sabato 13 luglio 2024

IL GATTO NERO

 

È diventato un gatto nero bello grosso. Quasi ingombrante. Anzi proprio un gatto mammone pronto a gettarsi sulle nostre anime tremolanti e colpevoli. Giusto che sia così. Perché ognuno di noi singolarmente è responsabile. Colpevole forse è eccessivo anche se, visto che le colpe esistono, ogni tanto bisognerebbe farsene carico.

Sui social sono state dette, o urlate, tante cose ed è così vasta la gamma di commenti che riproporli uno via l’altro creerebbe solo ulteriore confusione sulla faccenda. Sommariamente le posizioni si possono raggruppare in tre schieramenti principali. Il primo conta coloro che sono rimasti sconvolti, addolorati, increduli. Il secondo raggruppa gli arrabbiati, i furiosi, i linciatori, gli occhio per occhio dente per dente. Il terzo gli indulgenti, quelli che minimizzano, quelli che ci sono cose ben più gravi, quelli che i nomi non vanno fatti, quelli che sono solo minorenni. Posizioni contrastanti espresse inesorabilmente insultandosi, in un crescendo di denigrazione reciproca tra utenti di tastiere che dimostra di che pasta siamo fatti e di quanto la crescente incapacità umana di fare il punto collaborando nel confronto sia ormai irreversibile. In particolare, devo ammettere, mi urtano quelli che, esemplificando, dicono “Ma con tutte le atrocità che vivono milioni di bambini nel mondo stiamo a fare una questione di Stato per un gattino?” Quella logica ferrea che presuppone che se uno manifesta una reazione riguardo a un fatto significa che di altri fatti se ne sbatta. E, per inciso, ci tengo a sottolineare che nel caso specifico del gattino m’importa relativamente. Non è il focus delle mie riflessioni ma un semplice punto di partenza e se non fosse stato per le tonnellate di cattiverie che sono venute fuori probabilmente non avrei scritto una riga in merito.

Comunque, tornando alle varie posizioni, secondo me hanno tutti ragione e tutti torto. Nel senso che a caldo ciascuna posizione ha una sua legittimità ma ciò che ha determinato il lancio dell’ormai famoso gattino nero è un insieme di cause interconnesse e complesse.

Sto cercando in questi giorni di mettere giù le basi per un pezzo su intelligenza artificiale, algoritmi, tecnologie virtuali e vorrei evitare di ripetermi qui ma indubbiamente una correlazione con quanto accaduto c’è ed è a essa che vorrei limitarmi con due considerazioni.

La sperimentazione dell’esistenza delle nuove generazione avviene per lo più attraverso mezzi tecnologici (al momento direi in massima percentuale attraverso un unico mezzo tecnologico) che propongono una versione della realtà non adesa alla materia. I sensi sì sono coinvolti ma le esperienze possono essere riprodotte all’infinito. Game over significa conclusione temporanea. Tutto è ripetibile finché si ottengono il risultato e il punteggio ambiti. Si muore e si resuscita. Si uccide ma non davvero. Il sangue è fatto di pixel, la carne maciullata anche. Questa la prima considerazione. Ed è, specifico per non venire immediatamente tacciata di essere antica, una considerazione fatta da una cinquantottenne mezza nerd priva di pregiudizi nei confronti del mondo virtuale e amante delle tecnologie. La differenza è che io, come molti altri, sia per età che per formazione, possiedo un retroterra o, per farmi capire, un background di esperienze e studi tale che non ho alcun problema a distinguere fruizione attiva da fruizione passiva e, soprattutto, virtuale da reale. Tralascio qui le infinite e filosofiche riflessioni su cosa sia o possa essere la realtà. Restando terra terra, mi limito a dire che personalmente sono in grado di distinguere tra un’uccisione o un danno reali e analoghi virtuali. L’imprinting fortissimo cui invece sono sottoposti i giovani a partire da un’età sempre più prossima alla primissima infanzia è qualcosa della cui portata non siamo ancora ben consci. Riuscire a esserlo è un lavoro. Una conoscenza approfondita delle nuove tecnologie e della loro progressiva e rapida evoluzione comporta tempo e studio e lo stile di vita della maggior parte di noi non consente di stare al passo della questione con aggiornata cognizione di causa, per cui è normale e scusabile il nostro sottovalutare. La realtà, però, per le nuove generazioni è quella roba lì che si vede negli schermi. Quando lo sguardo si allontana da essi quello che si trovano di fronte queste creature prive di strumenti di analisi e critica non è altro che un’estensione un poco bizzarra del loro mondo abituale. Il gattino è vivo, è morto, è vivo, è morto, chi lo sa? Insomma una riedizione riduttiva e triste del gatto di Schrödinger. Scagliarlo da un parapetto per vedere l’effetto che fa è un atto normale. Non è uccidere veramente. Lo si capisce dai commenti in cui i ragazzi si giustificano. “A immaginare prima tutta la bagarre che è seguita al nostro atto non lo avremmo fatto!”. Il problema è la bagarre, non l’atto compiuto. Per questo mi rifiuto di attribuire loro una colpa. Certo che viene voglia di prenderli a sberloni e insegnargli a stare al mondo, forse però è proprio nell’insegnare a stare al mondo che siamo stati latitanti. Con buona pace di chi avanzerà obiezioni del tutto legittime su necessità famigliari, orari di lavoro, complessità e logorio della vita moderna, di fatto abbiamo delegato. Giustificati. Costretti. Ma l’abbiamo fatto. Si è iniziato con il delegare ai nonni, poi alla televisione, ora agli smartphone. Riguardo i nonni, visto che ho ricevuto critiche dure in merito, vorrei spiegare che un conto è che l’affidare avvenga in un contesto di famiglia tradizionale, potremmo dire di impostazione contadina, in cui convivono varie generazioni e nell’arco delle ore lavorative i compiti di cura vengono lasciati a chi è più anziano e non lavora più ma è ancora in grado di provvedere alle mansioni domestiche o comunque di trasmettere insegnamenti, un conto è quando ciò avviene in una società in cui ognuno vive a casa propria e i nonni devono farsi perdonare del peso sociale che rappresentano facendo risparmiare sulla baby sitter. Sto ampiamente generalizzando, è ovvio, ma percentualmente la sostanza è questa. Comunque sia, esiste una responsabilità collettiva che risale indietro di qualche generazione. Anzi, una mancanza di assunzione di responsabilità cui appunto di generazione in generazione a succedersi si può sempre meno attribuire colpa proprio perché si sono esponenzialmente ridotti un passo alla volta gli strumenti mentali dei futuri genitori. Infatti una delle domande oggi è: che genitori riusciranno mai a essere queste povere creature? Perché questo sono. Povere creature. Povere perché li abbiamo impoveriti, gli abbiamo sottratto la capacità di comprendere, di analizzare e dunque interagire criticamente con l’ambiente in cui stanno crescendo. Un ambiente in velocissima evoluzione. Non sto dicendo che i giovani siano inetti, incapaci, stupidi. Sto dicendo che nemmeno noi “adulti” abbiamo gli strumenti per gestire tale velocità, gli stessi insegnanti non hanno, e non possono avere per motivi di tempo e programmi ministeriali da rispettare, la formazione adeguata per farlo, quindi come possiamo aspettarci che degli adolescenti possano gestire tali enormi e pesanti cambiamenti in modo ineccepibile? Possono solo lasciarsi andare al flusso della corrente, immergersi in quello che incontrano durante la loro crescita ritenendo a buon diritto che la vita sia quello che incontrano. Ogni generazione ha fatto così. E parliamo di una generazione che ha comunque percepito benissimo di avere di fronte un futuro di merda. Senza tirare in ballo il discorso green che sennò apro una parentesi di pagine dal tono bellicoso nei confronto di tutti quanti, green e no green, è indubbio che questi ragazzi si ritroveranno adulti a dover pagare per l’aria che respirano. Pieni di debiti a babbo morto, senza prospettive degne, già abituati al degrado dove ti giri ti giri.

Per la seconda considerazione mi rifaccio alle “challenges”, alle sfide riportate sempre più frequentemente dalla cronaca e comunque sempre in misura da punta dell’iceberg. In tutte le modalità declinabili. Che siano repliche di fight club con appuntamenti di gruppo per menarsi come se non ci fosse un domani, o imprese individuali sconsiderate come stare attaccato esternamente al vagone di un treno in corsa alla caccia di likes, o ancora torturare se stessi, torturarsi reciprocamente, torturare animali, tutte quante esse si verificano a mio avviso per tre motivi principali: la noia o meglio l’assenza di stimoli che producano entusiasmo e voglia di realizzare qualcosa di bello e importante (e come non capire tale stato d’animo?), l’identificazione del proprio esistere con il numero di “mi piace” perché quello è il metro di autoriconoscimento esistenziale che gli abbiamo lasciato in eredità, e, non ultima, la curiosità di trasporre “fuori” (nel mondo dei vecchi) le esperienze provate “dentro” nel mondo reale in cui vivono loro, i giovani per vedere, come scrivevo sopra, l’effetto che fa.

Dunque sì, hanno compiuto un gesto grave, non si discute, ma sono portatori delle colpe dei padri e, non lo sanno, ma stanno già scontando la pena. E fine pena mai.

Esistono certo isole felici, enclavi sociali in cui una minoranza di essi può godere di buoni insegnamenti, di esperienze formative decenti, di relazioni umane esemplari, e ciò non necessariamente legato all’appartenenza a una classe sociale benestante o ricca, ma tali realtà non possono rappresentare la media da cui è necessario partire per un’analisi verosimile.

Per concludere.

Giusto l’altro ieri sono riuscita finalmente a concedermi una nuotata. A pochi metri da me erano sdraiate due ragazze fotocopia che ascoltavano brani di musica per me inascoltabili (ma non voglio entrare nel merito dei gusti musicali di ognuno, ci mancherebbe) cantandone i testi senza sbagliare una parola. Confesso di non aver recepito una frase di senso compiuto ma anche questo è marginale. O almeno spero lo sia, considerato il recente racconto di una madre che ha accompagnato la figlia quindicenne a un concerto e sotto il palco un’orda di ragazze pettinate, truccate e agghindate uguali inneggiava pollici in su il cantante che urlava che le donne sono buone solo per fare pompini o per essere stuprate. Tornando alle due ragazze in spiaggia, cantavano e, sempre sdraiate, ballavano con le mani (come ho visto fare da una influencer di cui non ricordo il nome) riproducendo una sequenza di gesti in alcuni passaggi allusivi e volgari, il tutto filmandosi soddisfatte. Unghie lunghissime, french manicure (si dice ancora così?) elaborate e anelli su ogni dito. Dopo una mezz’ora di esibizioni hanno spento la musica soddisfatte e si sono messe a chiacchierare ridendo a ogni frase. Ne ho colte due a qualche minuto una dall’altra.

Ma secondo te le unghie vanno ancora bene per i video o sono già antiquate? Le abbiamo fatte dieci giorni fa, dovremmo controllare su tiktok prima di mettere online!”

...

Comunque adesso cosa facciamo? È tutto una noia. Sai cosa dovremmo fare? Hai visto quanto parlano di ‘sta storia del gattino di merda? Stasera parliamo con i ragazzi. Dovremmo farlo anche qui. Un gattino da qualche parte lo troviamo ma dobbiamo lanciarlo da un posto più figo, eh, cosa ne dici?”


Amen.


p.s. Hanno osservato che l’atteggiamento delle due ragazze rappresenta la trasgressione tipica degli adolescenti quando sono liberi dal controllo genitoriale o scolastico. Stupidate da vacanza per farsi notare e fingere di essere grandi. Mi permetto di dissentire. Sì, le motivazioni di partenza sono sempre le stesse e le “trasgressioni” raramente sono esenti da conseguenze ma le modalità odierne sono tristi e inquietanti. Forse perché più che trasgressioni sono atteggiamenti in odore di omologazione inconsapevole. Ne siamo vittima noi grandi, figuriamoci loro. Spero di sbagliare.