lunedì 6 marzo 2023

SILENZIO

 

Mi ostino, quando salute e circostanze lo consentono, a voler raccontare con la scrittura quanto osservo e quanto deduco dall’osservazione. Sento però crescere da diverso tempo e con un’urgenza sempre più intensa la tentazione di tacere. Tacere con la voce, tacere con la scrittura. Mi avvicino alla pagina, cartacea o digitale che sia, la mia penna si blocca sul foglio, le mie dita esitano sulla tastiera. L’anima si rifiuta di rincorrere e riproporre parole già dette, pensieri da molti ben prima e meglio di me espressi. Parole che si ripetono nel vuoto e non portano a nulla se non alla frustrante conferma della loro inefficacia, né sa trovare l’anima parole adeguate che possano sostituire parole consumate e moribonde, trovare parole vitali e forti da affiancare a sostegno di quelle ferite. Tacere e forse anche non ascoltare. Come se il silenzio fosse divenuto una necessità fisiologica. Un bisogno di silenzio che diventa desiderio di silenzio. Volontà di silenzio. Sfuggire alla cacofonia del mondo, imbavagliare una buona volta il linguaggio della menzogna, i deliri delle parole urlate, parole insolenti che offendono e sovrastano senza pietà chi non ha o non ha più strumenti di difesa. È forse una resa, questo bisogno di tacere, questa fame di silenzio, proprio quando le parole, e per mezzo di esse il pensiero, sembrano più urgenti che mai? Una resa di fronte alla sconfitta dell’intelletto e dello spirito critico questo decidere di tacere perché tutto è ormai solo profondamente insensato? Forse. Forse sì. Quando lo scoramento ci cavalca fino a sfiancarci. Ma tacere può anche essere un muro, una palizzata, uno sbarramento, una linea di confine invalicabile, l’unico confine che abbia un senso, quello da ergere contro l’imbecillità, l’ipocrisia, l’arroganza, lo stupro, la violenza, l’indifferenza, la superficialità. Ma dev’essere un tacere compatto, un tacere in piedi, un tacere a testa alta. Quindi no, non è una resa ma la disperata speranza di arrivare a una vittoria potente spiazzando il nemico. Perché intanto le parole, anche le migliori, le più oneste, le più sagge, le vediamo, rimbalzano inesorabilmente indietro, derise da queste anime recalcitranti e indolenti, da queste anime annoiate e sorde. Parole sprecate. Da non pronunciarle più finché infine nel silenzio ritrovato anche solo sussurrate possano risuonare nuovamente vive. Perché un pensiero forte esiste, un pensiero che si fa sotterraneo per poter scorrere a dispetto degli ostacoli e poi tornare alla luce. Perché ciò accada quindi è veramente giunto il momento di tacere? Inizio a credere di sì. Tacere il più a lungo possibile senza essere trascinati nella bagarre del dover urlare più forte. Tacere per creare un silenzio così vigoroso e imponente da permettere alle parole di aprirsi un varco, una minima fessura con qualche briciola di terra in cui mettere radici e ricreare daccapo un linguaggio comune degno di tal nome.

Silenzio perché il tempo rallenti il suo ritmo e tutti si possa tornare a contemplare lo scorrere lento di giorni senza rumore. Per riabituare l’udito all’ascolto del reale.

Silenzio che è spazio per la mente. Spazio anche per tutto il dolore che dilaga, per la crudeltà che ci appartiene, per il senso di impotenza che isola e annienta. Silenzio e spazio per riconoscersi come non unici nel dolore, nella crudeltà sofferta o inflitta, nel senso d’impotenza. Sottrarsi alle parole che gridano, che rimbombano e stordiscono, parole che confondono e impediscono il confronto e appunto scarnificano il linguaggio e rendono i significati lettera morta.

A volte credo che esistano parole non ancora dette, o una formula speciale per pronunciare o scrivere le parole in un ordine preciso e perfetto che le renda miracolosamente potenti, persuasive, risolutive. Nel corso della storia qualcuno le ha scovate formule potenti e persuasive. Ma non erano quelle giuste. Narrazioni e ripetizioni per fini utilitaristici e di supremazia che hanno fatto scuola e oggi sono il linguaggio che assoggetta. Per cui daccapo chi ancora ne è in grado deve ricostruirle le parole. Di nuovo. E di nuovo. E ancora e ancora, come una fatica di Sisifo, finché sarà necessario farlo. Io però voglio per ora solo concentrarmi su questo luce sbieca di sole che taglia in obliquo la scrivania.


Nel romanzo che ho terminato di scrivere questa primavera, ambientato tra il 1923 e il 1943, uno dei personaggi riflette sul destino delle parole.

...Tonia ha adottato la regola di dar nomi nuovi a significati vecchi, perché le pare che i nomi vecchi quei significati li abbiano traditi. Creare parole nuove per esprimere ciò che non ha più parole per essere espresso. Travestirli i significati, travestire le idee, camuffarle, come disgraziati senza documenti per fargli passare un confine. Ogni volta che le sembra il caso arricchisce il proprio personale vocabolario spostando le parole, come dice lei, aggiungendo o sottraendo significati ad esse, quand'anche i sinonimi non siano più sufficienti. È l'unico modo per salvarli i significati, per sottrarli al commercio che se ne sta facendo. Bisogna cambiargli abito così non possono servirsene, non possono rubarli tutti, rapirli, confinarli. Lo fanno con le persone, almeno salvare le parole, riprendersele, quelle che si riesce, ché di sicuro serviranno un giorno ai sopravvissuti a quest'epoca infame.




Ottobre 2022

venerdì 3 marzo 2023

LA CIMINIERA DELLE FERRIERE

  Ricordo quando nella primavera del 2000, se non ricordo male, tornando da un breve viaggio a Torino, sbucai dall’argine destro nel momento in cui venivano abbattuti gli stabilimenti delle Ex Ferriere. Frenai e accostai la macchina. Mi vennero le lacrime agli occhi, provai un senso di ingiustizia per quanto stava accadendo. Fu allora che decisi di trasformare quello che fino a quel momento era stato un diario personale sulla città in una testimonianza da rendere pubblica. La mia personale testimonianza, quindi parziale ed emotiva, ma comunque un contributo a che si conservasse nella memoria collettiva qualcosa che non era più e di cui in futuro non si sarebbero trovate tracce se non in archivio. Da tempo pensavo che Imperia fosse un museo a cielo aperto e che di tanta storia che fortemente definiva questa città pian piano le tracce scomparissero. In molti libri su Imperia di una parte del passato più lontano e anche del più recente, intendo quello del dopoguerra, non si racconta. Molte cose le ho scoperte appunto dai documenti d’archivio dove ho cercato verifica di racconti raccolti nel tempo. Nel corso di trent’anni ho visto l’aspetto di questa città continuare a mutare attraverso la cancellazione di quello che è stato come se tale modalità fosse prerogativa radicata nella mentalità di chi nel tempo ha amministrato Imperia. Quante volte, ancora oggi, parlando con visitatori e stranieri, raccontando loro alcune cose che normalmente non vengono raccontate, questi strabuzzano gli occhi stupiti che tanta ricchezza storica non sia motivo di orgoglio e valorizzazione. Non alludo alla storia dei palazzi illustri o delle personalità illustri di Porto Maurizio e Oneglia, storia che è stata ed è sempre portata agli onori, ma a quella urbanistica e industriale della città, a quella commerciale, altrettanto importanti. Di quando, ad esempio, dal porto di Borgo Foce partivano bastimenti carichi dell’olio della Giurisdizione degli ulivi alla volta di San Pietroburgo, o allo sventramento del Parasio per creare i boulevards, alla storia della collocazione della stazione, e via recuperando vicende che meglio possono spiegare la città di oggi.

Penso a Torino, che è la città che meglio conosco. Quando nel 2014 ho fatto ricerca e sopralluoghi per il mio libro ambientato tra Veneto e Piemonte nel ventennio 1923 - 1943, ho ritrovato i siti cui nel libro intendevo fare riferimento. A parte quanto distrutto dai bombardamenti, un paio di speculazioni edilizie, e la trasformazione di un’area industriale in un immenso centro commerciale, posso dire di avere trovato tutto quello che cercavo, almeno l’ottanta per cento. Villaggi operai, complessi industriali dismessi, e altri edifici di interesse storico per le vicende raccontate. Ho potuto camminare per ore tra vestigia pressoché intatte e deserte e calarmi nella quotidianità di chi le aveva vissute all’epoca.

A parte il mio libro, mi vengono in mente di Torino, altri luoghi del passato come le OGR, Officine grandi riparazioni, o l’intervento di riqualificazione urbana del Lingotto nella Torino post fordista. Intendo dire si può cambiare la destinazione d’uso di una struttura del passato mantenendo però la stessa a memoria di quello specifico passato. Certo non voglio fare del campanilismo e ammetto che mi si stringe il cuore ogni volta che entro nella stazione di Porta Nuova e conosco l’abbondanza di assenze presenti anche a Torino, come in ogni città. Per fortuna esistono persone che nel corso dei decenni hanno documentato tutto e portano avanti un progetto di diffusione pubblica del proprio lavoro.

Per questo vorrei rispondere brevemente alle seguenti dichiarazioni del sindaco:  

"Fa tristezza. Però d’altra parte bisogna sempre guardare avanti, mai piangere sul passato. Andare avanti e fare meglio. Molte volte le scelte che si fanno sono anche scelte difficili e che non si vorrebbero prendere.

Questo è il modo per cui troppo spesso non si fa nulla, perché non si vuole decidere. Quando ci sono delle cose che ti danno dispiacere, che ti danno anche un po’ di tristezza, cercati un pensiero bello. Cercando un pensiero bello, uno nasconde e cerca di dimenticare il pensiero brutto. Il pensiero bello sarà quello di andare a vedere quello che diventerà questa zona degradata. Perdiamo una ciminiera, avremmo preferito averne tre invece che due sole. Avremmo però una zona molto degradata e abbandonata, che unisce Porto Maurizio a Oneglia, che invece sarà una buona zona di sviluppo, con un parco grosso, con delle attività produttive, che daranno lavoro.

Guardiamo il positivo. D’altra parte nella vita, credo che si vada avanti soltanto se si guarda al positivo e ci si dimentica delle cose brutte. Altrimenti, con i tempi che viviamo correremo il rischio di andare indietro”.


Vede, signor Sindaco, l’iniziale accorato e poi ripetuto richiamo alla tristezza suona terribilmente come una banale e scontata captatio benevolentiae. Una moina per chiudere il discorso ed evitare di rispondere alle molte argomentazioni di chi non condivide determinate scelte urbanistiche. Non si tratta di piangere sul passato. Si tratta di non cancellarlo ma saperlo recuperare nell’ottica del miglioramento cui si ambisce. Ritengo non onesto proporre la dicotomia brutto, degradato, abbandonato versus bello, produttivo, foriero di lavoro. Al degrado e all’abbandono si può sempre porre rimedio se esiste la volontà di farlo ma in questo caso non lo si è fatto forti della motivazione che ormai la zona era proprietà del gruppo Colussi, discorso che vale anche per zone in cui non ci sono multinazionali di mezzo. Mi riferisco a quella funzione utilitaristica del degrado che consente di far accettare qualsiasi soluzione purché il fine dichiarato sia di togliere la bruttezza da sotto gli occhi. Bisogna vedere in cambio di cosa. Ammesso e non concesso che gli obiettivi dichiarati di beneficio per città e cittadinanza si realizzino, ciò sarà, nella migliore delle ipotesi, a costo di una perdita di identità storica collettiva. Sempre augurandoci che l’indotto occupazionale che dovrebbe derivarne sia un po’ più consistente di quello creato dal nuovo porto. Quindi concludo, con una buona dose di rassegnazione, ben vengano i cambiamenti, dalla riqualificazione della zona, al nuovo ponte che la unirà alla zona dell’Agnesi, dai lavori alla Galeazza e a quelli del Prino, e via elencando, ma prego le istituzioni rappresentate in questo momento dalla Sua persona, di provvedere almeno alla preservazione di quanto era prima attraverso la diffusione nei vari percorsi urbani di una documentazione fotografica ed esplicativa sull’esempio di quella importantissima se pur minima e discreta ad opera del Circolo Parasio affissa in via San Leonardo: la riproduzione di un dipinto che ricorda al viandante com’era via San Leonardo prima del terremoto e dei cosiddetti “sventramenti”. Iniziativa che spero proseguirà per tutto il borgo antico di Porto Maurizio, anzi per tutti i quartieri, ché ognuno di essi merita tale attenzione.

Distinti saluti

Barbara Panelli


Scritto d’un fiato il 3 marzo 2023

sabato 21 gennaio 2023

RIFLESSIONI DI UN PERCETTORE DI REDDITO DI CITTADINANZA



«Mi chiamo Diego, ho cinquantasette anni, vivo in affitto in un bilocale a 400 euro, sono separato da sei anni, ho un figlio di nove che vive con la madre e sta con me nei giorni che decidiamo insieme in base alle necessità reciproche. Posseggo un auto del 2009 e un vecchio scooter con 64000 chilometri.

Nel 2017 ho avuto problemi di salute, peraltro non risolti, con ricoveri che per oltre un anno mi hanno tagliato fuori dal mondo del lavoro. Il primo ricovero è avvenuto d’urgenza alla vigilia della firma di un contratto finalmente a tempo indeterminato.


Nel 2019 ho iniziato la trafila presso il Collocamento (continuo a chiamarlo con il vecchio nome), sia con il percorso ordinario che con quello del collocamento mirato, e con le agenzie di somministrazione lavoro.


A oggi non ho trovato un impiego consono alle mie disabilità ma solo brevissimi contratti a termine o a chiamata, tutti accettati, con il risultato di spendere per trasferte e cibo metà della retribuzione, in molti casi non solo irrisoria ma offensiva. Nel mondo reale ci sono situazioni in cui, anche senza percepire alcun reddito di cittadinanza, si risparmia a star fermi. Soprattutto se non si vive più in famiglia in attesa di farsi una vita propria, si è superato il mezzo secolo, e si è considerati dal mercato del lavoro decisamente poco interessanti nonché parecchio problematici rispetto a un giovane.


La situazione attuale è che da sei mesi percepisco il reddito di cittadinanza. Non ne vado fiero, al contrario lo trovo umiliante ma non ho avuto alternative. Il reddito che ricevo si dilegua nei primi cinque, sei giorni. Affitto, una bolletta al giro, una spesa di un centinaio di euro che deve durare almeno fino al venti del mese e poi si vedrà, cinquanta euro di benzina. Senza questo aiuto finirei in strada, passando per un periodo di soggiorno in auto, fino alla scadenza dell’assicurazione della stessa. Comunque sia, benvenuto questo famigerato rdc. Ho un figlio cui devo garantire quel minimo di dignità abitativa e alimentare per poterlo accogliere decorosamente, senza fargli pesare, oltre al dispiacere per la separazione dei suoi genitori (per fortuna consensuale e senza recriminazioni), anche il disagio economico, quindi esistenziale, in cui mi trovo.


E con gli alimenti come fai? Domanderà legittimamente qualcuno. Rispondo dicendo che ci sono tante persone che mi stimano e una volta aiuto a riordinare una cantina, una volta do il bianco in una cucina o faccio piccole riparazioni da amici, insomma do una mano quando e dove capita. E, vi assicuro, non capita spesso, perché la fame è tanta e diffusa e la “concorrenza” non manca. Ricavo al massimo duecento euro al mese nei mesi buoni e giro questo denaro alla mia ex che lavora in una cooperativa di pulizie, abita in affitto, e non è che se la passi granché neppure lei.


Qui sopra ho scritto la parola concorrenza tra virgolette. L’ho fatto perché ormai ha messo radici profonde nel pensiero di tutti che ognuno di noi sia imprenditore di se stesso prima che cittadino.


Come gli autisti di Uber che si autosfruttano senza bisogno che lo faccia qualcun altro, perlomeno non direttamente.


Che se uno non ce la fa è perché non sa amministrare bene il proprio capitale umano, dicono. Dobbiamo pianificare, investire, essere flessibili, “ristrutturarci”, “delocalizzarci” esattamente come le grandi aziende. Insomma, Benetton e il sottoscritto, la stessa cosa.


Tornando al punto centrale, e cioè il percepire il reddito di cittadinanza (ancora per pochi mesi a quanto pare), ritrovarmi direttamente coinvolto in questa realtà assistenziale mi ha fatto riflettere sulla questione come prima, quando ne sentivo parlare, non avevo fatto. Mi limitavo a commenti generici quanto banali.


Premetto un paio di ovvie considerazioni.


Innanzitutto la misura sarebbe stata da gestire meglio, con controlli ad personam magari ad opera degli enti locali che meglio conoscono la realtà famigliare, economica e lavorativa dei propri concittadini, e un realmente efficace percorso di reinserimento lavorativo. Non quei quattro, con tutto il rispetto per loro, ragazzotti anche volenterosi ma troppo giovani per avere la necessaria esperienza del mondo reale per poter essere d’aiuto e ricoprire il ruolo di navigator (!). Quando non, proprio per l’assenza di esperienza di cui sopra, arroganti nel giudicare il cinquantenne dall’altra parte della scrivania che cerca di spiegare i motivi, per cui no, non è accettabile la proposta perché a cinquantanni e passa la mobilità non sempre è possibile. Le vite sono strutturate e ci sono responsabilità verso terzi, tempi da rispettare, assistenze da fare, ecc. Non è pigrizia, nessuna sindrome da sdraiati, tutt’altro.


E qui mi collego al secondo punto e senza voler essere demagogico. Se siete giovani e forti, se non avete altra responsabilità oltre a quella verso voi stessi sarebbe meglio faceste un po’ di sana gavetta adattandovi a lavori anche non corrispondenti alle vostre competenze e formazione. L’abbiamo fatto tutti e non è morto nessuno, anzi, spesso, ci si è chiariti le idee. Certo, oggi il mondo lavorativo è completamente diverso ma il principio non cambia. Non vuoi fare trecento chilometri per un’offerta di lavoro ridicola? Fai bene. Va’ a dare una mano in qualche campagna se ce n’è dalle tue parti, o cercati qualcosa nella tua zona, senza ovviamente farti sfruttare. Sto sponsorizzando il lavoro nero? No di sicuro. Ma se c’è solo quello che si fa? Il lavoro nero lo sponsorizza l’operato del governo con la politica lavorativa condotta, a dir poco, negli ultimi due decenni.


Un esempio tra i più noti? I voucher.


Nati dal buon intento, voglio credere, di far emergere una bella fetta di lavoro nero, sono stati invece soprattutto utilizzati da chi grazie a essi ha potuto evitare assunzioni regolari con contratti a tempo determinato. Al contrario, la signora anziana che ha bisogno di una mano a tirare giù le tende per le pulizie di Pasqua, l’altra che ha bisogno di essere accompagnata a fare visite mediche, quell’altra ancora che ti chiede di farle la spesa pesante due volte al mese, persone così, che pure vorrebbero metterti in regola perché per loro i contributi sono sacrosanti, come avrebbero potuto affrontare la farraginosità di attivazione dei voucher? E la persona che si presta allo svolgimento dei suddetti compiti per compensi modesti spesso ritoccati al ribasso in funzione di tante modeste pensioni, cosa vogliamo fare? La mandiamo al carcere duro come evasore fiscale e causa dei mali del Paese? Semplificare per non escludere, mai eh?


Gli unici commenti che si sentono, e che pretendono di essere risposte o soluzioni sono del tenore: Ma possibile che ancora qualcuno non sappia crearsi un account? Ma possibile che con tutta l’informazione che c’è non sappiano cos’è l’identità digitale, una pec, un allegato, uno smartphone? Ma tutti questi anziani che si lamentano di essere superati in coda alle Poste non sono capaci di scaricarsi l’app e prendere l’appuntamento anche loro? Ma possibile che non abbiano qualcuno che lo fa per loro? Un figlio, un nipote, qualcuno. Possibile che siano soli?


Nell’ordine le risposte sono: Sì. Sì. No. Sì. Sì


E le agenzie di lavoro interinale o somministrazione lavoro? Che ti mandano quindici giorni a sostituire uno in un cantiere navale, poi venti giorni a sistemare scaffali dei supermercati, poi non si fanno più sentire per un mese, quindi ti dicono che c’è un posto da cameriere per una settimana. E anche quando sei sotto contratto non è che lavori tutti i giorni, spesso stai a disposizione che magari ti chiamano magari no. Ma di cosa stiamo parlando?


E al tecnico di precisione che ha lavorato vent’anni in Lavazza fino agli anni ‘90 e si reinventa fabbro e si mette in regola partita Iva, decide di vivere in un paesino per spendere poco di affitto e farsi pure l’orto, dichiara tutto perché ci sono anche gli onesti e ti spiega che con mille euro al mese lui ci sta dentro, è contento, e non ti chiede nulla, a quest’individuo cui bisognerebbe dire grazie, gli si fanno gli studi di settore, gli si dice, non è possibile che lei ce la possa fare con un volume d’affari inferiore a 3000 al mese, e finisce che la partita Iva la chiude perché lui ha solo due gambe e due braccia e come fa a farli 3000 al mese? Sta a te, Stato, dimostrare che sono un evasore. Controllami, fammi le pulci ma non dare per scontato che io lo sia in base a delle arbitrarie tabelle che hai stabilito non si capisce bene come. Dare alle persone la possibilità di pagare le tasse in base al reale guadagno. Possibile che in mezzo a tanti geni di economia e finanza nessuno sia riuscito a individuare un sistema per permettere a chi si sbatte per non pesare sulla collettività di autoregolarizzarsi per pagare il dovuto attraverso un’autocertificazione delle entrate? Ci sono tante persone di buona volontà che però non hanno le risorse per aprire una ditta e anticipare contributi e spese. Poveri autentici, poveri veramente, che però vorrebbero tanto uscire dall’ombra.


Come gli aiuti all’imprenditoria femminile. Iniziative lodevoli. Solo che per ottenere il finanziamento a un progetto, prima lo devi realizzare, poi devi far vedere che funziona, produrre i giustificativi delle spese, affitto, mezzo di trasposto, computer, telefoni, e quello che è, e se va bene ti arriva il rimborso. Insomma senza un capitale iniziale di almeno 15/20000 euro non se ne fa niente.


Lo so, mi sto perdendo, sto divagando, ma gli esempi sono innumerevoli. Vi sembreranno estremi ma a breve situazioni analoghe saranno familiari a un numero crescente di persone. Persone che per il momento si sentono ancora in una zona protetta. Questo è.


Chi è fuori resta fuori.


E qui arrivo al dunque. L’rdc fa un gran comodo ma è sbagliato. L’rdc non è inclusione. È proprio il contrario. 

Con esso si ufficializza l’esclusione. Si ufficializza la povertà. Nient’altro che la conferma che, dato un problema, non esiste nemmeno più l’intenzione di risolverlo. Alla Ponzio Pilato.


Perché uno Stato ormai minimo e affamato, uno Stato che ha ceduto la maggioranza dei servizi di base, che rinuncia alla tassazione progressiva, perché anche lo Stato deve agire come un’azienda, limitandosi a verificare, almeno per il momento poi chissà, che vengano garantiti alcuni standard minimi, uno Stato che si trova di fronte una collettività cui è stata sradicata dalla testa l’idea che ci si possa aspettare riforme progressiste da esso, cosa può fare? Può solo limitarsi a concedere forme di assistenzialismo pecuniario per contribuire al pagamento di ciò che non è più in grado di garantire, ciò che ha demandato a imprenditori privati che ovviamente mirano al profitto.


Viene stabilita una soglia minima di reddito vitale e chi ne è al di sotto riceve un sussidio che colma, o dovrebbe, la distanza tra il reddito personale e la soglia minima data.


Una tassa negativa che sostituisce l’erogazione di servizi. Non più un sistema sanitario nazionale ma un poco di cash per accedere a quello privato, non più edilizia popolare o, meglio ancora, un controllo su canoni di locazione, gentrificazione, multinazionali immobiliari e affitti brevi, ma un contributo per affrontare il canone quale che sia.

Uno Stato che si limita a erogare tasse negative ai meno abbienti è uno Stato che rinuncia ad affrontare le cause che generano la povertà ma tenta goffamente di salvare la faccia alleviando gli effetti più macroscopici di ciò che non sa gestire.


Accettare l’imposta negativa, il mio personale accettare di usufruirne, contribuisce a legittimare una concezione universalista della povertà. Significa per lo Stato dare una mano e per me significa smettere di essere un cittadino ma solo accondiscendere perché non ho alternative, e tutti insieme rinunciare a sapere di chi è la colpa o rimuoverne la consapevolezza.


Siamo di fronte a un tipo di welfare che è agli antipodi rispetto a quello del new deal roosveltiano, a quello dei regimi socialdemocratici, un welfare in cui è stata abbandonata ogni idea di redistribuzione dei redditi, e dove lo Stato usa il proprio denaro per smantellare se stesso. Perché l’indebitamento che comporta una tassa negativa come l’rdc non è che un passaggio fondamentale per l’eliminazione dello Stato sociale.


Che non significa Stato leviatano nemico dell’iniziativa privata, non significa Stato assistenziale privo di spina dorsale e non progressista, ma, banalmente, Stato che funziona, Stato responsabile.


Vero è che, per come stanno le cose, senza ’sto reddito che mi dura sei giorni e tra pochi mesi mi toglieranno, o finirò in strada o farò colletta per andare in Canada. Non come emigrante speranzoso ma come candidato alla buona morte.»



Dicembre 2022


D. V.


domenica 16 gennaio 2022

MARIA TERESA BERUTI

 Intitolo questo scritto, composto di getto in una notte di inizio settembre 2021, con il nome della mia maestra e professoressa cui devo forma mentis e pertanto la mia gratitudine.


Sono stata tradita. E sono arrabbiata per questo. Maggiormente proprio per questa rabbia che provo e nella quale non mi riconosco. Anch'essa fa parte del tradimento subito.

La prendo da lontano.

Nei primi anni settanta ero una bambina delle elementari a Torino. Tra i miei ricordi di allora il suono delle sirene della polizia, le notizie del telegiornale, i commenti di mio padre. Manifestazioni, anarchia, Potere operaio, Brigate Rosse, pericolo, paura, lotta armata, occupazione, terrorismo, eversione. Una serie di parole che ricorrevano quotidianamente senza che potessi comprenderne il significato. Capivo soltanto che era una brutta situazione. A scuola la mia maestra, metodo Montessori, era un'insegnante eccellente sotto vari punti di vista e devo a lei la persona che sono, perlomeno i lati buoni. Rammento che, oltre a rispettare il programma ministeriale, ci raccontava del fratello morto contro Franco, parlava di guerre, di fame, e di tutte le ingiustizie sociali nel mondo, del Libano parlava, del conflitto israelo-palestinese, di inquinamento e sfruttamento di persone e territori, di sofisticazione alimentare, di corruzione, di petrolio. A noi parlava di tutte queste cose, a noi bambinetti. Ci accompagnò dalla prima elementare alla terza media. E quindi, per forza, quando accadde ci parlò di Aldo Moro e cercò di spiegarci cosa volevano dire tutte le parole ei discorsi che sentivamo in televisione all'ora di cena. Però ci parlava anche di progresso scientifico, delle grandi scoperte che ci aspettavano a fine millennio, dell'importanza di essere persone oneste e desiderose di apprendere senza fermarsi all'apparenza delle cose. Di impegno e di ricerca della verità. Di quanto sia fondamentale porsi sempre delle domande, sempre esercitare il dubbio, non incastrarsi in ideologie preconfezionate il più delle volte autoritarie, quanto fondamentale sia il saper accettare risposte che non ci piacciono, saper essere umili e disponibili nel confronto con l'altro, saper riconoscere le proprie idee sbagliate ma essere pronti a difendere quelle giuste senza cedere a compromessi. Di diritti umani ci parlava, dell'imparare a mettersi nei panni altrui. E avanti così.

Non ho fatto altro per l'intera mia vita fino a oggi e intendo proseguire su questa strada.

Ricordo che al cospetto dell'interminabile teoria di cose sbagliate, brutte, ingiuste, spesso terribili, di cui prendevo coscienza, mi persuasi che la causa fosse da ricercare nell'ignoranza. Nel senso proprio di ignorare. Credevo insomma che la maggior parte delle persone fosse all'oscuro dei mali del mondo altrimenti come avrebbe potuto condurre una vita normale come vedevo accadere attorno a me? Bisognava soltanto con dedizione e costanza portare alla luce, denunciare, far sapere, raccontare. Sarebbero bastate le parole. Avrei raccontato le inaccettabili ingiustizie di cui ero venuta a sapere a più persone possibile e automaticamente queste persone avrebbero preso posizione per eliminarle le ingiustizie. Sarebbe stato un esercito sempre più grande di persone di buona volontà, come si dice. Un esercito di giusti. Il sapere come arma inoffensiva ma imbattibile. Non ci misi molto a smascherare la mia ingenuità. Ne soffrii e ne soffro ancora ma cerco di essere indulgente verso la me stessa di allora.

Ricordo che, ragazzina, mi consolai al pensiero che l'arrivo del lontano duemila avrebbe comunque portato un mondo nuovo. Sarebbe stato il momento del riscatto. Il progresso ci avrebbe condotti in una società senza fame, senza inquinamento, senza sfruttamento sconsiderato delle risorse, e nel rispetto di ogni essere vivente, e, di conseguenza, con un numero decrescente di conflitti e ingiustizie sociali. La cultura e l'impegno di tanti avrebbero contribuito alla realizzazione di una società equa e dignitosa per tutti gli abitanti del pianeta. Non di uguali ma di persone che avrebbero avuto ognuna secondo le proprie necessità. Il confronto continuo di idee diverse, la conoscenza crescente del mondo e delle sue peculiarità, tutto quanto sarebbe spontaneamente confluito, nel rispetto delle diversità e, aggiungerei, della biodiversità, in una visione comune lungimirante e saggia sui temi di interesse collettivo.

Invece no. Il duemila è stato raggiunto e superato e stiamo peggio di prima. Ovunque e in modi che neanche avrei immaginato il male dà spettacolo di sé. Sono stata tradita. Ingannata. La mia fiducia nelle magnifiche sorti e progressive un'illusione alimentata da adulti in malafede. Non tutti certo ma la maggior parte sì.

Nella mia equazione mancavano i valori di due incognite. L'avidità e la pigrizia. Quella pigrizia mentale e morale che ci porta alla delega acritica e di comodo, alla cecità e sordità convenienti, al far finta di niente pur di non rinunciare a nulla, fino ad arrivare alla delazione e al tradimento, all'offesa e al linciaggio pur di non prendere posizione e non assumersi responsabilità in prima persona. Al servilismo. Pur di potersi confondere nella massa.

Perché, riassumendo e certamente banalizzando l'opera di Elias Canetti, l'essere umano è un animale gregario per natura, persino quando se ne sta solo soletto in una stanzetta. Fatte salve le dovute eccezioni, la sua attitudine e il suo desiderio sono di far parte della maggioranza. Ma la mente collettiva non pensa. Non pensa perché non esiste. Tutt'al più si possono avere reazioni a impulsi ed emozioni. Reazioni tanto più intense ed efficaci quanto più le si riscontrano vicendevolmente simili. E con questo sarebbe praticamente detto tutto.

Edward Bernays scriveva nel '28 che la gestione della res publica avviene soprattutto attraverso la propaganda, il braccio esecutivo del governo. Propaganda, cioè lo sforzo coerente e insistito di creare circostanze atte a influenzare il rapporto della gente con un'idea, un gruppo, un'azienda, un governo. E che esiste una progressiva concentrazione della gestione della propaganda in mano a pochi capaci specialisti del settore al servizio dei governi. La propaganda, bisogna dirlo, non è di per sé negativa ma in quanto strumento per organizzare e focalizzare l'opinione pubblica si presta facilmente ad abusi. Ed è ciò cui stiamo, chi ne riconosce i segni, assistendo un po' ovunque nel mondo. L'uso della propaganda è tornato in auge a un livello preoccupante. Questo fenomeno è spiegabile con il fatto che mai come in questo periodo storico la necessità di controllare le masse è stata necessaria. Tale necessità è innegabile. Su tutto il pianeta sono in essere spostamenti di popolazioni o parte di esse, movimenti migratori, principalmente sull'asse sud-sud, anche se si parla più che altro di quelli sud-nord. Ciò in primis per un deterioramento dei territori dovuto a vari fattori tra cui degrado ambientale, desertificazione, acidificazione delle acque, prosciugamento o deviazione arbitraria di fonti idriche, perdita di fertilità dei terreni, perdita di biodiversità, dissesti idrogeologici, land grabbing, gravi perturbazioni meteorologiche, e via elencando, con conseguente incremento di conflitti e disordini sociali. L'assoluta mancanza di una gestione saggia, equa, e lungimirante a livello mondiale della res pubblica e delle risorse, le malversazioni, la corruzione, gli accordi commerciali e finanziari transnazionali, le delocalizzazioni, la criminale esternalizzazione dei costi di produzione a prezzi bassi per tenere in piedi un sistema economico anacronistico, tutto ciò determina l'impossibilità di attendere che il livello demografico dopo aver raggiunto il presumibile picco di undici miliardi arrivi ad assestarsi naturalmente sui nove. Nove miliardi per la sopravvivenza dignitosa dei quali se ci fosse la gestione saggia, equa, e lungimirante di cui sopra, ci sarebbero, nonostante la situazione oggettivamente drammatica in cui versa il pianeta, risorse sufficienti. A ciò si aggiungano l'ignoranza supponente, la non assunzione di responsabilità individuale, il menefreghismo, la diffusa certezza che prima o poi tutto si risolverà da sé o grazie all'intervento di qualcuno che non siamo mai noi, quella convinzione sentimentale che all'ultimo minuto, come nella più classica tradizione cinematografica, il bene e la virtù trionferanno e tutto si aggiusterà anche senza il nostro intervento. Ma cosa ci persuade di questo? Quali prove abbiamo? Nessuna, ovviamente.

È chiaro che urge un intervento drastico dall'alto. Ed è ovvio che chi ha il potere di dirigere le cose voglia correre lestamente ai ripari e non possa permettersi di separare il grano dal loglio. Perciò, se anche volessimo credere che la classe dirigente, ufficiale o occulta che si voglia, sia la migliore possibile, certamente i popoli, i sudditi, le masse, pagheranno il prezzo di tale nuovo ordine, indifferentemente dal fatto di essere virtuosi o meno. Questo spiega perché stiamo scivolando in una distopia da scifi anziché nella società ideale che mi era stata annunciata quand'ero bambina e nella quale continuo ostinatamente a credere. Ho scritto alcune volte in passato, in tempi non sospetti, della mia posizione in favore di una global governance1 illuminata per la gestione degli ambiti di interesse comune: ambiente, salute, istruzione, condizioni lavorative e commerciali, e non rinnego tale convinzione. Ora che si sta realizzando, mi ritrovo dalla parte di coloro che subiranno le derive cacotopiche del nuovo indirizzo di governo mondiale. Non si tratta di complottismo ma di banale osservazione della realtà. Nulla di quanto sta accadendo mi stupisce, al contrario me lo aspettavo. Solo che, a differenza di un tempo, sono consapevole che l'ebrezza data dal potere, l'imperfezione umana, la cupidigia, la cortigianeria, il tempo che stringe, unendo questi fattori, difficilmente andremo incontro a una società ideale. Ossia una confederazione mondiale di Stati collaboranti e vicendevolmente rispettosi, una confederazione paladina dei diritti umani, del rispetto di ogni essere vivente e del pianeta, sostenitrice di un progresso scientifico funzionale a tale visione. Sarebbe possibile ma non si avvererà. Non ne siamo all'altezza.

Posso anche credere che molti tra coloro che stanno tenendo le redini siano animati dai migliori intenti. Perché escluderlo? Probabilmente se non fossi vecchia, povera e invalida, se avessi avuto una storia famigliare diversa, se avessi avuto la possibilità di proseguire con gli studi e intraprendere la professione che avevo in mente, per prima ora sarei dall'altra parte. Genuinamente convinta che solo un controllo da parte di chi conosce e capisce le cose possa permetterci di sfuggire al tracollo imminente. A conferma di ciò che penso e sto scrivendo le affermazioni recenti di Draghi riguardo l'emergenza climatica. È tutto collegato. Può essere in effetti che solo attraverso delle imposizioni, e le stiamo, i più, pedissequamente accettando una dopo l'altra, si potrà anche imporre il rispetto di uno stile di vita dal minore impatto ambientale e quindi sociale. Chi lo sa? Come stiamo constatando, e come prescrivono le regole di una buona propaganda, uno stimolo ripetuto genera un'abitudine e la mera ripetizione di un'idea crea una convinzione. Si possono dunque imporre anche buone abitudini se queste non nascono spontanee. Ma è più facile pensare si tratti di un'operazione di facciata, un greenwashing generale. Che sia solo manipolazione ai fini di forti interessi economici. Come infatti riportato dal Financial Times del 31 luglio 2021, le maggiori aziende del settore informatico, Apple, Amazon, Microsoft, Facebook, Alphabet, hanno realizzato un incremento di profitto del 90% nel giro di un anno, e sappiamo che molte direttive di contrasto alla pandemia si reggono su di loro. Inoltre, come prevedibile, molte aziende della cosiddetta BigPharma hanno dichiarato nel primo trimestre 2021 utili in media raddoppiati rispetto al primo trimestre dell'anno precedente (fonte IlSole24ore 12 maggio 2021). Può essere, anzi è sicuro, che interessi così importanti in termini di numeri stiano condizionando le decisioni politiche a scapito dei nostri interessi e salute, nonché libertà, ma perché escludere anche la presenza di buone intenzioni? Magari qualcuno ci crede veramente e sta provando a fare qualcosa di buono. Se non tutti almeno alcuni. Io, per principio, il beneficio del dubbio lo concedo. Ma, e lo sottolineo il ma, non intendo accettare il modus operandi utilizzato. Se anche convinti che sia l'unico modo possibile, coloro che tengono le redini se vogliono continuare a chiamarsi Uomini, devono riuscire a trovare un'alternativa. Non è facile ma devono. Perché qui il tradimento cui facevo riferimento all'inizio diventa totale e irrecuperabile. Diventa insanabile.

Partiamo da un esempio. In Francia a giugno è stata depositata in Senato una proposta di legge a favore di una mobilitazione digitale generale del Paese attraverso l'incrocio di dati identificativi, medici e di localizzazione, che sarebbero gestiti attraverso la creazione della piattaforma Crisis Data Hub. Si arriva a citare come efficace quindi auspicabile anche l'uso di un braccialetto elettronico per il controllo del rispetto di quarantena, con possibilità di disattivazione del Green Pass per il trasporto pubblico, controllo in remoto dello stato di salute, degli spostamenti e delle frequentazioni personali, nonché il controllo delle transazioni sul proprio conto con possibilità di sanzioni e multe in addebito diretto e monitoraggio acquisti, soprattutto farmaci. Di fronte alle “antiquate” preoccupazioni per la privacy, si afferma che se la dittatura salva delle vite mentre la democrazia conta i morti, la scelta non si pone. Se ne può parlare ma il fatto è che non se ne parla. Non esiste contraddittorio. Chi non si allinea è fuori. E questo non va bene. In sintesi, il mondo che ricordiamo, quello che abbiamo conosciuto fino al termine del 2019 non tornerà più. Nel bene e nel male siamo a pieno titolo nel new deal del terzo millennio. E non è successo all'improvviso. Tutto meticolosamente costruito nei decenni. Alla luce del sole e con tanto di pubblicazioni ufficiali. Solo che si tratta di letture lunghe, noiose, e piuttosto complicate. Chi ha tempo e voglia di affrontarle? Una lunga teoria di sigle, di summit, e di accordi transnazionali e sovranazionali che però un pezzo alla volta ha costruito questo presente che non ci piace granché. Ma nulla è stato nascosto, nessun complottismo. Tutto nero su bianco e, come dicevo, alla luce del sole. A chi casca dal pero e dice che non è possibile quello che sta accadendo nel mondo, e di cui pandemia e gestione della stessa sono allo stesso tempo strumento e manifestazione, a chi è spaventato e appiccica l'etichetta di complottista (senza peraltro comprendere l'esatto significato del termine che in primis indica chi i complotti li organizza) non solo agli sciroccati ma a chiunque si ponga delle domande, a chi è ferocemente arrabbiato con chi cerca di andare oltre le apparenze, ecco, a tutti costoro rispondo: leggete, cristo santo, leggete. Andate a cercare documenti e relazioni degli ultimi vent'anni, anzi trenta, leggetele, studiatele, e poi ne riparliamo. Sto pensando a un video visto di recente registrato dall'avvocato Reiner Fuellmich, avvocato di fama internazionale ed esponente del Comitato Corona di Berlino, comitato attraverso il quale insieme a un gruppo di colleghi e di esperti sta raccogliendo materiale, testimonianze, documentazione scientifica per avviare un processo denominato provvisoriamente Norimberga 2 per renderne immediatamente comprensibile la portata. Tale denominazione esprime peraltro il clima di malessere generale cha la situazione contemporanea determina e alimenta. Non entro nel merito dei contenuti, tanto più che la richiesta di apertura di una causa non è stata depositata come sarebbe stato ovvio presso la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, tantomeno Presso la Corte Suprema del Canada come dichiarato ma presso la Corte Superiore di Giustizia dell'Ontario che l'ha peraltro rigettata, ciò che però posso affermare con cognizione di causa è che molto di quanto nel video viene esposto corrisponde al vero. Non è un'opinione personale ma il frutto di letture metodiche portate avanti dai primi anni novanta. Incontri al vertice, conferenze, accordi che hanno avuto luogo nel corso dei decenni hanno prodotto pubblicazioni ufficiali e agende programmatiche, sicuramente articolate, complesse, per lo più comprensibili solo agli addetti ai lavori, ma in cui sono messi giù uno dopo l’altro i passi da fare per arrivare a un certo risultato, che è quello che iniziamo ad avere sotto gli occhi. Tutto approvato e sottoscritto da capi di governo. Chi ha seguito con attenzione e costanza lo svolgersi degli eventi non è per nulla stupito di quanto sta accadendo e prova una giustificabile insofferenza e una profonda frustrazione pensando a quando, forse con troppo anticipo, provava a parlarne restando Cassandra inascoltata. Quanto è oggi non è altro che la prosecuzione e la realizzazione di una pianificazione pluridecennale. Tutto quindi prevedibile e, laddove necessario, contrastabile a suo tempo. Pertanto coloro che si ostinano a definire paranoici quelli che denunciano l'ovvio, sono persone che ignorano i fatti ma a cui manca l'umiltà socratica di riconoscere di non sapere. Comprendo la difficoltà di dover ammettere che esiste qualcosa al di fuori della propria portata, delle proprie competenze e conoscenze, qualcosa che ci spaventa, qualcosa che no, non può essere vero, perché significa dover riconoscere dei limiti personali, una disattenzione protratta negli anni, un'indifferenza colpevole e colposa, ed è perciò più facile seguire la corrente e fare come le tre scimmiette, salvo quando viene toccato il portafogli individuale o una qualche cosiddetta libertà personale, allora ecco tutti a gridare che non è possibile accadano certe cose. Siamo noi che permettiamo che accadano con la nostra costante disattenzione, con il nostro costante delegare, il costante non verificare l'operato di coloro che deleghiamo. Quanto afferma l'avvocato Fuellmich è tutto comprovabile ma la mole e la difficoltà della documentazione relativa da affrontare sono tali che dissuaderebbero anche me che negli anni ne ho digerita una minima parte. Se diventassimo tutti miracolosamente consapevoli di quante cose ignoriamo saremmo a metà soluzione. La consapevolezza di ignorare le cose e il desiderio di rimediare a tale ignoranza sono infatti aspetti fondamentali dell'intelligenza.

Se ci pensiamo, anche nel fascismo e dentro la seconda guerra mondiale ci siamo ritrovati andandoci un passo alla volta. Siamo diventati delatori, abbiamo accettato che alcuni esseri umani non avessero diritti e gli si potessero infliggere le peggio umiliazioni, perché ogni giorno, un giorno dietro l'altro, ci siamo auto rassicurati sul fatto che fosse tutto normale, tutto plausibile quindi accettabile, che lo Stato agisse per il bene nostro individuale e per quello comune, negando ogni evidenza. Ci guardavamo intorno e vedevamo che tutti facevano come noi per cui voleva dire che andava bene così. Oggi biasimiamo ciò che fummo ma, pur di non mettere in discussione il nostro stile di vita e le nostre abitudini, stiamo ripercorrendo il medesimo solco. E, ovviamente, non mi riferisco solo al nostro bel Paese.

Proprio per la mia formazione quello che soprattutto non sopporto sono la narrazione unica, la prospettiva dicotomica, tipica delle rappresentazioni mediatiche, i toni estremisti usati da esponenti di forze politiche che fino a ieri consideravamo moderate o comunque da personaggi pubblici vicini al governo. L’impressione è che questi toni vengano assunti per accaparrarsi le simpatie di quella parte di popolazione che è stata radicalizzata da mesi di narrazione e propaganda manichea che offende intelligenza e spirito critico. La stigmatizzazione che stanno subendo coloro che – con differenti ragioni – si oppongono alla linea governativa di gestione della pandemia ha pochi precedenti. Non sopporto nemmeno quest'adesione assoluta e dogmatica a qualsiasi direttiva sanitaria basata su tecnoentusiasmo, scientismo, e profitti, e ciò persino di fronte all'assenza di evidenze scientifiche che supportino le direttive in questione. Si dà tutto per scontato. Come se l'onere della prova fosse superfluo. Non sappiamo ad esempio, è impossibile non parlarne, (gli scienziati non sanno, anche se un po' di studi stanno finalmente venendo fuori) se e quanto il vaccino serva a ridurre i contagi. E quindi non è affatto detto che il vaccino sia una misura di protezione per la salute pubblica. In questa incertezza, misure come l’obbligo vaccinale o il green pass sono, per chiunque comprenda il concetto di stato di diritto, totalmente irricevibili. La scienza, per essere tale, non può essere dogma e io pretendo che la politica garantisca non solo l’indipendenza di ricercatori, medici e degli altri operatori sanitari, ma contribuisca a creare e mantenere un clima scientifico antidogmatico, aperto al libero dibattito, trasparente, e soprattutto il più possibile esente da conflitti d’interessi.

Purtroppo leggo, odo, vedo, tocco con mano, un giorno via l'altro, soprattutto da noi, in quale misura crescente e allarmante venga sottratto spazio al ragionamento, allo spirito critico, a dibattiti e discussioni trasparenti e appunto esenti da conflitti d'interesse, quanto spazio sottratto allo studio di documenti diffusi in altri Paesi. Un prevalere di posizioni perentorie che nulla hanno a che vedere con lo spirito scientifico. Il lasciapassare ad affermazioni ossimoriche, pratica in cui da sempre eccelliamo, quale ad esempio, per citarne una in voga, il Green Pass non discrimina perché siamo tutti liberi di vaccinarci e quindi ottenerlo per poter così lavorare e andare a spasso. A prescindere dal favore o meno a tale disposizione, che solo gli ipocriti o gli incompetenti in materia medica possono definire sanitaria, la frase in sé dà molto su cui riflettere. Ma l'aspetto più grave è lo stato d'animo delle persone. Quello che vedo per le strade, le frasi che ascolto, quelle che leggo, tutto è infarcito di odio e aggressività. Cioè di paura. L'horror vacui di una società che da troppo tempo ha smesso di dialogare con la morte e pur di procrastinarla ad libitum è disposta a non pensare e quindi a non vivere. La fuga dalla realtà è infatti rassicurante perché ci manleva da responsabilità ed è agevolata da un progressivo e secondo me voluto impoverimento del linguaggio. Il riferimento a Orwell, acuto e sagace profeta, è scontato, quindi citiamo Heidegger. Riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri cui non corrisponde una parola. Le parole dunque non come strumenti per esprimere pensieri ma condizione per poter pensare. Quanto è più agevole però abbandonarsi alla corrente e ripetere il mantra chi non è d'accordo con me è contro di me? Perché ormai è dato per certo che se non sono d'accordo con te vuol dire che non “mi piaci”. Le persone sono pronte a fare di tutto, persino in modo autodistruttivo pur di non sentirsi calpestate. Ma come è avvenuta questa perdita di lucidità progressiva?

La maggior parte delle persone che conosco legge meno di un libro all'anno, quando legge un quotidiano scorre i titoli sfogliandolo, la durata di concentrazione su un argomento è inferiore ai tre minuti, altro che verifica delle fonti o confronto dialettico su un'opinione. Da aggiungere gli ex lettori convertiti ai social. Insomma non è un humus favorevole al pensiero. I nostri ammennicoli elettronici sono diventati la fonte del nostro sapere. Subiamo le informazioni, se ancora possiamo definirle tali. Cosa diceva McLuhan? Che il medium è il messaggio. E sempre Orwell scriveva, il programma radio è un notiziario, il notiziario dice la verità.

La maggior parte delle persone, chi più chi meno, si trova in una condizione di preanestesia. Percezioni ovattate. E chi è che ha voglia di uscire da una simile zona di conforto in nome di una verità che non cerca più nessuno?

Nel 1971 hanno pubblicato i Pentagon Papers, nel 1972 c'è stato il Watergate, il Datagate nel 2013, i documenti diffusi da Wikileaks (e qualunque cosa uno possa pensare di Assange non pregiudica l'attendibilità e la gravità dei contenuti di tali documenti), e tante altre meno note e meno eclatanti ma altrettanto pesanti rivelazioni nel corso degli anni. Effetto sortito? A parte il Watergate, direi poco o nulla. Un po' di scalpore, qualche titolo altisonante, poi tutto nel dimenticatoio. Questo perché dimentichiamo che vigilare sul rispetto della verità è un dovere civico cui nessuno si può sottrarre. Mistificazioni, menzogne, collusioni sono parte integrante della gestione della res pubblica (gli esempi abbondano) e ritengo l'accettazione acritica di qualsiasi direttiva o imposizione per quanto legittimata da decreti, ordinanze, o leggi, non accettabile. La legge stabilisce la giustezza di una norma ma ciò non implica che essa norma sia giusta. Una ventina di giorni fa una carissima amica ha affermato che lei si nutre al capezzolo dello Stato quindi oltre a non avere il tempo, non ha la minima intenzione di andare a verificare se l'operato di chi le fa arrivare lo stipendio è corretto. Intende vivere nella presunzione che le persone da lei demandate a ricoprire un incarico di governo lo espletino nel migliore dei modi. Se risultasse diversamente alle elezioni successive si prenderanno dei provvedimenti, ha concluso. Notavo con lei che, se si vuole che un'eventuale malagestione risulti bisognerebbe indagare e chiedere conto di tutto ogni volta si abbia il sentore di qualcosa che non va. E che alle elezioni successive l'assenza abituale di controllo sarebbe un incentivo, se non a fare uguale o peggio, a non impegnarsi in modo adeguato. Purtroppo, ricollegandomi alla questione del bene che alla fine trionfa comunque, forse soprattutto nelle democrazie cosiddette liberali il rischio di scivolare in forme di autoritarismo variopinte e camuffate da interesse collettivo è molto forte. Il problema è che tutto è diventato offuscato, i piani sovrapponibili, chi deve fare cosa, chi è responsabile di cosa. Chi ha veramente le competenze per gestire una cosa, chi il potere di decidere come gestirla, chi la responsabilità del risultato di tale gestione, sono di rado la stessa persona. Come si fa a districarsi? A riconoscere con certezza frodi, abusi, ruberie e relative responsabilità civili e penali? L'operato zoppicante e spesso controverso della magistratura ne è prova. Poi non esistono più, o forse non di nuovo ancora, se non nei confronti di singoli, misure di sopraffazione e coercizione che possano far pensare di essere sotto regime. Il sistema di un panopticon senza muri è estremamente efficace. Quale miglior prigioniero di quello convinto d'essere coccolato, amato, e protetto da chi lo governa e pertanto non mette nulla in discussione? Quale miglior prigioniero di quello convinto d'essere a sua volta collaborativo guardiano?

Detto questo, e rammaricandomi dei troppi ma inevitabili riferimenti alla pandemia, voglio ergermi per quanto possibile in difesa del libero pensiero, dei valori dell'umanesimo, e del confronto quale germe di crescita personale e generale.

Oggi confondere per assonanza liberalismo con liberismo è facile, lo sottolineo giusto prima di definirmi, tra le altre cose, una liberale. Il liberalismo classico - figlio diretto del pensiero di pensatori illuministi quali Locke, Montesquieu e Kant - è una dottrina politica improntata sulla difesa dei diritti e delle libertà individuali, individuati come naturali e indicati come unica giustificazione dell'esistenza di un'autorità pubblica.

Il pensiero liberale è stato ed è reiteratamente offeso. Quanti liberali rinnegati! Individui che a un certo punto trovano un'ortodossia, un sistema di idee che si presume debba essere accettato senza obiezioni dalle persone ragionevoli, e ci si arroccano, perdendo lucidità, onestà intellettuale, e rifiutando a priori qualsiasi confronto. Trincerati nelle loro roccaforti ideologiche tradiscono con una fierezza inspiegabile i principi che dovrebbero difendere.

È vero, escludendo giustamente ciò che ci offende e umilia o ci costringe a subire abusi e ingiustizie, ci sono cose, diverse per ognuno di noi, che non vogliamo comunque sentirci dire perché facilmente comporterebbero la messa in discussione di chi siamo e come viviamo. Pensieri, dubbi, analisi, che siano. Bene. È umano. Certe cose non vogliamo sentirle dire però non possiamo né dobbiamo impedire che vengano dette. Abbiamo il dovere di confrontarci con esse nella misura in cui ci viene offerto un confronto dialettico onesto e pacato.

Per quanto si cerchi di negare la verità, essa continua a esistere, e finché ci sarà la libertà di dirla, la verità, allora la tradizione liberale potrà continuare a vivere.

La libertà intellettuale, una tradizione radicata senza la quale i valori su cui è basata la nostra società perderebbero di significato, si realizza principalmente nella ricerca e nella protezione della verità.

E senza una strenua difesa di questi valori non arriveremo mai a quella forma di governo globale ideale cui facevo riferimento all'inizio.

Tutto ciò lo dico pensando anche al premio dedicato a Mario Pannunzio che mi è stato conferito. Mario Pannunzio il cui merito principale fu quello di stimolare e riunire in modo continuativo il contributo di filosofi, scrittori, politici, artisti, giornalisti e storici, attorno al suo giornale. Egli fece parlare una lingua nuova in un'Italia ancora provinciale, bigotta, adulatrice dei potenti, un'Italia oggi meno provinciale e meno bigotta ma che non ha perso il vizio dell'adulazione.

Con integrità morale dobbiamo nutrire e preservare l’impegno di chi lotta per difendere i principi in cui ci vantiamo di credere e si fa urgente l'imperativo di onorare quanti hanno vissuto e operato per mantenere vivo il pensiero liberale prendendo il testimone e passandolo di generazione in generazione.

Per questo mi aspetto che tutti gli uomini di cultura, tutti i sedicenti liberi pensatori, i sedicenti difensori della giustizia, tutti i difensori della Costituzione, tutti gli individui che credono nei diritti legittimi di ogni essere vivente, tutti coloro che si ammantano di quei valori che oggi sono impunemente calpestati, ecco pretendo che tutti costoro, e mi includo, si alzino in piedi e dicano NO.

Dicano un NO forte, fermo, e non negoziabile alle ingiustizie. Dicano NO all'ipocrisia di norme che non garantiscono nulla se non una falsa sicurezza. Dicano NO ai discorsi espressi esclusivamente in termini dicotomici quali imperversano ovunque e senza soluzione di continuità. Dicano NO all'assenza di contraddittori onesti. Anche, banalmente, per evitare di gettar benzina sul fuoco. Imporre un'unica versione dei fatti e arrivare all'imposizione di regole che mettono all'angolo, alla berlina, e alla fame, chi dissente può rafforzare l'opinione che si vuole contrastare. Rinunciando alla discussione e alla ricerca comune di ciò che maggiormente si avvicina al vero, si rischia la radicalizzazione dell'opposizione. Ridurre al silenzio nel quadro di un banale e brutale rapporto di forze è la cosa più stupida e deleteria che si possa fare nella prospettiva della risoluzione di un problema. I dubbi vanno discussi, non negati. A meno che, viene inevitabilmente da pensare, l'obiettivo non sia proprio il voler prevalere in sé, con buona pace delle motivazioni addotte di sicurezza sanitaria, sociale, economica, che dir si voglia. Dicano NO al prorogare quelle circostanze eccezionali che permettono a un governo di aggirare le sue stesse leggi. Dicano NO a una società in cui la dignità umana è offesa senza ritegno in ogni parte del pianeta. Dicano NO ad accordi economico finanziari che possono rendere prive di valore conquiste di diritti sanciti da Costituzioni e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Dicano NO a ordini e provvedimenti che comportino offesa morale e fisica a chi non ha mezzi e strumenti per difendersi. Dicano NO a una società che si sta allontanando sempre più dagli ideali di humanitas e cultura in favore di una realtà di individui omologati e acriticamente consenzienti.


Ma lo so: occorre un grande sforzo per vedere ciò che si ha sotto il naso


Per quanto mi riguarda sono stata tradita ma non tradirò.


1Tratto da un articolo del 14 aprile 2012 - … sono un’umanista, educata a principi illuministi e razionalisti. Amo la filosofia, la ricerca della verità. Amo lo spazio immenso che ci circonda. Sento l’ambizione di dimostrare che siamo una gran bella specie animale, che possiamo essere nobili e grandi, che potremmo esprimere e trasformare in atti tanta nobiltà e grandezza, e penso che siamo intelligenti e, pertanto, non possiamo non vedere come stanno le cose, quali sono i fenomeni e le dinamiche inevitabili che attraversano il pianeta e la società umana. Per cui solo una federazione mondiale può portare equilibrio, giustizia e buona qualità della vita per tutti. E non parlo di Trickle Down chiaramente. Solo resta il problema della corruttibilità dell’animo umano, dell’ambizione e dell’ingordigia, della patologica vocazione all’accumulo esponenziale.

Ci vorrebbe un gruppo dirigente, saggio, equo e incorrotto, votato al benessere comune (!).

L’ideale sarebbe democraticamente eletto, con un mandato a termine e revocabile, solo che spesso la democrazia fa a pugni con il buon governo... ...Per questo trovato un gruppo di persone valide ci sarebbe da pensarci bene prima di sostituirlo. Ma, come tutti ben sappiamo, si tratta di utopia.

Resta il fatto che è necessario imporre, visto che non c’è più il tempo per stare ad aspettare il raggiungimento autonomo di consapevolezza da parte di un bel po’ di miliardi di persone, alcune regole che permettano di guadare questa fase di transizione in tempo utile. Utile per tutti. Purtroppo ciò va a scapito della trasparenza, non si può stare a dire e a spiegare tutto. Bisogna agire. Puri nell’anima, perché l’inganno è per un buon fine. Ma l’occasione, come si dice...O, meglio, l’entourage di coloro che hanno il potere e i mezzi per attivare, seguire e controllare il processo, non è pulito. Se leggo i nomi di coloro che appartengono a gruppi come CFR, ONU, Bilderberger, FMI, BRI, GEM, WTO, FED, think thank vari, fondazioni, consigli di amministrazione di multinazionali, e quant’altro, ne trovo di ricorrenti, con evidenti conflitti di interessi...

Ad esempio il discorso delle Fondazioni e di alcune organizzazioni no profit sostenute da aziende e gruppi finanziari. Sono enti che non pagano le tasse, dispongono di ingenti risorse, economiche, politiche e intellettuali, e non debbono rendere conto delle proprie attività. Hanno di fatto in mano la chance di far fruttare tali ricchezze per ottenere un potere sempre maggiore che a sua volta alimenta il flusso di denaro e quindi di ulteriore potere a loro disposizione. La finanza paga il dazio per controllare il dissenso, ridurre l’ambito dell’attività politica, creare consenso riguardo alle riforme economiche. Sostengono, premiano e incentivano con posti di lavoro i ricercatori e gli studiosi che perorano una visione utile ai loro obiettivi. Si trasformano l’equità e la giustizia in prodotti industriali. Con una donazione online si è fatto il proprio dovere. Così è facile governare il mondo! E i nomi sono sempre gli stessi o, comunque, parenti, amici, compagni di formazione. Con lo stesso sistema del esco di qui ed entro di là che lega la politica ai consigli di amministrazione.

Come si può dunque accettare a cuor leggero una trasformazione politica verso la global governance cui accennavo prima, trasformazione che il comune buon senso, a questo punto della nostra storia umana, dovrebbe farci riconoscere come giusta e necessaria? 14 aprile 2012