente per me.


- Filmetto virgola. Sorbiamo quotidianamente spazzatura in formato video senza battere ciglio e ora facciamo gli schizzinosi per un film, comunque sia, ben fatto? Magari non diventerà un cult nella storia del cinema ma perché negare di esserselo goduto dall’inizio alla fine?

- Ti aspettavi di più cosa? Capita di restare delusi da un film ma in questo caso direi che le aspettative suscitate durante la promozione sono state soddisfatte. Alle volte certi commenti mi paiono fine a se stessi, giusto per dire qualcosa.

- Il balletto mentre la menava un’intelligente e provocatoria delicatezza della Cortellesi. Non vediamo sufficiente violenza e sangue? E, se non ad assuefarci, serve? Non pare proprio.

- Furba… ha fatto bene il suo lavoro e infatti ha scelto il bianco e nero.


Comandante

- Eh, ma Favino è un piacione.

- Ma, ti dirò, il film non era per niente realistico, sembrava teatro, poco credibile. O fai un film o fai teatro.

- Non c’era tutta questa azione.

- L’aereo abbattuto era fatto con il computer, non era vero.

- Però Favino con ’sto dialetto e il modo come parlava a me mi ricordava qualcuno.


Dunque.


-Vero, Favino è un piacione, non si discute ma direi che se lo può permettere: gioca sui primi piani e funziona con la faccia che si ritrova. Grave sarebbe se puntasse solo su quello e i personaggi che interpreta fossero tutti uguali, cosa che non è. Direi che ha dato prova di essere bravino e se gli va di fare il piacione, buon pro gli faccia.

- Certo che sembra teatro. È un film teatrale. Volutamente. Ed è questa scelta che ha permesso di fare un film nuovo su temi già trattati. Esiste proprio una filmografia di genere. Il primo che mi viene in mente… Dogville con la Kidman, poi Carnage di Polanski, La parola ai giurati con Henry Fonda…

- E sì, se non ci sono casino e velocità non c’è azione. Ci hanno proprio rovinati!

- E meno male!

- E certo che ricorda qualcuno. Si è sicuramente ispirato a Paolini. E prima che qualcuno dica Ha copiato, dico Ha reso omaggio a un maestro.


Ho buttato giù di getto queste righe per vedere se sono ancora capace di scrivere. Infatti se già da tempo mi risultava difficile, da oltre un anno mi risulta impossibile.

lunedì 6 marzo 2023

INSETTI


Ci considerano così inferiori che non si scomodano nemmeno a tenerci nascosti i loro piani… Non occorre certo nascondere l’insetticida alla vista delle bestioline, no? Un brindisi agli insetti!”

Mi è venuto in mente questo passaggio tratto dal primo volume della trilogia di Cixin Liu¹ ieri durante la conferenza “Gli invisibili” dedicata a quanti hanno subito effetti avversi per lo più non reversibili a seguito della cosiddetta profilassi vaccinale anti Covid. Non intendo entrare qui nel merito della questione si vax versus no vax per due motivi. Troppo lungo, complesso e fuori tema rispetto a quanto vorrei qui esprimere. Secondo si tratta di un’impostazione manichea della questione e gran parte del problema sta proprio in tale impostazione. Mi limito a dire che la mia formazione filosofica nonché quella minima dose di buon senso che guida, o dovrebbe, ognuno di noi, m’impongono di rifiutare qualsiasi atteggiamento dogmatico e autoritario in ambito scientifico. Credo irrevocabilmente nell’umiltà e nell’esercizio metodico del dubbio.

Detto questo torniamo agli insetti che peraltro adoro. Vivi. La maggior parte delle persone nei loro confronti prova invece un senso di repulsione, repulsione che ha radici nella paura atavica del totalmente diverso e lontano da sé e della malattia che l’insetto può diffondere (come d’altronde ogni altro essere vivente). Nel linguaggio comune sono utilizzati per esprimere sentimenti di disprezzo e superiorità. Schiacciare qualcuno come un insetto. Valere meno di un insetto. Fare schifo come un insetto. Insomma, gli insetti rappresentano ciò che non è degno di considerazione. Per traslato nella mente di chi ambisce al dominio la massa di Canetti diviene sciame, moltitudine immensa di esseri minuscoli da facilmente sovrastare e annientare. Esseri cui si può appunto impunemente mostrare la bomboletta d’insetticida senza che abbiano contezza di ciò che li attende. Proprio questa della bomboletta in bella vista l’immagine richiamata alla mia mente da un intervento del mediatore della conferenza il quale, riguardo all’errata interpretazione da parte di molti, e soprattutto di molti addetti ai lavori, della sentenza della Consulta in merito alla liceità dell’obbligo vaccinale per i sanitari, ha commentato “e pensare che sono laureati”. Purtroppo è così. La libertà è nello studio ma una laurea non garantisce la capacità di comprendere quanto si studia, processo prerogativa dell’intelligenza. Intelligenza che è saper leggere in mezzo ai dati a disposizione, saper quindi distinguere, cogliere e scegliere ciò che ha valore all’interno di un contesto dato, sempre umilmente consapevoli di quanto la soggettività dell’osservazione/analisi personale infici l’oggettività della conclusione. La realtà però è che si sta corrompendo fino a livelli inquietanti la capacità di comprendere un testo anche in coloro che riescono a leggerlo per intero e non si limitano alle prime righe. Nella nostra società accelerata, lasciando perdere la saggistica, chi ancora si avvicina alla carta stampata per informarsi, scorre occhielli, titoli, sommari, catenacci, legge a zeta, e, se è scrupoloso, dà una scorsa grossolana a qualche paragrafo di premesse nel testi fonte di riferimento. Se grosso modo tutto combacia allora è sufficiente a confermare quanto gridato da media e leader marionetta. A maggior ragione poi ci si ritiene al cospetto di una prova provata se la maggioranza conviene su un significato o una conclusione. Quindi ci si accoda sollevati con buona pace dello spirito critico. Basta vedere la leggerezza con cui si condividono articoli e studi a sostegno di una tesi senza accorgersi che gli articoli e gli studi in questione sostengono esattamente la tesi opposta a quella che si vuole perorare. Il solito vecchio discorso. Impoverisci il lessico e impoverisci il pensiero. Impoverito il pensiero ottieni il consenso. Soprattutto se condisci il tutto con una baraonda di rumore e immagini che spacci per accesso diffuso all’informazione. Come si dice, hanno fatto un buon lavoro. Infatti la maggioranza delle persone non è quasi più in grado di leggere un testo per intero, deficit di attenzione si chiama, e, ancora più grave, non è interessata a leggerlo un testo se non ha a che fare con un immediato utilizzo legato alla propria quotidianità. Di nuovo Cixin Liu, all’inizio del secondo volume: “ ...Zhang Yuanchao, invece, conosceva il nome dell’attuale presidente ma non aveva idea di chi fosse il premier. Questo, in realtà, era motivo d’orgoglio per lui. Viveva l’esistenza equilibrata di un cittadino comune, sosteneva, e non voleva darsi peso per tali sciocchezze. Non lo riguardavano, e ignorarle gli permetteva di risparmiarsi parecchie emicranie. Yang Jinwen invece si interessava di affari di Stato e si imponeva di guardare i notiziari tutte le sere; diventava paonazzo a furia di bisticciare con altri utenti online, discutendo di politica economica nazionale, o della tendenza globale all’aumento di risorse nucleari, e a che scopo? Il governo non gli aveva aumentato la pensione neanche di un centesimo. Ma quello ribatteva: «Sei ridicolo. Credi che non sia importante? Che non abbia nulla a che fare con te? Ascoltami, Lao Zahng. Ogni questione nazionale e internazionale, ogni politica di rilievo e ogni decisione dell’ONU influenzano la tua vita, sia in modo diretto che indiretto. Credi che l’invasione americana del Venezuela non ti riguardi? Io dico che avrà non poche ripercussioni a lungo termine sulla tua pensione.» Quella volta Zhang derise lo strampalato sfogo di Lao Yang ma ora sapeva che il vicino di casa aveva ragione”. E ancora più avanti: “ ...«Perché io?» «Questo dovrà scoprirlo da solo.» rispose Say «Sono solo un uomo normale.» «Di fronte alla crisi lo siamo tutti. Ma ognuno ha le proprie responsabilità» «Nessuno mi ha interpellato, prima. Ero all’oscuro di tutto.» Say rise di nuovo”

Per questo ormai radicato e diffuso modo di essere, questo ostinato non voler sapere ed essere appagati da quanto offrono le cosiddette armi di distrazione di massa, alcuni individui non si fanno scrupolo di considerarci e trattarci come insetti mettendoci sotto il naso qualsiasi nefandezza certi della nostra condiscendenza inerte e cieca. I pochi che ancora vedono e intendono non sono altro che una minoranza di insetti solo un po’ più tenaci ma non ci sarà da preoccuparsi né da sporcarsi le mani. Ci penserà lo sciame più grande, ad avere la meglio soffocandola questa fastidiosa minoranza. Ci riuscirà, come riporta correttamente Francesca Capelli in Wargasms², perché la maggioranza sarà ormai definitivamente persuasa e vinta dall’uso massivo di tecniche che semplificano arbitrariamente i problemi, identificano un nemico unico/capro espiatorio di volta in volta funzionale alla bisogna, utilizzano l’unanimità come deterrente, ripetono sistematicamente un concetto finché non viene percepito quasi come valore assoluto, persuadono gradualmente trasformando un’idea da impensabile e ignobile, a radicale, poi accettabile, fino a farla diventare addirittura ragionevole, se non addirittura etica, travolgono di informazioni a tal punto da rendere impossibile selezione e conoscenza, potendo quindi arrivare ad affermare tutto e il contrario di tutto senza che si batta ciglio. La sospensione dell’incredulità come modus vivendi ottimale del suddito. E poi screditare, denigrare, accusare, silenziare.

Ma non dimentichiamo che proprio gli organismi più piccoli e semplici, batteri, virus, in questo caso gli insetti, insegnano che chi sopravvive ai veleni trasmette caratteri di resistenza.


¹ Come, in modo eccellente, accadde con il Ciclo delle Fondazioni di Asimov, la trilogia di Cixin Liu (Il problema dei tre corpi, La materia del cosmo, La quarta dimensione) dimostra che la fantascienza può e continua a rappresentare un’eccellente strategia comunicativa. Descrive in modo puntale e critico il presente che osserva e analizza proiettandone il racconto in un futuro immaginato senza incorrere nel rischio di censura.


² “Wargasms - Orgasmi di guerra. Come la comunicazione pandemica ci ha insegnato ad amare l’emergenza ” il breve saggio della giornalista Francesca Capelli, edito da Transeuropa edizioni, è un testo equilibrato e di facile approccio. Il racconto incontrovertibile di quanto accaduto nei primi due anni di pandemia, un valido sguardo d’insieme ricco di spunti su cui riflettere con onestà.






SOPRAVVISSUTI

Ci si incontra, gli uni agli occhi degli altri, quali sopravvissuti. Sopravvissuti a oltre due anni abbondanti di pandemia. O di quello che è stato. Non m’importa entrare nel merito.

Ci si saluta sorridendo con malcelata diffidenza. Ci sei. Ci sei ancora. Come hai fatto? Come hai vissuto? Ti è morto qualcuno? La vita la vedi come prima? Quante dosi hai fatto? In sintesi: chi sei?

No, queste domande non si fanno. Si tacciono. Le risposte potrebbero destabilizzare. Questione di equilibrio personale e equilibri sociali. Equilibrismo. Equilibrismi.

Pare che le emozioni, determinate emozioni più che altre, abbiano preso il sopravvento nel nostro vivere quotidiano, che il senso profondo di comunità sia venuto meno, che tutto quanto costruisce la responsabilità di un individuo nei confronti di se stesso e pertanto della collettività sia stato sostituito da un surrogato di più agevole gestione. Ho fatto il mio dovere quindi sono in regola e nessuno può venire a dirmi nulla. Ho rispettato le regole per proteggere me stesso e per proteggere il prossimo. Chi non lo ha fatto non merita nulla, men che meno essere ascoltato. E se schiatta se l’è cercata. Da una parte. Dall’altra, non ho rispettato le regole per proteggere me stesso e per proteggere il prossimo. Chi non ha fatto come me non merita nulla, men che meno essere ascoltato. E se schiatta se l’è cercata.

Poi, ovviamente e per fortuna di tutti quanti, ci sono virtuose eccezioni.

Macroscopicamente però prevalgono le urgenze individuali, atti e manifestazioni del proprio io portati all’estremo, fino all’esasperazione, fino alla patologia. La convinzione che le proprie ragioni siano le uniche vere ragioni non risparmia pressoché nessuno. Da ciò, lo scontro, la deriva, l’autodistruzione. Ciò che stiamo vivendo in questa stagione malata è il crescente affermarsi delle singole individualità, una maggiore competitività, una minore disponibilità al dialogo e alla solidarietà. Mi spiego. È dell’animo umano l’essere individualista, competitivo e poco incline al dialogo e alla solidarietà, nulla di nuovo, ma quello che si percepisce è che sotteso a queste caratteristiche ci sia un sentimento di paura. Non quella comprensibile paura della morte cui si possono ricondurre grosso modo tutte le paure esistenziali, la non accettazione del proprio tempo a termine dovuto a un distacco culturale dallo stato di natura, ma una paura risultato di tante piccole paure mi vien da dire banali, mediocri. La paura di distinguersi, di non sentirsi omologato, di doversi spiegare, di non poter partecipare a riti collettivi rassicuranti, di doversi impegnare a comprendere cose nuove.

Quindi si torna al cinema, si torna a organizzare cene, si riprende l’abitudine dell’aperitivo. Ma non è più andare al cinema come prima, non sono più le cene di una volta. Non si va a fare con entusiasmo la spesa per dedicarsi con amore ai fornelli in attesa degli amici. Sa tutto di posticcio. Si fa perché rassicura sul fatto di essere ritornati al mondo come lo si conosceva. Fa piacere ma è un piacere corrotto da una sensazione indefinibile che si preferisce ignorare. Dissimulando il più possibile disagio e dubbi, ci si guarda intorno un po’ spaesati ma velocemente ci si conforta e tranquillizza perché gli altri ci appaiono tranquilli, rilassati, di buon umore.

Ma una confezione di pasta è e non è più una confezione di pasta. Una maniglia è e non è più una maniglia. Un autobus, una panchina, un bacio. Tutto è e non è più come prima. La valutazione del rischio contamina ogni aspetto della nostra vita. Tutta l’energia mentale viene impiegata per cercare di bilanciare il timore del contagio e la tentazione di mantenere le distanze da una parte, e il timore di ritrovarsi esclusi e isolati dall’altra. Prontamente arriva un pensiero a salvarci dall’impasse. Abbiamo tutti sicuramente, almeno noi che siamo qui in questo momento insieme, fatto la cosa giusta, infatti il problema è stato risolto. Stiamo bene e siamo di nuovo qua a divertirci liberi e di buon umore. Lo sforzo per abbandonarsi a tale certezza è però, a livello inconscio, comunque tale da non lasciare più energie per valutare tutto il resto che ci circonda. Perché non stiamo così bene, non siamo così liberi, e il buon umore è piuttosto raffazzonato.

E allora ci si abbraccia, ci si bacia, ci si rincuora reciprocamente per lo scampato pericolo, ma si tace. Non ci si dice per quale via personale si è tornati all’abbraccio e al contatto e, soprattutto, non si vuole sapere per quale via c’è tornato il prossimo di fronte a noi. Si preferisce restare in una personale bolla mentale in cui si ripete e rimbomba la certezza che la via sia stata la medesima. Guai a scoprire che non è stato così. Quindi si raccontano episodi, accadimenti, malattie, lutti, tutto senza entrare nel merito del cosa è accaduto, del cosa sta ancora accadendo. L’importante è essere sopravvissuti e continuare a sopravvivere. A vivere abbiamo rinunciato.


Settembre 2022


SILENZIO

 

Mi ostino, quando salute e circostanze lo consentono, a voler raccontare con la scrittura quanto osservo e quanto deduco dall’osservazione. Sento però crescere da diverso tempo e con un’urgenza sempre più intensa la tentazione di tacere. Tacere con la voce, tacere con la scrittura. Mi avvicino alla pagina, cartacea o digitale che sia, la mia penna si blocca sul foglio, le mie dita esitano sulla tastiera. L’anima si rifiuta di rincorrere e riproporre parole già dette, pensieri da molti ben prima e meglio di me espressi. Parole che si ripetono nel vuoto e non portano a nulla se non alla frustrante conferma della loro inefficacia, né sa trovare l’anima parole adeguate che possano sostituire parole consumate e moribonde, trovare parole vitali e forti da affiancare a sostegno di quelle ferite. Tacere e forse anche non ascoltare. Come se il silenzio fosse divenuto una necessità fisiologica. Un bisogno di silenzio che diventa desiderio di silenzio. Volontà di silenzio. Sfuggire alla cacofonia del mondo, imbavagliare una buona volta il linguaggio della menzogna, i deliri delle parole urlate, parole insolenti che offendono e sovrastano senza pietà chi non ha o non ha più strumenti di difesa. È forse una resa, questo bisogno di tacere, questa fame di silenzio, proprio quando le parole, e per mezzo di esse il pensiero, sembrano più urgenti che mai? Una resa di fronte alla sconfitta dell’intelletto e dello spirito critico questo decidere di tacere perché tutto è ormai solo profondamente insensato? Forse. Forse sì. Quando lo scoramento ci cavalca fino a sfiancarci. Ma tacere può anche essere un muro, una palizzata, uno sbarramento, una linea di confine invalicabile, l’unico confine che abbia un senso, quello da ergere contro l’imbecillità, l’ipocrisia, l’arroganza, lo stupro, la violenza, l’indifferenza, la superficialità. Ma dev’essere un tacere compatto, un tacere in piedi, un tacere a testa alta. Quindi no, non è una resa ma la disperata speranza di arrivare a una vittoria potente spiazzando il nemico. Perché intanto le parole, anche le migliori, le più oneste, le più sagge, le vediamo, rimbalzano inesorabilmente indietro, derise da queste anime recalcitranti e indolenti, da queste anime annoiate e sorde. Parole sprecate. Da non pronunciarle più finché infine nel silenzio ritrovato anche solo sussurrate possano risuonare nuovamente vive. Perché un pensiero forte esiste, un pensiero che si fa sotterraneo per poter scorrere a dispetto degli ostacoli e poi tornare alla luce. Perché ciò accada quindi è veramente giunto il momento di tacere? Inizio a credere di sì. Tacere il più a lungo possibile senza essere trascinati nella bagarre del dover urlare più forte. Tacere per creare un silenzio così vigoroso e imponente da permettere alle parole di aprirsi un varco, una minima fessura con qualche briciola di terra in cui mettere radici e ricreare daccapo un linguaggio comune degno di tal nome.

Silenzio perché il tempo rallenti il suo ritmo e tutti si possa tornare a contemplare lo scorrere lento di giorni senza rumore. Per riabituare l’udito all’ascolto del reale.

Silenzio che è spazio per la mente. Spazio anche per tutto il dolore che dilaga, per la crudeltà che ci appartiene, per il senso di impotenza che isola e annienta. Silenzio e spazio per riconoscersi come non unici nel dolore, nella crudeltà sofferta o inflitta, nel senso d’impotenza. Sottrarsi alle parole che gridano, che rimbombano e stordiscono, parole che confondono e impediscono il confronto e appunto scarnificano il linguaggio e rendono i significati lettera morta.

A volte credo che esistano parole non ancora dette, o una formula speciale per pronunciare o scrivere le parole in un ordine preciso e perfetto che le renda miracolosamente potenti, persuasive, risolutive. Nel corso della storia qualcuno le ha scovate formule potenti e persuasive. Ma non erano quelle giuste. Narrazioni e ripetizioni per fini utilitaristici e di supremazia che hanno fatto scuola e oggi sono il linguaggio che assoggetta. Per cui daccapo chi ancora ne è in grado deve ricostruirle le parole. Di nuovo. E di nuovo. E ancora e ancora, come una fatica di Sisifo, finché sarà necessario farlo. Io però voglio per ora solo concentrarmi su questo luce sbieca di sole che taglia in obliquo la scrivania.


Nel romanzo che ho terminato di scrivere questa primavera, ambientato tra il 1923 e il 1943, uno dei personaggi riflette sul destino delle parole.

...Tonia ha adottato la regola di dar nomi nuovi a significati vecchi, perché le pare che i nomi vecchi quei significati li abbiano traditi. Creare parole nuove per esprimere ciò che non ha più parole per essere espresso. Travestirli i significati, travestire le idee, camuffarle, come disgraziati senza documenti per fargli passare un confine. Ogni volta che le sembra il caso arricchisce il proprio personale vocabolario spostando le parole, come dice lei, aggiungendo o sottraendo significati ad esse, quand'anche i sinonimi non siano più sufficienti. È l'unico modo per salvarli i significati, per sottrarli al commercio che se ne sta facendo. Bisogna cambiargli abito così non possono servirsene, non possono rubarli tutti, rapirli, confinarli. Lo fanno con le persone, almeno salvare le parole, riprendersele, quelle che si riesce, ché di sicuro serviranno un giorno ai sopravvissuti a quest'epoca infame.




Ottobre 2022