Queste elezioni si sono giocate principalmente sul tema dell’immigrazione
nel nostro paese. Quindi salto tutti gli altri punti su cui sarebbe peraltro interessante
dibattere e arrivo alla questione principale.
Sono venuti allo scoperto i cosiddetti cripto razzisti, coloro che
fino a ieri per pudore o vergogna hanno mantenuto un profilo basso e ora si
sentono finalmente parte di un pensiero condiviso e pubblico. Scoprire che
esiste un fronte comune diffuso contro quella che viene passata come un’illegittima
invasione ha fornito impulso e alibi. Un senso di riconoscimento e di appartenenza
che manleva dal farsi portavoce in prima
persona di istanze scomode e altrimenti eticamente discutibili. È così che
accade. Seguire la corrente per sottrarsi all'onere di porsi domande e cercare
risposte, delegando al gruppo la scelta della direzione da intraprendere.
Prendere atto di ciò mi regala una buona dose di libertà. Libertà di
non prendere più sul serio chi circoscrive il proprio dispiacere riguardo alle
brutture del mondo al fremito emotivo suscitato da un singolo fatto, da una
singola immagine, rimanendo però avvinghiato alla propria vita di sempre
considerandola non negoziabile.
Innanzitutto sono stanca e stufa di tutti quelli che intasano il web
di emoticon piangenti per ogni foto commovente di bimbo, che sia Aylan riverso
sulla battigia, che sia la bimba che tappa gli occhi alla bambola per
risparmiargli la vista della guerra, stufa di chi si commuove e s’indigna a
singhiozzo e se ne fotte delle centinaia di bambini che muoiono ogni giorno,
annegati, affamati, bombardati, e che nessuno scatto ha immortalato.
Sono stufa di chi dice, Non sono razzista ma questa è casa nostra.
Queste sono le nostre cose. Il nostro lavoro. La nostra nazione. La nostra
terra. Nostro è un aggettivo possessivo
plurale che si richiama al pronome “noi” che a parer mio esprime
inclusività ed invece nei fatti sempre
più indica chiusura ed esclusione.
Sono stanca di tacere per quieto vivere. Di non trovare le parole con
cui rispondere alla dissimulata ferocia, all'insolenza educata, all'inespugnabile
assurdo blaterare. Sono stanca della banalità del male. Dell'ignoranza
sbandierata, dell’indolenza intellettiva.
Andare a vedere. Toccarla, annusarla, provarla la vita. Poi aprir bocca.
Voglio avvicinarmi alla signora per bene che in coda alla cassa
qualche giorno fa, squadrando due donne maghrebine che stavano scegliendo uno
smalto per unghie, osservava che la soluzione finale di Hitler resta ancora la
migliore. Voglio dirle in modo gentile e pacato, Son le persone come lei ad
essere inutili, dannose e superflue.
Io divido in buoni e cattivi. Come a scuola sulla lavagna. A questo
punto sì. Una bella riga in mezzo e via. Per il resto siamo uguali e con questo
per me il discorso è chiuso.
A coloro che ribattono, Tu fai della filosofia e vai a indagare le
cose perché evidentemente te lo puoi permettere, hai il tempo che ti avanza, Ti
preoccupi degli altri perché te la passi bene, ce l’hai grassa, e avanti così
senza sapere di cosa stanno parlando, fornirò copia del mio Isee e li inviterò dove abito per un caffè.
Non ce la faccio proprio a pensare che se la mia vita è difficile e
piena di problemi, la colpa è di altre persone con una vita difficile e piena
di problemi. Non mi riesce proprio. Il
mio cervello s’inceppa nel tentativo di elaborare un pensiero tanto assurdo. Se non trovo lavoro è colpa tua perché lo
stai cercando anche tu. Suvvia.
Non riesco a dividere lo spazio in fuori e dentro, soprattutto se i
requisiti per stare dentro si riferiscono a un arbitrario diritto di proprietà
sancito dall’essere nati nel territorio del dentro, dal parlare un idioma
comune e vestirsi in un certo modo.
Eppure a tutto ciò diamo il nome di diritto acquisito, di difesa della
democrazia.
Una democrazia che trae la propria legittimazione dalla
nazione di appartenenza a partire da una
base etnica, linguistica, culturale e di converso ne legittima l’esistenza e la
rafforza.
Una nazione fondata sul territorio, sul possesso del territorio e in cui
i cittadini si sentono naturalmente proprietari dei luoghi in cui sono nati e
vivono. Una democrazia che vale solo per loro.
Una democrazia le cui idee universali non varcano i confini, non ne
hanno la forza, e smettono di essere valide diventando inapplicabili all'altro. Ecco la colpa prima dei migranti: portare in evidenza la falla del sistema. Muoversi e portare alla luce il fallimento di una democrazia che mostra tutta la propria debolezza nel momento in cui si riferisce al mondo “esterno”. Un’inclusione che vale solo per l’interno e diviene esclusione quando rivolta all’esterno. Il paradosso, il cortocircuito delle fondamenta stesse della democrazia nel momento in cui mette alla prova la sua universalità. Chi migra ha per questo l’onere di affrancarsi da una colpa attribuita d’ufficio. Non importa chi è, non importano le sue idee, le sue vicissitudini, i suoi ideali. Non importa la sua storia, quella della sua famiglia, quella del paese di provenienza. Alla pari, livellati in un’unica massa informe che nulla ha a che vedere con noi. Una massa indistinta che risveglia paure ancestrali, l’orror vacui in cui ogni essere umano potrebbe precipitare.
Chi si sposta viene a trovarsi in un luogo dove non dovrebbe essere,
in un luogo altrui e che quindi non gli spetta. Ma quale arbitraria investitura abbia stabilito la legittimità della
precedente occupazione sarebbe da stabilirsi.
Come fare senza mezzi? Come fare se non ce n’è neanche per noi? Come
integrare chi è tanto diverso culturalmente? Abbiamo sviluppato un buon senso
immunitario. Un rifiuto verso chi arriva come premurosa sollecitudine nei suoi
confronti
Ma ogni volta che affermiamo che ognuno deve vivere nel proprio paese
stiamo emettendo una condanna. Non possiamo accogliere implica
l’impronunciabile lasciamoli morire. Implica l’attribuzione di una minor quota di
umanità all'altro fino all'estrema conclusione che i migranti non sono umani. Almeno non quanto noi.
Proviamo a immaginare di essere improvvisamente colpiti da amnesia e di
non ricordare il luogo in cui siamo nati, di non ricordare nulla delle nostre origini, e
di iniziare a muoverci sulla terra alla ricerca di un posto dove stare e in cui
riconoscerci. Ecco, allora scopriremmo improvvisamente l’assurdità e l’iniquità delle
regole che oggi stabiliscono chi ha diritti e chi no. Pretenderemmo che la
libertà di movimento divenisse diritto fondamentale. Vedremmo la cittadinanza come privilegio feudale.
L’immigrazione selvaggia e incontrollata va regolamentata, si afferma a
gran voce. Il punto è che è obsoleto parlare di emigrazione ed immigrazione. Si
tratta semplicemente di migrazione. Il territorio è unico e finito. O si trova
il modo di condividerlo equamente o non voglio più sentire parlare di etica e
diritti umani. Certo, i passi si fanno uno alla volta. Iniziando dall'Europa. È
necessario rivedere il Trattato di Dublino, esigere una politica europea degna
di questo nome che responsabilizzi ogni stato membro, creare dei corridoi
aperti, ma non si possono perdere di vista i valori che rendono un essere umano
degno di definirsi tale e ognuno nella propria individualità deve muoversi per
la creazione di un futuro cosmopolita. Schiere di filosofi hanno affrontato l’argomento
e spesso sono giunti a un impasse ma ciò non è sufficiente per arrendersi, a meno
di non rinunciare appunto a quell'humanitas cui tanto volentieri richiamiamo.
Altrimenti il mondo sarà per alcuni e alcuni altri avanzeranno fuori
dalla conta.
E cosa facciamo di quelli che restano, di quelli che avanzano? Gli
apolidi, i senza patria, i rifugiati. Esseri contaminati principalmente dalla
povertà. Infatti non è lo straniero di per sé, non è il migrante in quanto tale
che rifiutiamo. Se il suo portafogli gli permette di non intaccare i nostri
privilegi siamo disposti a chiudere un occhio sulle tanto esecrate diversità
culturali. È che oggi esiste uno
straniero più straniero di altri, il povero che abbiamo creato e che ora bussa
alla porta.
Esseri contagiosi, indesiderabili, scomodi, per cui alcun posto è previsto
nell'ordine mondiale così come oggi è pensato. Ed è proprio a partire dalle
categorie di pensiero che bisogna agire, dal significato dei termini che usiamo
e come li usiamo. Dal nostro rifiuto non solo di trovare ma proprio di cercare
le cause prime degli eventi. Di assumerci ognuno la nostra propria quota di
responsabilità. Smettere di comportarci come se la povertà fosse una catastrofe naturale
inevitabile di cui nessuno è responsabile. Invece, in questo mondo diasporizzato in cui sono saltati confini
geopolitici e concettuali, ci si ostina a decontestualizzare gli accadimenti
anziché vedere gli obblighi conseguenti
alle sempre più strette interdipendenze e connessioni planetarie. Siamo di
fronte a una frammentazione delle responsabilità per la quale l’essere
inconsapevoli, il non vedere gli effetti negativi delle proprie singole azioni,
non rende innocenti. Non ci si può più esimere. Non è più il tempo di accampare
giustificazioni.
E poi basta con questa pretestuosa distinzione tra profughi e migranti,
come se la guerra civile mondiale in corso si facesse solo con le bombe.
La cittadinanza dev'essere giuridica e avulsa dall'origo. Perché,
domando, una comunità deve essere retta da una discendenza genetico
territoriale? E non invece dalla partecipazione politica di cittadini che
esercitano i propri diritti e ottemperano ai propri doveri all'interno di una
compagine sociale cosmopolita?
È il momento per un autentico nuovo ordine mondiale, per nuove forme
politiche ancora inimmaginabili ai più. L’ottenimento dello Jus migrandi
richiederà una lotta simile a quella combattuta per l’abolizione della schiavitù (che
peraltro sussiste) e sarà il punto di partenza per un cambiamento socio
politico dovuto, tanto inevitabile quanto auspicabile, in cui saranno
giustamente preservate le identità culturali e linguistiche, ma nel quale per i grandi
temi, la salute, la preservazione dell’ambiente, il lavoro, la giustizia, la
tassazione e il welfare, dovrà esistere una governance planetaria del tutto
indipendente dal potere finanziario e da interessi particolari.
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