lunedì 6 marzo 2023

SILENZIO

 

Mi ostino, quando salute e circostanze lo consentono, a voler raccontare con la scrittura quanto osservo e quanto deduco dall’osservazione. Sento però crescere da diverso tempo e con un’urgenza sempre più intensa la tentazione di tacere. Tacere con la voce, tacere con la scrittura. Mi avvicino alla pagina, cartacea o digitale che sia, la mia penna si blocca sul foglio, le mie dita esitano sulla tastiera. L’anima si rifiuta di rincorrere e riproporre parole già dette, pensieri da molti ben prima e meglio di me espressi. Parole che si ripetono nel vuoto e non portano a nulla se non alla frustrante conferma della loro inefficacia, né sa trovare l’anima parole adeguate che possano sostituire parole consumate e moribonde, trovare parole vitali e forti da affiancare a sostegno di quelle ferite. Tacere e forse anche non ascoltare. Come se il silenzio fosse divenuto una necessità fisiologica. Un bisogno di silenzio che diventa desiderio di silenzio. Volontà di silenzio. Sfuggire alla cacofonia del mondo, imbavagliare una buona volta il linguaggio della menzogna, i deliri delle parole urlate, parole insolenti che offendono e sovrastano senza pietà chi non ha o non ha più strumenti di difesa. È forse una resa, questo bisogno di tacere, questa fame di silenzio, proprio quando le parole, e per mezzo di esse il pensiero, sembrano più urgenti che mai? Una resa di fronte alla sconfitta dell’intelletto e dello spirito critico questo decidere di tacere perché tutto è ormai solo profondamente insensato? Forse. Forse sì. Quando lo scoramento ci cavalca fino a sfiancarci. Ma tacere può anche essere un muro, una palizzata, uno sbarramento, una linea di confine invalicabile, l’unico confine che abbia un senso, quello da ergere contro l’imbecillità, l’ipocrisia, l’arroganza, lo stupro, la violenza, l’indifferenza, la superficialità. Ma dev’essere un tacere compatto, un tacere in piedi, un tacere a testa alta. Quindi no, non è una resa ma la disperata speranza di arrivare a una vittoria potente spiazzando il nemico. Perché intanto le parole, anche le migliori, le più oneste, le più sagge, le vediamo, rimbalzano inesorabilmente indietro, derise da queste anime recalcitranti e indolenti, da queste anime annoiate e sorde. Parole sprecate. Da non pronunciarle più finché infine nel silenzio ritrovato anche solo sussurrate possano risuonare nuovamente vive. Perché un pensiero forte esiste, un pensiero che si fa sotterraneo per poter scorrere a dispetto degli ostacoli e poi tornare alla luce. Perché ciò accada quindi è veramente giunto il momento di tacere? Inizio a credere di sì. Tacere il più a lungo possibile senza essere trascinati nella bagarre del dover urlare più forte. Tacere per creare un silenzio così vigoroso e imponente da permettere alle parole di aprirsi un varco, una minima fessura con qualche briciola di terra in cui mettere radici e ricreare daccapo un linguaggio comune degno di tal nome.

Silenzio perché il tempo rallenti il suo ritmo e tutti si possa tornare a contemplare lo scorrere lento di giorni senza rumore. Per riabituare l’udito all’ascolto del reale.

Silenzio che è spazio per la mente. Spazio anche per tutto il dolore che dilaga, per la crudeltà che ci appartiene, per il senso di impotenza che isola e annienta. Silenzio e spazio per riconoscersi come non unici nel dolore, nella crudeltà sofferta o inflitta, nel senso d’impotenza. Sottrarsi alle parole che gridano, che rimbombano e stordiscono, parole che confondono e impediscono il confronto e appunto scarnificano il linguaggio e rendono i significati lettera morta.

A volte credo che esistano parole non ancora dette, o una formula speciale per pronunciare o scrivere le parole in un ordine preciso e perfetto che le renda miracolosamente potenti, persuasive, risolutive. Nel corso della storia qualcuno le ha scovate formule potenti e persuasive. Ma non erano quelle giuste. Narrazioni e ripetizioni per fini utilitaristici e di supremazia che hanno fatto scuola e oggi sono il linguaggio che assoggetta. Per cui daccapo chi ancora ne è in grado deve ricostruirle le parole. Di nuovo. E di nuovo. E ancora e ancora, come una fatica di Sisifo, finché sarà necessario farlo. Io però voglio per ora solo concentrarmi su questo luce sbieca di sole che taglia in obliquo la scrivania.


Nel romanzo che ho terminato di scrivere questa primavera, ambientato tra il 1923 e il 1943, uno dei personaggi riflette sul destino delle parole.

...Tonia ha adottato la regola di dar nomi nuovi a significati vecchi, perché le pare che i nomi vecchi quei significati li abbiano traditi. Creare parole nuove per esprimere ciò che non ha più parole per essere espresso. Travestirli i significati, travestire le idee, camuffarle, come disgraziati senza documenti per fargli passare un confine. Ogni volta che le sembra il caso arricchisce il proprio personale vocabolario spostando le parole, come dice lei, aggiungendo o sottraendo significati ad esse, quand'anche i sinonimi non siano più sufficienti. È l'unico modo per salvarli i significati, per sottrarli al commercio che se ne sta facendo. Bisogna cambiargli abito così non possono servirsene, non possono rubarli tutti, rapirli, confinarli. Lo fanno con le persone, almeno salvare le parole, riprendersele, quelle che si riesce, ché di sicuro serviranno un giorno ai sopravvissuti a quest'epoca infame.




Ottobre 2022

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