lunedì 12 marzo 2018

A PROPOSITO DELL’ESITO ELETTORALE


Queste elezioni si sono giocate principalmente sul tema dell’immigrazione nel nostro paese. Quindi salto tutti gli altri punti su cui sarebbe peraltro interessante dibattere e arrivo alla questione principale.
Sono venuti allo scoperto i cosiddetti cripto razzisti, coloro che fino a ieri per pudore o vergogna hanno mantenuto un profilo basso e ora si sentono finalmente parte di un pensiero condiviso e pubblico. Scoprire che esiste un fronte comune diffuso contro quella che viene passata come un’illegittima invasione ha fornito impulso e alibi. Un senso di riconoscimento e di appartenenza che manleva dal farsi portavoce in prima persona di istanze scomode e altrimenti eticamente discutibili. È così che accade. Seguire la corrente per sottrarsi all'onere di porsi domande e cercare risposte, delegando al gruppo la scelta della direzione da intraprendere.
Prendere atto di ciò mi regala una buona dose di libertà. Libertà di non prendere più sul serio chi circoscrive il proprio dispiacere riguardo alle brutture del mondo al fremito emotivo suscitato da un singolo fatto, da una singola immagine, rimanendo però avvinghiato alla propria vita di sempre considerandola non negoziabile.
Innanzitutto sono stanca e stufa di tutti quelli che intasano il web di emoticon piangenti per ogni foto commovente di bimbo, che sia Aylan riverso sulla battigia, che sia la bimba che tappa gli occhi alla bambola per risparmiargli la vista della guerra, stufa di chi si commuove e s’indigna a singhiozzo e se ne fotte delle centinaia di bambini che muoiono ogni giorno, annegati, affamati, bombardati, e che nessuno scatto ha immortalato.
Sono stufa di chi dice, Non sono razzista ma questa è casa nostra. Queste sono le nostre cose. Il nostro lavoro. La nostra nazione. La nostra terra. Nostro è un aggettivo possessivo plurale che si richiama al pronome “noi” che a parer mio esprime inclusività ed invece nei fatti sempre più indica chiusura ed esclusione.
Sono stanca di tacere per quieto vivere. Di non trovare le parole con cui rispondere alla dissimulata ferocia, all'insolenza educata, all'inespugnabile assurdo blaterare. Sono stanca della banalità del male. Dell'ignoranza sbandierata, dell’indolenza intellettiva.
Andare a vedere. Toccarla, annusarla, provarla la vita.  Poi aprir bocca.
Voglio avvicinarmi alla signora per bene che in coda alla cassa qualche giorno fa, squadrando due donne maghrebine che stavano scegliendo uno smalto per unghie, osservava che la soluzione finale di Hitler resta ancora la migliore. Voglio dirle in modo gentile e pacato, Son le persone come lei ad essere inutili, dannose e superflue.
Io divido in buoni e cattivi. Come a scuola sulla lavagna. A questo punto sì. Una bella riga in mezzo e via. Per il resto siamo uguali e con questo per me il discorso è chiuso.  
A coloro che ribattono, Tu fai della filosofia e vai a indagare le cose perché evidentemente te lo puoi permettere, hai il tempo che ti avanza, Ti preoccupi degli altri perché te la passi bene, ce l’hai grassa, e avanti così senza sapere di cosa stanno parlando, fornirò copia del mio Isee e li inviterò dove abito per un caffè.
Non ce la faccio proprio a pensare che se la mia vita è difficile e piena di problemi, la colpa è di altre persone con una vita difficile e piena di problemi. Non mi riesce proprio. Il mio cervello s’inceppa nel tentativo di elaborare un pensiero tanto assurdo.  Se non trovo lavoro è colpa tua perché lo stai cercando anche tu. Suvvia.
Non riesco a dividere lo spazio in fuori e dentro, soprattutto se i requisiti per stare dentro si riferiscono a un arbitrario diritto di proprietà sancito dall’essere nati nel territorio del dentro, dal parlare un idioma comune e vestirsi in un certo modo.
Eppure a tutto ciò diamo il nome di diritto acquisito, di difesa della democrazia.
Una democrazia che trae la propria legittimazione dalla nazione di appartenenza a partire da una base etnica, linguistica, culturale e di converso ne legittima l’esistenza e la rafforza.
Una nazione fondata sul territorio, sul possesso del territorio e in cui i cittadini si sentono naturalmente proprietari dei luoghi in cui sono nati e vivono. Una democrazia che vale solo per loro.
Una democrazia le cui idee universali non varcano i confini, non ne hanno la forza, e smettono di essere valide diventando inapplicabili all'altro. Ecco la colpa prima dei migranti: portare in evidenza la falla del sistema. Muoversi e portare alla luce il fallimento di una democrazia che mostra tutta la propria debolezza nel momento in cui si riferisce al mondo “esterno”. Un’inclusione che vale solo per l’interno e diviene esclusione quando rivolta all’esterno. Il paradosso, il cortocircuito delle fondamenta stesse della democrazia nel momento in cui  mette alla prova la sua universalità. Chi migra ha per questo l’onere di affrancarsi da una colpa attribuita d’ufficio. Non importa chi è, non importano le sue idee, le sue vicissitudini, i suoi ideali. Non importa la sua storia, quella della sua famiglia, quella del paese di provenienza. Alla pari, livellati in un’unica massa informe che nulla ha a che vedere con noi. Una massa indistinta che risveglia paure ancestrali, l’orror vacui in cui ogni essere umano potrebbe precipitare.
Chi si sposta viene a trovarsi in un luogo dove non dovrebbe essere, in un luogo altrui e che quindi non gli spetta. Ma quale arbitraria investitura abbia stabilito la legittimità della precedente occupazione sarebbe da stabilirsi.
Come fare senza mezzi? Come fare se non ce n’è neanche per noi? Come integrare chi è tanto diverso culturalmente? Abbiamo sviluppato un buon senso immunitario. Un rifiuto verso chi arriva come premurosa sollecitudine nei suoi confronti
Ma ogni volta che affermiamo che ognuno deve vivere nel proprio paese stiamo emettendo una condanna. Non possiamo accogliere implica l’impronunciabile lasciamoli morire. Implica l’attribuzione di una minor quota di umanità all'altro fino all'estrema conclusione che i migranti non sono umani. Almeno non quanto noi.
Proviamo a immaginare di essere improvvisamente colpiti da amnesia e di non ricordare il luogo in cui siamo nati, di non ricordare nulla delle nostre origini, e di iniziare a muoverci sulla terra alla ricerca di un posto dove stare e in cui riconoscerci. Ecco, allora scopriremmo improvvisamente l’assurdità e l’iniquità delle regole che oggi stabiliscono chi ha diritti e chi no. Pretenderemmo che la libertà di movimento divenisse diritto fondamentale. Vedremmo la cittadinanza come privilegio feudale.
L’immigrazione selvaggia e incontrollata va regolamentata, si afferma a gran voce. Il punto è che è obsoleto parlare di emigrazione ed immigrazione. Si tratta semplicemente di migrazione. Il territorio è unico e finito. O si trova il modo di condividerlo equamente o non voglio più sentire parlare di etica e diritti umani. Certo, i passi si fanno uno alla volta. Iniziando dall'Europa. È necessario rivedere il Trattato di Dublino, esigere una politica europea degna di questo nome che responsabilizzi ogni stato membro, creare dei corridoi aperti, ma non si possono perdere di vista i valori che rendono un essere umano degno di definirsi tale e ognuno nella propria individualità deve muoversi per la creazione di un futuro cosmopolita. Schiere di filosofi hanno affrontato l’argomento e spesso sono giunti a un impasse ma ciò non è sufficiente per arrendersi, a meno di non rinunciare appunto a quell'humanitas cui tanto volentieri richiamiamo.
Altrimenti il mondo sarà per alcuni e alcuni altri avanzeranno fuori dalla conta.
E cosa facciamo di quelli che restano, di quelli che avanzano? Gli apolidi, i senza patria, i rifugiati. Esseri contaminati principalmente dalla povertà. Infatti non è lo straniero di per sé, non è il migrante in quanto tale che rifiutiamo. Se il suo portafogli gli permette di non intaccare i nostri privilegi siamo disposti a chiudere un occhio sulle tanto esecrate diversità culturali.  È che oggi esiste uno straniero più straniero di altri, il povero che abbiamo creato e che ora bussa alla porta.
Esseri contagiosi, indesiderabili, scomodi, per cui alcun posto è previsto nell'ordine mondiale così come oggi è pensato. Ed è proprio a partire dalle categorie di pensiero che bisogna agire, dal significato dei termini che usiamo e come li usiamo. Dal nostro rifiuto non solo di trovare ma proprio di cercare le cause prime degli eventi. Di assumerci ognuno la nostra propria quota di responsabilità. Smettere di comportarci come se la povertà fosse una catastrofe naturale inevitabile di cui nessuno è responsabile. Invece, in questo mondo diasporizzato in cui sono saltati confini geopolitici e concettuali, ci si ostina a decontestualizzare gli accadimenti anziché vedere gli obblighi conseguenti  alle sempre più strette interdipendenze e connessioni planetarie. Siamo di fronte a una frammentazione delle responsabilità per la quale l’essere inconsapevoli, il non vedere gli effetti negativi delle proprie singole azioni, non rende innocenti. Non ci si può più esimere. Non è più il tempo di accampare giustificazioni.
E poi basta con questa  pretestuosa distinzione tra profughi e migranti, come se la guerra civile mondiale in corso si facesse solo con le bombe.
La cittadinanza dev'essere giuridica e avulsa dall'origo. Perché, domando, una comunità deve essere retta da una discendenza genetico territoriale? E non invece dalla partecipazione politica di cittadini che esercitano i propri diritti e ottemperano ai propri doveri all'interno di una compagine sociale cosmopolita?
È il momento per un autentico nuovo ordine mondiale, per nuove forme politiche ancora inimmaginabili ai più. L’ottenimento dello Jus migrandi richiederà una lotta simile a quella combattuta per l’abolizione della schiavitù (che peraltro sussiste) e sarà il punto di partenza per un cambiamento socio politico dovuto, tanto inevitabile quanto auspicabile, in cui saranno giustamente preservate le identità culturali e linguistiche, ma nel quale per i grandi temi, la salute, la preservazione dell’ambiente, il lavoro, la giustizia, la tassazione e il welfare, dovrà esistere una governance planetaria del tutto indipendente dal potere finanziario e da interessi particolari.


10 marzo 2018 


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