L'altro giorno ho scritto
un post sull'onda della preoccupazione per le derive negative, in
termini di perdità di diritti, che la gestione dell'emergenza in
corso porterà. Vorrei chiarire, visto che qualcuno mi ha chiesto se
penso che questa epidemia sia stata provocata da poteri forti e
occulti, che non lo penso. Penso però che sia una circostanza
agevolmente sfruttabile da chi ambisce ad avere un maggior controllo
e quindi un potere via via crescente. Insomma che caschi a fagiolo.
Oggi, invece, rifletto
solo sul virus in quanto tale.
Rifletto sulla frenesia
di movimento cui l'epidemia ci ha sottratti.
Che non sia questo il
tempo giusto e naturale, quello in cui ora siamo costretti? Che
l'alterazione dannosa non fosse in quella che prima ritenevamo la
normalità?
E rifletto
sull'importanza del memento mori, il ricordati che devi morire, che
ci è stato sbattuto in faccia.
Ricordarci e accettare
che siamo fatti di materia fragile e corruttibile. Che siamo creature
viventi legate indissolubilmente a ogni altra creatura vivente. Che
la morte è il nutrimento della vita e che con questa cosa dobbiamo fare pace.
Poi penso al mondo.
Penso che qui, in Europa,
s'inizia a parlare di fase due, di picco raggiunto, di discesa, come
se avessimo già dimenticato quanto abbiamo appena imparato, e cioè
che per il virus i confini non esistono. Quindi a meno di non voler
puntare all'autarchia e chiudersi ogni nazione a qualsivoglia
interazione con le altre, l'affacciarsi di una certa rilassatezza
ottimistica mi sembra veramente una cecità. L'unico picco da
considerare è quello mondiale. Siamo ancora lontani dal raggiungerlo
in salita, figurarsi la discesa è decisamente prematuro. Stiamo
scavando fosse comuni un po' ovunque e non è un bello spettacolo.
Finché si trattava dell'Iran vabbe', ma ora persino negli Stati
Uniti. E il peggio ha da venire. Gli tsunami africano, indiano,
sudamericano s'intravvedono all'orizzonte e sembrano piccoli, ma
quando si abbatteranno avranno un'altezza tale, una portata tale che
allora sì che faremo per bene i conti di tutto quanto. In termini di
perdite umane innanzitutto, di crisi sociali, economiche e politiche
a seguire.
Stiamo parlando di
nazioni in cui il distanziamento sociale spesso è impossibile, come
ad esempio in India, Paesi in cui anziché mascherine si
distribuiscono bare di cartone per smaltire i famigliari morti, Paesi
in cui i sistemi sanitari erano già al collasso, vedi ad esempio il
noto caso del Venezuela, o in cui sono se non praticamente
inesistenti, di certo insufficienti. Paesi in cui c'è un medico di
famiglia ogni tot migliaia di persone, in cui mancano i presidi base
e i letti in terapia intensiva sono poche decine in un'intera
nazione. Paesi che rischiavano l'insolvenza economica già prima
della pandemia in corso, soffocati dagli interessi su debiti estinti
da un pezzo, con capi di governo, senza nulla togliere ad alcuni
nostrani dei Paesi sviluppati, alternativamente se non
contemporaneamente, ignoranti, corrotti, criminali, e pertanto
incapaci di gestire l'emergenza.
Come possiamo non pensare
all'effetto domino, alle ripercussioni devastanti di ciò che sta per
accadere? Forse potremo cinicamente farci una ragione per la morte di
decine di migliaia di profughi costretti forzatamente in aree di
stazionamento “provvisorio”, per la morte di centinaia di
migliaia di persone che vivono in bidonvilles, slums, favelas,
baraccopoli in giro per il mondo, ma come faremo a gestire la perdita
di potere d'acquisto delle classi medio basse, visto che è su tale
potere che gira il mondo? A gestire il fallimento di intere filiere
produttive? A gestire il peso sanitario? La perdita di formazione per
i giovani, la disoccupazione cronica?
Eppure qui, le persone,
certe che a breve tutto rientrerà nella normalità, passano il tempo
a escogitare stratagemmi per raggiungere impunemente le proprie
seconde case.
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