venerdì 8 gennaio 2021

RAGAZZI CHE SI MENANO

Da settimane la cronaca abbonda di articoli riguardanti risse tra ragazzini e adolescenti che sul web si accordano per luogo e ora di appuntamenti collettivi durante i quali dar libero sfogo ai propri impulsi. In sostanza, ragazzi che si menano. A gruppetti, a decine, a centinaia. I sociologi analizzano, genitori e insegnanti rimpallano le responsabilità gli uni agli altri, i media amplificano l'eco favorendo l'emulazione. Le cause vengono rintracciate nell'innaturalità imposta alle nostre vite dalle restrizioni per il contenimento della pandemia e le colpe attribuite ai social che diventano l'unico canale di scarico per le frustrazioni dei giovani. Lì ci si ritrova e ci si incontra con altri che provano disagi simili ai propri.

La rabbia, il senso di noia, inutilità, e ingiustizia, sono comuni. Ci si riconosce come parte di un gruppo che rivendica le medesime cose. Ci si autorizza vicendevolmente a compiere azioni ribelli che si traducono nei fatti in esplosioni di violenza nei confronti dei propri simili, quindi, in ultima analisi, nei confronti di se stessi.

Se ne sta parlando e scrivendo molto in Italia ma è un fenomeno mondiale.

Così, in ordine sparso, al sentire commenti e riflessioni sui recenti fatti nostrani, i primi pensieri che ho avuto sono stati i seguenti.

I ragazzi si sono sempre menati. È un rituale di passaggio. Il primo riferimento che mi viene in mente è “I ragazzi della via Pal”, il romanzo dell'ungherese Ferenc Molnàr. Solo che oggi è la dimensione aumentata di tale prassi a impressionare.

I fight club esistono da tempo ma per accedervi finora è stato necessario appartenere a certi ambienti, conoscere le persone “giuste” o navigare nel deep web quando non nel dark web. Così alla luce del sole raramente si è visto. E, in ogni caso, la partecipazione su base volontaria non tocca fasce anagrafiche così basse. Questo ci spaventa. L'età. Giustamente.

Ma non si può regolarmente cascare dal pero.

Oggi possiamo affermare, senza esitazione, di vivere in quel genere di società distopica annunciata da decenni dalla migliore letteratura di genere e dalle riflessioni di eminenti filosofi, scienziati, pensatori che, evidentemente invano, hanno tentato di metterci in guardia. La maggior parte degli adulti in questo momento storico o è fuori di testa o sta in equilibrio su stampelle fornite alternativamente da alcol, cibo (troppo o troppo poco, a seconda), lavoro compulsivo, psicofarmaci, serie tivù, shopping, interventi estetici, bitcoin, azioni Amazon, influencer, zuffe sui social, esposizione e condivisione virtuale del privato, apericena, diatribe che esito a definire politiche, e, insomma, tutto quello che vi viene in mente e con cui riempiamo i miseri spazi vuoti che restano nelle nostre vite. Stiamo persino per perdere la posizione eretta e la vista, sempre con il capo piegato e gli occhi su schermi di misure variabili. Nella cosiddetta era della comunicazione abbiamo smesso di comunicare, di cercare un linguaggio comune. Di ascoltare. Con supponenza abbiamo fatto orecchie da mercante e deriso i moniti, abbiamo sottovalutato, abbiamo snobbato, abbiamo rifiutato di leggere, di studiare, di analizzare. Abbiamo atteso e attendiamo un deus ex machina che faccia il lavoro sporco e risolva tutto quanto per noi. Ci siamo ostinati a ritenere i problemi sempre problemi di qualcun altro. Abbiamo disconosciuto le nostre responsabilità e adesso inorridiamo a vedere la nostra progenie allo sbando. Abbiamo seminato vento. Il problema è che la tempesta noi la vivremo per poco. Saranno loro, i ragazzi, che dovranno viverci in mezzo improvvisando strumenti di sopravvivenza fisici e mentali per non soccombere. O, forse, in modo distorto, sono già avanti e hanno capito che, piuttosto che sopravvivere a questa maniera, tanto vale dare sfogo all'istinto di autodistruzione.

Ma tornando alle responsabilità, e attenuando il cupo ritratto appena fatto del mondo degli adulti, la discussione su a chi competa maggiormente l'educazione dei giovani, se ai genitori o agli insegnanti, su chi gravi la responsabilità prima del fallimento, trovo sia una diatriba sterile. Non c'è contrapposizione tra le parti ma dovrebbero esse essere un unicum che opera in collaborazione. Il problema è che sia genitori che insegnanti sono come tutti noi privati del medium principale utile a potersi dedicare in modo adeguato al compito cui sono chiamati: il tempo. Si è tanto parlato del tempo in esubero concesso dal confinamento forzato e totale della primavera scorsa, del tempo che avanza ora con l'obbligata rinuncia a uscite e convivialità, ma quello di cui parlo non è un tempo fisico ma principalmente un tempo mentale. Ognuno preso da scadenze e rate, da preoccupazioni per l'oggi più che per il futuro, dalla frustrazione di donchisciotesche battaglie per risolvere problemi che tali non dovrebbero essere, con insegnanti obbligati a destinare molte delle proprie ore alla compilazione di relazioni anziché alla propria e altrui formazione, come possiamo pensare che avanzino lucidità ed energia per votarsi all'educazione, all'ascolto e alla comprensione, all'esempio da trasmettere? Nemmeno i più virtuosi e motivati individui ce la possono fare a districarsi dalle maglie di questa vita frenetica e assurda. Fino a che punto dunque gli si può imputare una colpa?







martedì 8 dicembre 2020

Trophée de l'Innovation du confinement - Les trophées de l'édition 2020


Felice di far parte di questo progetto. Grazie alle Editions Albiana, a Bernard Biancarelli, a tutti gli autori che hanno partecipato, ai lettori che hanno sostenuto il progetto, ai giudici di LivresHebdo

domenica 22 novembre 2020

UNA POESIA

 Ho deciso di pubblicare di tanto in tanto qualche poesia


QUANDO SARÒ PIENA DI SONNO E DOLORI

 

Quando sarò piena di sonno e dolori

saprò mostrarti nell'antico giardino

del cuore mille fiori aperti e odorosi

il fulgore scarlatto del sole calante

di onde quiete la straziante bellezza

 

Quando sarò piena di sonno e dolori

ancora richiamerò il tuo sguardo al cielo

al fiero volo degli uccelli che migrano

allo splendido palazzo del nostro amore

ai germogli che altri vedranno sbocciare

 

E quando nel ricordo sarà confusa e

vaga la memoria dei sentieri percorsi

sempre per noi ne inventerò che sian stati

un cammino privo di peso e fatica

e che solo la luce dell'approdo rifulga

 

E quando saremo tornati a essere

vento pulviscolo radiazione di fondo

forse di queste originali fattezze

di questa imperfezione umana avremo

un sentore lontano e quieta nostalgia


2018

mercoledì 4 novembre 2020

IL PEGGIO HA DA VENIRE?

È dunque giunta la fine del mondo? L'anziana signora che aiuto mi racconta della guerra e avverte, Se viene un'altra guerra, guai. Se viene un'altra guerra guai..., guai. Mentre lo dice ha le mani giunte e lo sguardo raccolto in un passato che solo lei vede. Vorrei risponderle che la guerra c'è già. Solo che è diversa. Non è un conflitto mondiale simile a quello di cui lei ha memoria. Ha una forma diversa. Liquida direbbe Bauman. È ovunque sul pianeta e conta innumerevoli vittime. Solo che non le si somma. Ci si limita a suddividerle per zone geografiche, si evita accuratamente di trovarne il comun denominatore, si persuade della loro separatezza.

Tutto non va. L'evidenza di ingiustizia e dolore non è discutibile, eppure ci si ostina a negarla. Siamo davanti, anzi dentro, una combinazione di più crisi e perseveriamo nell'errore di considerarle a compartimenti stagno. Forse più corretto sarebbe parlare di una combinazione di sconvolgimenti, perché crisi è una parola cui abitualmente, e sbagliando, diamo un'accezione negativa e che invece significa separare, discernere, scegliere. La crisi è un'opportunità, non una sconfitta. Per questo la mia amica Ada interpreta le difficoltà e le sofferenze di questo momento storico come quelle del travaglio e del parto. Il parto per far nascere un uomo nuovo, un'umanità nuova, ed è impossibile pretendere che un simile cambiamento epocale, una tale rivoluzionaria trasformazione, possa avvenire senza dolore. Comprendo ciò che pensa la mia amica ma non riesco ad affrancarmi dal contingente. Dagli esiti materici di questa fase necessaria. Dal dolore del singolo essere vivente, del singolo individuo. Dallo strazio di chi soffre. Ché ogni vita vale e fatico ad accettare il prezzo pagato soprattutto dai deboli. Soffro nel constatare un giorno via l'altro le violenze, gli abusi, il disprezzo. Lo stupro metodico e contabilizzato della vita in ogni sua manifestazione. A vedere le acque avvelenate, le terre contaminate, la sete, la fame, il commercio e lo sterminio di esseri viventi, l'avidità che nulla riconosce se non se stessa. Come se intorno al mio corpo premesse l'intera umana condizione. L'intera sofferenza del vivente.

E ora, più che mai, ora che siamo costretti al distanziamento per cura e tutela nostra e del prossimo, ora che in pochi persino arricchisce a dismisura e specula sull'ennesima tragedia mentre i più, e tanti tra essi che si sentivano al sicuro, protetti da qualsiasi rovina, sono destinati a scivolare inesorabilmente verso il basso, ora che è chiaro che il peggio dobbiamo ancora vederlo in termini di derive sociali, disordini, nuove povertà ed emarginazioni, proprio ora, quali possono essere le soluzioni per non essere travolti?

C'è chi dice una casa in campagna con orto, un pozzo, libri e galline. Isolarsi come ultima ratio? C'è chi dice scendere in piazza, manifestare. Isolarsi versus dimostrare. Entrambe le soluzione però favoriscono il mantenimento dello status quo. Ripiegarsi sul privato, aumentare il distanziamento che da fisico diviene sociale, forse è ciò cui ambiscono i poteri forti perché facilita il mantenimento dell'ordine in un'epoca in cui i motivi di contestazione abbondano. Manifestare pacificamente, cercare il dialogo, sperare in un confronto intelligente e costruttivo risulta impossibile. La rabbia s'insinua, scontento, frustrazione, rivalità si mescolano. Diventa indistinguibile il buon intento dallo sfogo dell'istinto a distruggere ciò che non si capisce e contro cui ci si sente impotenti. Tutti in egual misura coloro che scendono per le strade vengono atterrati, arrestati, messi a tacere. Non si può andare per il sottile. È la massa che agisce e si muove e non si ha tempo per considerarla composta da individui, va solo fermata e domata. Quindi anche manifestare favorisce il mantenimento dello status quo e fornisce inoltre materiale per certa manipolazione mediatica legata al discorso della sicurezza in cambio dell'acquiescenza. Se isolarsi non serve, se rivendicare diritti nemmeno, ci troviamo dunque di fronte a un impasse?

In questa terra attraversata dal morbo dello scontento, da un'epidemia che contrappone negazionisti a pecore, come dai primi vengono definiti coloro che, oltre ad adottare doverosi prudenza e rispetto, sottostanno a norme di precauzione che una qualsiasi massaia dotata di buon senso detterebbe migliori e maggiormente efficaci, in cui strategie mafiose di accaparramento di posizioni di potere, malagestione fraudolenta, provate malversazioni, corruzione, spianano la strada a incompetenza, ladrocinii, e giocano senza il minimo sussulto etico con le vite del prossimo, andrebbero senza processo puniti con lavori forzati in miniera, questa terra in cui agli attentati quotidiani (Camerun, Francia, Afghanistan, Pakistan, Austria, gli ultimi in ordine di tempo) si aggiunge l'incapacità di capi di Stato a far scendere i toni, penso alla Francia nei confronti della Turchia di un Erdogan che, oltre a tutto il resto che già sappiamo, non esita a dare la propria benedizione all'estremismo, ecco, mi chiedo, in questa terra messa così, veramente allora l'ultima ratio resta sperare che si tratti di un travaglio non troppo lungo e che il bambino non nasca morto?


martedì 3 novembre 2020

SCRIVERE AD ALTA VOCE

Voglio imparare a scrivere ad alta voce, rendere sonoro il pensiero scritto, udibile e riconoscibile il tono di ogni parola. Che sia chiaramente tenue quanto è tenue, vigoroso quand'è vigoroso. Comprensivo, irato, o d'attesa. Dubitante, propositivo, o sofferente che sia. Purché sia chiaro. Che non sia equivocabile il senso dei termini ma correttamente interpretato dalla modulazione di timbro e intonazione, dai silenzi, dai tempi di pausa e ripresa.

Dicono che dovrei guadagnarmi di che vivere con le parole che scrivo ma, a parte che sono poche e sperdute, non saprei da dove iniziare. Come si possono vendere le parole, come posso vendere le pagine che scrivo? Che vengano lette è per me il giusto corrispettivo, che vengano imprestate, suggerite, regalate, lo è. Le parole vanno donate. Ripulite degli strati di pitture sovrapposte, alleggerite di ninnoli, bagatelle, e zavorre. Riscattate dall'intollerabile mercimonio cui sono sottoposte, e donate. Queste parole consumate, erose monete di scambio, prive di giustezza, esposte al ludibrio, rimbalzano sul fondo dei nostri contenitori da questua, opache e stanche. Ricurve procedono solitarie, talvolta in fila, spesso sovrapposte, affastellate, scaraventate nel mondo. Rese irriconoscibili nella turba urlante che se le strappa di mano, brandendone brandelli. Arrese molte al destino di vagare per le vie come donne stuprate cui, se pur perdonate per il torto subito, resta quale unico segno identificativo lo stigma della perdita della propria purezza. Destinate a sortire effetti opposti a quelli per cui sono nate. Voglio almeno tentare di proteggerne alcune. Proteggerne i significati, sottrarli al commercio che se ne fa, cambiargli abito così che non possano servirsene, non possano rubarli tutti, rapirli, confinarli, sostituirli. Nasconderli, camuffarli provvisoriamente per far loro passare il confine, che possano resistere per testimoniare, che possano salvarsi per salvare.

Perché le parole sono nutrimento, ché di sicuro servirà un giorno, com'è sempre accaduto, ai sopravvissuti di epoche infami.

martedì 20 ottobre 2020

FINITO IL TURNO

andrea camilleri, fabrizio de andrè, bruno ganz, guido ceronetti, luis sepulveda, stephen hawking, milos forman, daphne caruana galizia, ennio fantastichini, paolo villaggio, leonard cohen, dario fo, ermanno rea, umberto eco, david bowie, pino daniele, robin williams, gabriel garcia marquez, leonard nimoy, doris lessing, lou reed, rita levi montalcini, giorgio bocca, berta càceres, josé saramago, …

In ordine sparso mi vengono in mente alcuni scomparsi di questi ultimi dieci anni, nomi noti questi ma altri ce ne sono. Come se qualcosa stesse morendo, scomparendo pezzo dopo pezzo il mondo cui facevo riferimento. Coloro che, a dar man forte a pensatori del passato, in qualche modo consideravo coevi compagni di cammino. Di alcuni soprattutto domandarmi cosa avrebbero pensato negli anni che sono seguiti alla loro morte, cosa penserebbero oggi, cosa scriverebbero, in che modo farebbero arrivare il loro sentire. Talvolta penso che per tanti sia stato un bene andarsene prima. Prima del tempo del disincanto totale. Della resa all'evidenza dei fatti. Questa cosa la penso anche nei riguardi di altre anime belle. Poeti, mercanti, amanti, netturbini, marinai, inventori, cuochi, pittori, contadini, sognatori perduti, rabdomanti di periferia, cercatori di bellezza. Anime dai nomi comuni, sconosciuti che hanno lasciato tracce negli incroci della vita con altri sconosciuti. Persone con cui ho condiviso tratti di cammino e che mi mancano. Persone che ho amato.

Si scompare. È necessario. Anch'io scompaio. Una cellula alla volta poi, le ultime, tutte insieme. Oggi, domani, tra qualche tempo. Finito il turno.



martedì 15 settembre 2020

PERMESSO DI USCITA

SONO ONORATA E GRATA DI AVER RICEVUTO PER QUESTO ARTICOLO UN RICONOSCIMENTO PRESTIGIOSO: IL TERZO PREMIO NELLA SEZIONE GIORNALISMO E CRITICA DEL CONCORSO MARIO SOLDATI 2020 INDETTO DAL CENTRO STUDI E RICERCHE "MARIO PANNUNZIO" DI TORINO


Mi è stato proposto di scrivere un pezzo sulla fine del confinamento cui siamo stati costretti per arginare il contagio, sulle prime impressioni provate a rientrare nel mondo. Sul tanto atteso permesso di uscita.
Le prime frasi che ho scritto si sono tradotte in una lunga serie di domande.
Permesso di uscire. Uscire da dove? Uscire verso dove? Uscire perché?
Uscire dalla propria abitazione come se si trattasse di una prigione e non del luogo deputato al calore domestico, al raccoglimento famigliare, alla pace e al riposo. Quanta ansia, quanto dolore, quanta violenza si annidano tra le pareti di casa? Quanti silenzi e incomprensioni? Quante attese deluse e piccole quotidiane meticolose vendette? Dover riconoscere la consistenza ponderale delle proprie scelte sbagliate, dei compromessi per interesse o per timore dell'ignoto, del non aver saputo chiedere aiuto per tempo ed essere rimasti intrappolati in relazioni distruttive. O, più banalmente, scoprire di aver riempito gli spazi di cose e null'altro. Non tollerare il silenzio, lo stare con i propri pensieri, non conoscere i benefici dell'otium e aggrapparsi alla rete, ovviamente superveloce, come unica scialuppa disponibile per non sentirsi trascinare a fondo dall'angoscia dell'esistere. Un'umanità che riesce a sopravvivere solo nella bagarre del movimento continuo, dello spostamento, del rumore bianco di un vociare promiscuo e confuso, solo nell'avere un'ininterrotta serie di impegni, appuntamenti, incontri, cui tenere dietro a ritmo serrato.
E uscire perché? Per andare dove? Per vedere cosa?
A me è mancato il poter approfittare di un mondo vuoto. Respirare lungo la costa l'aria intrisa di salsedine e l'odore di sottobosco in questa regione che intreccia il mare ai monti. È mancato camminare per le strade deserte, osservare la città vuota, ascoltare i rumori del silenzio. Non avevo alcuna voglia di tornare al mondo di prima.
Fermarsi, al di là dell'aspetto tragico di una pandemia che ha annientato e annienterà soprattutto i più deboli in senso lato, al di là di ogni deriva sociale ed economica, di cui per ovvie ragioni rifiutiamo di vedere la portata travolgente, è stato come riprendere a respirare dopo una lunga apnea.
Ci hanno detto e ci siamo illusi che il dopo sarebbe stato meglio del prima, che noi stessi saremmo stati persone migliori. Che quanto accaduto, alla stregua di un'illuminazione ci avrebbe condotti in una nuova fase umana. Maggior consapevolezza, lungimiranza, rispetto. La commozione che ha caratterizzato alcuni momenti del confinamento e ci ha fatto sentire inaspettatamente vicini al prossimo, le lunghe liste di buoni propositi, tutto si è incenerito nel momento preciso in cui abbiamo aperto la porta di casa. Nello stesso modo in cui il coronavirus è entrato nei nostri corpi, ha amplificato patologie esistenti, ne ha scatenate di nuove, è entrato negli stati e nella società amplificandone infermità e patologie strutturali. Ha amplificato ingiustizie, settarismo, razzismo, ha evidenziato inettitudini e disorganizzazione, ha rinvigorito prevaricazioni e frodi, e ha determinato quindi, e soprattutto, disuguaglianza. Ha anche amplificato le nostre paure compromettendo le relazioni umane in una misura che pensavamo impossibile. Ha corrotto gli slanci, ha alimentato malversazioni e abusi. Ha nutrito la falsa certezza che, alla fine, visto che per ora siamo sopravvissuti, quello che conta è andare avanti a pagare le rate.
Tutti ovunque ormai concentrati sul tempo da recuperare. Come se ci fosse del senso in tale affermazione. Come se il tempo fosse fatto di una materia plasmabile a nostro piacimento. L'imperativo categorico del rimettersi in pari. Neanche abbiamo raggiunto la pubblica via che già la logica di quel poco che avevamo se non capito almeno intuito è stata capovolta, spazzata via. Quei valori improvvisamente sacri nel momento della paura sono divenuti in un batter di ciglia debolezze. Uno sbandamento dell'anima impaurita, qualcosa di cui non necessariamente vergognarsi ma da mettere velocemente in disparte per non essere rallentati da dubbi o remore nella corsa collettiva verso un benessere, quale che sia per ognuno di noi, da riconquistare.
Nei cantieri la parola d'ordine è stata accelerare e le morti bianche sono raddoppiate in un fiat. Gli sversamenti illegali di sostanze inquinanti da smaltire sono aumentati per abbattere i costi di produzione e recuperare le entrate perse durante il confinamento. In gran parte della produzione intensiva zooagricola si sono accantonate le poche minime norme di buona condotta ottenute in anni di lotte per immettere sul mercato prodotti a costi sempre più bassi e andare incontro all'acquirente medio cui, più che mai ora, preme il borsellino e se gli parli di costi indiretti ed esternalizzazioni ti guarda con le palle degli occhi fuori dalle orbite come se gli si stesse parlando in marziano. Le condizioni dei lavoratori di quasi tutte le categorie, e particolarmente nelle filiere produttive, sono peggiorate. Le aziende sanitarie, proprio in quanto aziende e non più unità sanitarie, hanno messo e mettono allo stremo il personale addetto alla salute pubblica, personale precedentemente ridotto nelle varie operazioni di ristrutturazione aziendale. Vagonate di lavoratori che accettano di essere sfruttati di fronte all'evidente e dilagante fame di lavoro. È peggio di prima, non meglio. Quel poco che finalmente iniziavamo a capire, quel barlume di coscienza che stava animando le nostre anime letargiche, quel sussulto di consapevolezza di abitare una palla di terra dalla superficie finita, quel rigurgito di humanitas che per un attimo ci ha fatto sentire responsabili nei confronti delle generazioni future, niente, tutto svanito, rimandato a data da definirsi, come nel migliore dei summit sul clima. Sono altre le priorità ed è ora che tutti se lo mettano bene in testa. Al bando i sentimentalismi da fricchettoni, da gente che non ha il senso della realtà. Dobbiamo rimettere il pianeta in piedi, far ripartire l'economia a qualsiasi costo altrimenti... Altrimenti cosa? Spiegatemelo per bene, per favore.
La necessità indiscutibile di una rapida ripresa delle attività produttive dopo il lockdown vista come la grande occasione per sbarazzarsi dei pochi controlli e delle deboli norme ambientali e sanitarie esistenti. La tutela sanitaria degli individui appaltata dogmaticamente a società farmaceutiche. Il governo della società ridotto a mantenimento dell'ordine pubblico. Lo stato sociale demandato all'iniziativa e alla buona volontà dei singoli.
Quindi uscire perché?
Fiumi di insolenti carrette intasano nuovamente le strade, guanti e mascherine svolazzano ai bordi dei marciapiedi, prima di divenire, calpestate, appesantite dalla pioggia e dallo smog, grumi di materia indissolubile, ennesimo rifiuto alla cui vista assuefarsi. Negli asili i nostri figli vengono sepolti da bicchieri in plastica monouso* in barba alle buone intenzioni di appena un anno fa. Ovunque l’usa e getta si prende la rivincita sul buon senso.
Forse l'ambiente in cui viviamo è vero che ci determina ma noi, a nostra volta, lo determiniamo. Forse, mi viene da pensare, il degrado che ci circonda ha radici remote dentro di noi e da lì si propaga contagiando tutto per poi tornarci addosso e affossare definitivamente il nostro animo così che esso non possa dare altro che un ulteriore impulso verso il peggio in una spirale perversa verso il basso.
Uscire quindi per incrociare vacanzieri feroci che affermano la propria libertà riconquistata disseminando bottiglie, sacchetti, mozziconi di sigarette, come se appunto non ci fosse un domani? Bagnanti che insozzano le coste e strappano alle scogliere qualsiasi forma di vita ancora le abiti? Adolescenti che dalle finestre lanciano lattine sui tetti antistanti in un tiro a segno contro gabbiani e piccioni? Ragazzine che si vantano di avere accerchiato una loro coetanea araba e averla linciata, perché la malattia doveva tenersela al suo paese?
Gente che infetta l'ambiente delle proprie ferie con tale noncuranza da chiedersi come viva a casa propria o se, a tal punto alienata, da trovar beneficio interiore nell'insozzare ciò che non può possedere, che non può avere se non in un'unica e stremante settimana di ferie. Lo ammetto: non accetto più l'inutilità e la nocività di taluni esseri umani. Alle volte allo sconforto si alterna un giudizio inappellabile di condanna. Un'assoluta assenza di tolleranza.
Uscire poi per constatare l'inutilità dell'agire dei giusti? La sofferenza intollerabile di creature innocenti? Per essere spettatore impotente di ingiustizie terribili e crimini feroci? Per assistere allo stupro metodico della bellezza? All'offesa sistematica della vita?
Per ammirare il deambulare di corpi la cui vacuità è esito indotto e necessario alla sopravvivenza in una società ribaltata in nome dell'interesse di alcuni? Per constatare l'irreversibile intorpidimento di individui iperconnessi ma di fatto svincolati, esenti, illesi, immuni a disastri e dolori, nella vana pretesa di non contaminarsi, di non essere raggiunti dai mali che toccano gli altri? Individui per i quali vige l'equivoco della morte anonima, quella per cui si muore a migliaia ma è come se nessuno morisse. Una società chiusa, ripiegata su se stessa, composta da schiere di solitudini chiassose.
Noi, i primi a dover imparare daccapo a credere nella morte senza riuscirci. Ad aver rimosso il senso della ciclicità della vita. E, soprattutto, i primi a dover prendere sul serio in considerazione il fatto di essere forse inesorabilmente gli ultimi. E cosa facciamo? Usciamo nel mondo che ci è stato brevemente precluso e ricominciamo daccapo a usarlo come una cloaca a cielo aperto in cui riversare i nostri rifiuti domestici e mentali.
Ci comportiamo come se il futuro fosse un posto vuoto. E cos'è un posto vuoto se non un luogo in cui non vive nessuno e che si può quindi utilizzare come discarica?
Ma qual è il problema? Forse semplicemente viviamo in un tempo inabitabile. I minuti incombono e dileguano. In un mondo lanciato ad alta velocità su un tapis roulant che man mano aumenta la pendenza, il baratro alle spalle. Un mondo capovolto in cui ben poco avviene secondo logica ed etica, in cui l'empatia è debolezza da essere derisa, debolezza che lascia sfiancati coloro che la provano, a molti dei quali resta soltanto il pensiero del ramo d'un albero e di un nodo scorsoio come ultima ratio per non soccombere all'assurdo che circonda. Siamo dunque solo più questo? Esseri inetti del tutto incapaci di riprendere in mano le redini del nostro destino di Uomini?
Ma come fare? La vecchia sindrome di Tina (There is not alternative) si propaga più rapidamente del Covid19 e una volta intaccati i tessuti del cuore e del cervello non lascia scampo, non esiste cura. Così come (l'esempio più vicino che mi viene in mente) per le morti dirette e indirette dell'Ilva di Taranto, dove da sempre si vive in una situazione di confinamento e a seconda della direzione da cui arriva il vento si serrano le finestre, anche per la sindrome di Tina non esistono tamponi e statistiche. I morti sul campo non si contano perché è come non esistessero. Tutt'al più si potrebbero considerare vittime collaterali. Depressi che non si sono voluti curare nonostante i consigli di medici e conoscenti. Un po' di Xanax, in fondo, non ha mai fatto male a nessuno.
Siamo di fronte a uno, neanche più tanto graduale, smantellamento istituzionale. È in atto uno strisciante e sotterraneo slittamento di sovranità. La popolazione mondiale pare più che altro un ammasso di cavie per i laboratori sperimentali delle aziende, senza nemmeno il tentativo di una reale supervisione da parte di coloro che eleggiamo ad amministrare e tutelare noi e il bene comune. Il contratto sociale viene cambiato e stravolto nella sua essenza mentre ci consoliamo con una buona bevuta. Solitaria o tra pochi intimi, i rassegnati e i cinici, collettiva tutti gli altri.
Ogni paese del pianeta ha ormai al suo interno il suo terzo mondo, come si usava dire un tempo, così come in ogni paese c’è chi beneficia dei tanti processi di esclusione dei più. Non si vede altro nel panorama davanti ai nostri occhi. Siamo all'assurdo che i migliori servitori dello Stato, coloro che credono nella responsabilità del compito assegnatogli, sono trattati come i peggiori, perché tanto meglio governano, tanto più s'impegnano e restano al potere, tanto più sono pericolosi. Infatti dai tempi di Falcone e Borsellino, di tal tempra se n'è visti pochi e poi non se n'è visti più, almeno qui da noi. Alcune anime oneste si aggirano, certo, ma del tutto prive di mezzi e tenute all'angolo. Quando non, in giro per il pianeta, destinate a prigioni, torture, rapimenti, a vani scioperi della fame. Nella migliore delle ipotesi a una breve e inutile eco mediatica.
Il governo dei peggiori. Kakistocrazia si chiama. Questo paga.
Una società in cui l'alternanza politica nei governi avviene se non disturba. Biden potrà anche vincere perché non intende cambiare nulla, Navalny invece no. Le proteste, come quelle recenti a Hong-Kong o contro Lukashenko in Bielorussia, per quanto intense siano, sono tutte già sul nascere in odore di fallimento. Manifestare, protestare, arrabbiarsi, sperare. Inutile. Superato il punto di non ritorno. Perché le rivoluzioni non si attuano in virtù della loro moralità e legittimità. A essere determinanti sono i rapporti di forza su cui fa affidamento il potere per agevolarle o affossarle. Triste ma è l'evidenza degli esiti a confermarlo.
Viviamo in una società nella quale, senza voler scendere nell'abominio della compravendita di bambini da “ricreazione” e altri infami mercimonii e obbrobriose mercature, esiste un mercato in cui è possibile “comprare” il nome di una via in cui non si vive e un contratto di lavoro fasullo per poter essere riconosciuti come persone. Nella quale per compensare la compressione del tempo cui siamo costretti ci vengono offerte gratificazioni immediate, anch'esse, come elettrodomestici, a obsolescenza programmata. Nella quale novelli sofisti, maestri di retorica, manipolatori di significati, curvi e senza posa come galeotti ai remi, stuprano le parole, le schiantano, le trasformano, ed elaborano nuovi linguaggi per far apparire validi ragionamenti che non lo sono, buoni discorsi pessimi, e concedere spazio allo zoccolo duro dell'analfabetismo becero. Una società nella quale espelliamo con noncuranza criminale segmenti di biosfera dallo spazio vitale lasciando alle nostre spalle residui di terra morta e acque morte. Né possiamo più recuperarle. In cui nulla è più facile che screditare esperti onesti precipitandoli nel calderone ribollente dei complottisti. In cui le disuguaglianze sono condizione sine qua non del capitalismo globale mentre non lo è un'auspicabile cooperazione transnazionale di cui infatti non si vede traccia. Perché tra nazionalismi, balcanizzazioni, e aperture, tra coloro a favore del protezionismo e coloro che vogliono economie aperte in realtà non vi sono differenze. Perché malauguratamente i secondi non credono veramente all'internazionalismo ma cercano semplicemente di ottenere accordi più vantaggiosi o mercati che favoriscano vendite più facili.
Una società in cui la politica muore perché è diventata un gioco senza ragione e senza conoscenza, perché, incapacità e corruzione a parte, non è più sufficiente avere una coscienza di classe o sperare in un elettorato cosciente, ed è stupido rivaleggiare con differenti programmi di partito però tutti a breve e medio termine che non dicono granché e, alla resa dei conti, non portano a nulla. Una politica che abdica al proprio ruolo e delega ad agenzie per la sicurezza, a polizie statali e private, a forze militari, il controllo del territorio, perché consapevole che la situazione non potrà che peggiorare e perciò degenerare. Serve una coscienza di specie, come, tra molti altri, diceva già Maria Montessori, di cui a breve ricorrerà il 150esimo anniversario della nascita.
Continuo a pensare che dovremmo avere una visione cosmica della vita. Dovremmo riuscire, noi che ci vantiamo di essere superiori a ogni altro essere animale, a scorgere quella particella invisibile all'interno della quale, cominciata l'esplorazione, ci si accorge che non esistono confini di sorta e che si apre uno spazio infinito che porta oltre i limiti di ogni realtà visibile e verso una verità perlomeno intuibile. Dovremmo ambire a quella capacità di raggiungere la conoscenza di una realtà oggettiva proiettandoci mentalmente verso la realtà cosmica dell'esistenza umana. Come esseri sensibili quali siamo avremmo il dovere di interrogarci sulle nostre “origini” e difendere quella spiritualità che consente di rispettare ogni individuo vivente ed è portatrice del bene comune. Ma quanto siamo lontani da tale apertura mentale?
È vero che il nostro agire singolarmente non ha la forza di determinare un cambio di direzione, e comprendo la frustrazione di chi tenta di fare del bene e constata l'incremento del male su scala planetaria, ma non possiamo comunque chiamarci fuori e rinunciare all'esercizio della nostra responsabilità individuale. La frantumazione delle responsabilità, le difficoltà, l'assenza di risultati non possono essere un alibi. Tanto meno il cascare dal pero a ogni piè sospinto. Nell'anno del Signore 2020 l'ignorare lo stato delle cose non è accettabile, non è giustificabile, non è perdonabile. Altresì vero che vi sono dei “nemici” reali, potenti, in alcuni casi noti, che si spanciano di grasse e laide risate di fronte ai ridicoli tentativi di chi vorrebbe un mondo retto da onestà, equità, lungimiranza. Il gridar loro in faccia con rabbia, il chiedere conto e spiegazioni, il pretendere messe in stato d'accusa laddove necessario, non fa che accrescere la loro ilarità. Perché il meglio dell'esistenza umana è già finito, la guerra è già persa.
Come credere ancora?
Invocare un'etica socratica che regoli il pensiero e l'agire.
Far sì che ciascuno di noi viva, si comporti e consumi in modo che le sue scelte possano valere ed essere praticate da tutti i miliardi di donne e uomini che abitano il pianeta.
Stilare un piano di battaglia, pensando a una pianificazione gestionale del pianeta, con buona pace di chi, per pigrizia intellettuale, alla parola piano evoca spettri di dittature sinistre.
Stare sempre e comunque dalla parte delle vittime a prescindere dal campo di appartenenza, avere cura di chi è in difficoltà e battersi contro ogni forma di discriminazione.
Ma può una società smettere all'improvviso di fare qualcosa che ha sempre fatto? No, perché ci si accorge delle cose solo quando le si è capite. Ed è proprio contro la nostra capacità di comprendere e capire che da tempo metodicamente si opera una manomissione.
La tragedia è che, oltre a tutto questo, dobbiamo prepararci a una lunga serie di eventi pandemici come quello attuale. Abbiamo attribuito l'origine del virus a riprovevoli abitudini alimentari dei cinesi, ad attività illecite di qualche laboratorio criminale, a un complotto dei signori del male, abbiamo azzardato le più svariate ipotesi ma, se anche una di esse fosse vera oltre che verosimile, l'unica cosa certa è che il virus viene da noi, dal nostro stile di vita intensivo in ogni sua manifestazione. Agricoltura, allevamenti, metropoli, fabbriche. Probabilmente se durante il confinamento abbiamo patito disturbi del sonno è stato perché una qualche parte dentro ognuno di noi sa di avere, chi più chi meno, la coscienza sporca.
Permesso di uscita.
Forse, dovremmo per prima cosa provare a uscire da noi stessi e tentare di guardarci dal di fuori. Chissà che di fronte alla triste immagine dei nostri corpi piegati a tutto, del nostro sguardo vuoto, del nostro sorriso da centro commerciale, un rigurgito d'orgoglio non ci spinga a spogliarci di queste vesti guaste che indossiamo da troppo tempo e che non ci fanno onore.

Barbara Panelli                 Imperia 1° settembre 2020









*da due a quattro bicchieri al giorno per bambino, classe di quindici bambini, una media di cinquanta bicchieri/die, uguale un migliaio di bicchieri al mese. In una sola classe.