Nel cortile il bambino vede per la prima volta un africano, sgrana
gli occhi meravigliato ed esclama “Ma è tutto nero!”
L’africano sorride, io di rimando.
Se il bambino avesse conosciuto la parola negro, forse avrebbe
esclamato “Ma è tutto negro!”
E, probabilmente, l’epilogo sarebbe stato identico.
Perché a comandare non è la parola ma il sentire. Nel caso
specifico, la meraviglia.
E la meraviglia suscita sorriso perché arriva dal cuore.
Le parole sono tutte pure. In linea di massima.
La descrizione di ciò che si presenta alla vista, ai sensi in
generale, attraverso l’utilizzo di termini presenti nei vocabolari
non è deprecabile di per sé. Può essere criticabile e riprovevole
in specifici contesti e, soprattutto, sulla base di un’intenzione
negativa. Anche parole belle possono essere usate in modo offensivo.
E, sin qui, tutto molto ovvio.
Ora è però in atto una vera e propria guerra ideologica
sull’utilizzo delle parole. Chi le vuole eliminare, chi ne vuole
manipolare i significati, chi ne vuole ridurre il numero. Con buona
pace della capacità di elaborazione del pensiero critico e quindi
della libertà.
Un conflitto che sta ulteriormente dividendo la società per il
tramite di un processo di ristrutturazione manicheistica del pensiero
che non può che portare allo smarrimento della ragione e alla
disintegrazione definitiva della società stessa. Infatti,
l’impostazione o bianco o nero è già ben radicata. Che si parli
di ecologia, di conflitti, di clima, e a seguire un elenco
lunghissimo le cui voci meriterebbero ognuna una trattazione
dedicata, o si sta da una parte o dall’altra, o sei con me o sei
contro di me. Non è contemplato né contemplabile che ci sia del
vero nelle asserzioni di entrambe le parti che si fronteggiano, né
che entrambe possano sbagliare. Gli uni hanno totalmente ragione, gli
altri totalmente torto. Chi siano gli uni e chi gli altri dipende
dalla parte presso cui ci si colloca.
Questo il terreno da cui si parte.
Poi, iniziando dal politicamente corretto, si arriva alla cancel
culture e si
procede
con le varie derive.
Ho un amico che all’alba spazza le strade del quartiere. Il mio
amico fa lo spazzino. Ho sempre ritenuto il suo un bel lavoro. Mi
piace alzarmi molto presto quando la città è silenziosa, mi piace
pulire, mi piace il decoro. Avrei fatto volentieri la spazzina.
Mio nonno era cieco. Una ferita di guerra. Allo sbarco in Sicilia si
era unito agli americani. È morto a novant’anni. Ben lucido.
Ricordo che s’infastidì quando udì dire per la prima volta “non
vedente”. Gli pareva assurdo doversi definire attraverso una
locuzione negativa quando dire cieco esemplificava la faccenda. E,
con l’ironia caustica che lo contraddistingueva, sciorinava una
serie di esempi. Uomo dalla schiena non dritta (che per lui non avere
la schiena dritta aveva un altro e ben preciso significato), uomo con
una gamba diversamente lunga, uomo non magro,...
Gobbo, zoppo, grasso. Dov’è il problema? Chiedeva.
Minorato,
infelice, storpio, infermo, menomato, offeso.
Quant’era
ricca la lingua italiana per definire gli sfortunati? Perché fare
giri di parole? Per non identificare la persona con il proprio
handicap? Bene
ma
questo è un problema di chi sta attorno e
deve
imparare a stare al mondo e a
non
giudicare uno perché gli manca magari
un
piede senza
considerare tutto quello che invece non gli manca e per cui magari
si distingue o eccelle.
Detestava
i comportamenti fastidiosamente
commiserevoli.
Chi sta attorno se lo deve proprio dimenticare che a
uno gli
manca un piede. O che è cieco. Ovviamente entro i limiti della
sicurezza. Specificava.
Un caro amico
privo di un braccio, nessuno lo invitava a cena e quando capitava,
brodini e purè. Indossava un orribile antica
protesi di plastica. D’estate maniche
lunghe. Una volta l’ho invitato e, sapendo che ama la carne,
bistecca con patate. “Bistecca?” ha
sbottato stupito
quando si è trovato il piatto davanti. “Sì, bistecca. Te la
taglio io. E togliti ’sta
felpa che fa caldo e
magari pure il braccio che tanto tutti
sanno che ti manca.” Per quanto subito
contrariato per essere stato colto
alla sprovvista, si è poi
sentito alleggerito
da un peso e, a
fine serata, mi ha ringraziato. Troppi
scrupoli e precauzioni nei suoi
confronti lo obbligavano
a una
costrizione
maggiore di quella cui era da
sempre vincolato e che era già
sufficientemente faticosa.
Per non offendere si
corre facilmente
il rischio che la parola divenga
tabù, e nel suo caso le parole tabù
erano tante: braccia, protesi, tirare, lanciare, sollevare,
abbracciare, un’infinita teoria di verbi legati all’uso delle
braccia. E
così si ritrovava amputato nella vita, nel dialogo, nella relazione,
ben più di quanto non lo fosse per il braccio mancante.
Chiamiamo le cose con il loro nome! Non c’è nulla di male.
Si può dire anche negro. Dipende dal
come e dal
perché lo
si dice. In
quale momento, a chi, con quale fine. Non si può avere paura delle
parole scomode. Vanno affrontate e non
depennate.
Cosa c’è di umiliante nella parola bidello?
Operatore scolastico è un termine algido, spersonalizzante, così
lontano anche da tutta una tradizione letteraria. Siamo divenuti
tutti operatori di qualcosa. Secondo me
si tratta di un impoverimento lessicale che nulla ha a che vedere con
la salvaguardia della dignità delle persone. Primo perché tutti i
lavori sono dignitosi almeno per
definizione, secondo perché con definizioni asettiche possiamo
nascondere realtà spesso difficili
e complesse ed evitare appunto
di affrontarle.
Prendiamo i Gig worker. Evvai! Ma che bella
parola. Sono un gig worker! Suona
accattivante.
I gig worker
includono appaltatori
indipendenti, lavoratori di piattaforme online, lavoratori di ditte a
contratto, lavoratori a chiamata e lavoratori temporanei.
Per lo più le
ultime due
categorie.
La precarietà assunta grazie a un
neologismo anglofono
a crescita dell’occupazione, con buona pace di continuità,
sicurezza, diritti e tutta quanta la
serie di attributi che dovrebbero caratterizzare il lavoro per
poterlo definire tale. E tutto ciò entra nel pensiero collettivo
come normalità, al punto che, ad
esempio, pare
ordinario e accettabile suggerire a una
donna sessantenne disoccupata per problemi di salute di
lavorare per Deliveroo et similia.
Dobbiamo prestare attenzione alla metamorfosi
del linguaggio. Non si tratta di restare attaccati al passato, di
rifiutare neologismi, di osteggiare l’uso di parole straniere, ma
bisogna salvaguardare i significati e
badare a che non vengano stravolti. E sarebbe necessario evitare che
un singolo termine includa troppe realtà. Come
nell’esempio succitato, ogni categoria lavorativa inclusa nel
termine gig worker ha caratteristiche
particolari ben definite. Un appaltatore indipendente non è un
lavoratore a chiamata. Se si cancellano le differenze ci si preclude
la possibilità di risolvere problemi specifici.
Un conto però è
ragionare in termini di doverosa
attenzione, un altro è servirsi delle
differenze per manipolare il pensiero in
funzione di un cambiamento sociale disgregante.
Parte integrante
di questa trasformazione verso una lingua politicamente corretta sono
la cultura woke, nella sua recente
versione, con tutte le conseguenti
ramificazioni tra cui la scrittura
cosiddetta
inclusiva.
La
cultura woke, un
insieme di
teorizzazioni e di pratiche nato
dall’idea di “risvegliare” gli afroamericani (woke
significa
“sveglio, persona
che
tiene gli occhi aperti”) per spingerli a rivendicare i loro
diritti, si
è ampliata sempre più, andando
via via includendo
temi
apparentemente slegati ma
con il denominatore comune di incorporare
elementi di discriminazione e anche
violenza. Dalla
tutela di minoranze etniche, vittime
di colonialismo, di
epurazioni, o
qualsiasi altro genere di sopraffazione e discriminazione, si è
giunti a integrare
praticamente
ogni genere di
diversità. Genere,
razza, inclinazione
sessuale, linguaggio, fede, educazione, cultura,
aspetto fisico, alimentazione, gusti
letterari, insomma qualsiasi preferenza o idiosincrasia personale, e
anche privata,
eletta ad attributo appartenente all’ennesima minoranza da
difendere e non offendere. Tale movimento, oltre ad aver trovato
leader e testi manifesto, oltre
a
essere divenuto
un
potente
mezzo
di marketing e
nuovo corposo
cliente per il mercato,
sta
rendendo inammissibile pronunciarsi su pressoché qualsiasi cosa
senza incorrere nel rischio di essere tacciati, a
seconda del caso, di
razzismo, egoismo,
insensibilità, conservatorismo, bigottismo, ... A
ciò si aggiunga il processo di
cancellazioni e demolizioni, materiali e non,
in
ogni ambito. Dall’abbattimento
di statue all’espunzione
di
parti o
totale
eliminazione
di testi,
dalla
rimozione di simboli alla censura e all’ostracismo di
autori
ritenuti portatori di discriminazioni o
semplicemente scomodi per appartenenza geografica e
quindi essi
discriminabili
(la storia recentissima è prodiga di esempi). Un
innegabile tentativo di rimaneggiamento storico
e sociale
a colpi di
damnatio
memoriae.
I
neonati movimenti di condanna della cancel culture, per
quanto anch’essi spesso
settari in
quanto poco inclini a un reale confronto,
sorgono
inevitabilmente
da quest’estremizzazione di un movimento nato in
origine
per un fine sociopolitico necessario e accusano
la penetrazione incontrollata
del wokismo, in
ogni ambito della vita sociale,
di produrre
una
discriminazione inversa.
In
effetti ciò accade ormai
da tempo senza soluzione di continuità anche con
la complicità di chi
molto probabilmente non avrebbe personalmente intenzione di infierire
contro qualcuno creandogli problemi o difficoltà di sorta.
Nell’epoca
dei social purtroppo
accade
spesso che sull’onda dei commenti su un fatto di cronaca, sulle
esternazioni di una persona, insomma su una qualunque questione di
dominio pubblico, tutti si possa contribuire a una vessazione
mediatica con conseguenze anche gravi. Un
licenziamento, un allontanamento, una depressione, un suicidio. Il
termine in
uso per
definire tale fenomeno è shitstorm.
Un
numero consistente di persone che
manifesta
il proprio dissenso nei confronti di qualcuno.
Individuo,
gruppo, organizzazione, azienda, che
sia.
Ciò
avviene, se non in modo istantaneo, in tempi assai rapidi, si propaga
in modo virale, e
impedisce qualsiasi
riflessione dettata dal semplice buon senso.
Una
comunicazione scevra di filtri attraverso
cui
i
partecipanti protetti
dall’anonimato ripropongono
la
dinamica del branco. La
vittima ne può uscire veramente malconcia e segnata a vita.
Rifiutare questa
condotta non significa però
negare
il diritto all’espressione di un dissenso collettivo. Per
portare un esempio tra i tanti,
alcune note azioni di boicottaggio sono state importanti
e
hanno contribuito
a una presa di coscienza su problematiche che dovevano essere portate
all’onore della cronaca. Ma si tratta di situazioni ben diverse.
Insomma,
pur
non volendo
far del male a nessuno ma solo e semplicemente
inserirsi
in una
discussione “vivace”
per sentirsi parte della
tendenza del momento, il
partecipare a linciaggi mediatici, senza
neanche dedicare un minuto alla verifica dei fatti e all’analisi di
quanto si va a giudicare,
può
condurre
a conseguenze concrete anche gravi e
sarebbe necessario che tutti prendessero coscienza di ciò prima di
fare i leoni da tastiera. Si critica
qualcosa considerato
offensivo o addirittura pericoloso, si
prende
in giro, si
offende, sperando in
retweet e reazioni, si
creano e condividono
meme, il
tutto spesso senza volere realmente la testa di qualcuno ma solo
perché
si ha la necessità vitale di rigettare fuori tutto quanto di
negativo si deve ingoiare ogni giorno in un mondo sempre più
difficile ed estraniante. Solo che alle volta poi la testa rotola giù
per davvero. Singolarmente forse non si desidera sul serio il male di
qualcuno ma collettivamente
però è quello che si
ottiene.
Che
poi qualcuno se lo possa anche meritare è una questione che
scoperchia il vaso, quindi evito qui di entrare nel merito.
In
pratica
dunque
si
è partiti dalla rivendicazione di diritti (woke!), si è allargato
il movimento in nome della difesa delle minoranze e il raggiungimento
di una totale inclusività e si è finiti con l’insultare il
prossimo a ogni piè sospinto. A
furia di han tutti ragione, la ragione non ce l’ha più nessuno. Un
tutti contro tutti che la dice lunga, a mio avviso, sulle reali
intenzioni di taluni sponsor di
tali movimenti.
Un
discorso molto
ampio e complesso che porterebbe
a lunghe digressioni.
Venendo alla “scrittura inclusiva”, che
sostituisce con un complesso sistema di interpunzione il dominante
plurale maschile onnicomprensivo, la
nota finale in schwa, con
la stura all’obbligo di accettazione collettiva sull’infinità
e fluidità di
generi esistenti sta contribuendo,
anziché al rafforzamento, all’indebolimento dell’identità
individuale. Che
in natura non esistano solo maschi e femmine è risaputo ma il
genere sessuale tavolino
dubito fortemente sia contemplato nell’elenco.
Sicuramente il
recente incremento
di confessioni
e ostentazioni pubbliche di così variegate inclinazioni sessuali
sono un sintomo del
malessere diffuso e
crescente in una società in cui Essere
è impresa titanica. L’eco mediatica,
l’emulazione, la necessità di apparire per esistere hanno dato il
via infatti
a un’esplosione di manifestazioni di sessualità che arrivano fino
all’identificazione di se stessi quali
oggetti, e sempre
con la prerogativa implicita che tali inclinazioni possano mutare in
continuazione, anche ogni istante secondo
il
contesto, e ciò in
nome di una fluidità che, se pur comprovata dalla biologia animale
(protozoi e
non solo),
in tali eccessivi termini
diviene ridicola. Nel privato, e
ovviamente senza
ledere a nessun livello il prossimo, ognuno è libero di esprimere la
propria sessualità come preferisce ma pretendere
l’istituzionalizzazione e la
propagazione socioculturale della
propria idea in un ambito tanto intimo lo trovo stupido e
aggressivo. Eppure
sono in tanti che fomentano e ci
marciano.
Tutti
questi fenomeni sono strettamente collegati al discorso
dell’inclusività. All’ideale di una
società da cui nessuno resti escluso, in cui ogni individuo possa
inserirsi senza essere vittima di pregiudizi e discriminazioni.
Uguali diritti e opportunità per
chiunque, ognuno con le proprie
caratteristiche distintive, inclinazioni, credenze, cultura e via
elencando, nel gran paniere della società, con
l’unico obbligo comune di rispettare
le norme di convivenza civile.
Considerazioni ragionevoli in funzione di un obiettivo nobile.
Se non fosse che
la faccenda sta
decisamente sfuggendo
di mano.
Il punto
è infatti
che se ogni individuo, per una qualsiasi
propria peculiarità, può essere
considerato vittima
di discriminazione e pertanto
identificabile con
una minoranza, portando all’estremo
tale premessa, potremmo arrivare a un numero di minoranze pari al
numero di individui e ciò corrisponderebbe alla scomparsa della
società. Il paradosso dell’essere totalmente
inclusivi è ottenere,
tramite
una divisione parossistica e
irrimediabile, una parcellizzazione del tessuto sociale tale da non
poter nemmeno più usare il termine tessuto perché di
esso non rimarrebbe traccia. Ogni
inclusione presuppone una definizione talmente particolareggiata e
specifica che porta gioco forza all’esclusione di chi non rientra
appieno nella definizione data. Ogni minima e specifica inclusione
comporta esclusione.
L’attenzione
al
particolare
è fondamentale e importantissima
in ogni ambito ma
quando è
estrema, e
soprattutto strumentalizzata,
distoglie
dalla
visione d’insieme. Si
perde ciò che accomuna. Si
perdono le connessioni tra le cose.
La
specializzazione eccessiva, lo si vede negli
indirizzi
di studio
e
nell’esercizio
delle professioni, porta a non vedere più tutto quanto sta intorno.
La difficoltà che oggi s’incontra per avere una diagnosi medica
racconta molto bene questo meccanismo.
Tutti
questi fenomeni hanno
una
corrispondenza a livello politico. Due
ambiti,
quello culturale e quello politico, che
vanno a convergere pur, forse solo apparentemente, partendo da
presupposti diversi.
La
parcellizzazione
politica
infatti non nasce
da fenomeni sedicenti inclusivi, anzi
il contrario, e
dipende
principalmente dalla debolezza dei governi. La
crescente incapacità che
questi hanno
di farsi carico dei problemi della res publica, incapacità la cui
origine è facilmente rintracciabile nella lunga serie
di sottoscrizioni di trattati commerciali transnazionali che hanno
lasciato agli Stati nazionali solo più il
vuoto involucro di un’importanza istituzionale laddove pressoché
nessuna
decisione pratica
può
più essere presa in autonomia ma sempre e solo sotto l’egida del
beneplacito del sistema finanziario, si
esplicita, anziché
in una volontà reale di riappropriazione,
in un’inclinazione suicida a negare la propria impotenza reale e
nel favorire la disgregazione sociale mettendo tutti contro tutti.
Le
classi politiche, tutte
se pur in modi diversi,
favoriscono l’ansia individuale dei propri cittadini raccontando
che essa in realtà esiste
per la
preoccupazione riguardo
le
minacce all’identità collettiva del Paese cui appartengono.
Qualsiasi
sia il problema anziché andare alle radici e
alle cause prime, improvvisano e giocano. Prendono
un sintomo e lo trasformano nella malattia. Prendono un effetto e lo
trasformano in causa. Prendono un fenomeno e lo trasformano in
spiegazione. Come
dire, tu non sei vittima ad esempio della nostra arroganza,
o
superficialità che sia, che
ci ha portato a svendere il Paese
ma di chi viene a derubarti dove sei nato. O,
in alternativa, le colpe sono tutte del partito avversario. Una
cosa non esclude l’altra ma mai
ho sentito un’assunzione di responsabilità da parte di qualche
governante. E ciò
a livello mondiale.
Aggiungiamo
a
tutto ciò
che, per
come è strutturata la società dei consumi e
senza
voler denigrare i
propositi di integrazione del
reddito a
favore di
chi è in difficoltà (non entro nemmeno
qui nel
merito della questione perché si aprirebbe un ampio
capitolo
a sé), il numero di nuovi poveri è comunque
destinato
ad aumentare. L’induzione,
da parte del capitale produttivo, al
“bisogno” di ciò che in realtà non abbisogna, la
necessità di smaltire gli eccessi produttivi per evitare
l’implosione del sistema,
la costrizione a possedere tecnologie sempre di ultima generazione
per non essere tagliati fuori dalla possibilità di accesso a servizi
essenziali, e
tutti gli esempi che si possono fare, sono
tra
le cause principali.
I poveri aumenteranno inesorabilmente
e
il divario fra poveri e ricchi anche. Non è demagogia, è
aritmetica.
Cosa fare di questi poveri e nuovi poveri? Per prima cosa evitare di
attrarli. O
esiste una forma di welfare comune a tutti gli Stati sovrani
o quei pochi che ancora ne mantengono uno sono destinati ad
abbandonarlo. Esiste
già
infatti
tra gli
Stati una competizione negativa per evitare di diventare calamite
assistenziali. Quindi
erosione
più
o meno graduale
del
benessere
sociale,
riduzione dei servizi, esternalizzazione degli stessi, crescente
flessibilità in ogni aspetto della vita, che tradotto vuol dire
precarietà, insicurezza, impossibilità di progettare. Solo
un’azione sovranazionale e
sovracontinentale
potrebbe neutralizzare tale spirale mettendo paletti uguali per tutti
quanti
in settori determinati, quali accesso all’istruzione e alla salute,
condizioni e trattamento dei lavoratori, protezione dell’infanzia
etc. Ma ne siamo ben lungi. Il sempre
maggiore
malcontento viene incanalato,
agevolmente
in quanto
sentimento spontaneo nelle situazioni di malessere, in insofferenza e
ostilità verso tutti coloro che vengono percepiti come alieni,
barbari, nemici. A partire dal vicino di casa nato dove siamo nati
noi. Cresce la frammentazione politica, crescono
le ideologie segregazioniste. Vengono
proposte soluzioni politiche a favore di autonomie geografiche molto
circoscritte
in
nome
della tutela dei territori e delle culture locali (il
che ha un senso perché chi meglio di chi ci vive, malversazioni
a parte,
può amministrare
il luogo in cui vive?),
unità politiche di misure ridotte, che hanno però meno chances di
opporsi
all’internazionalismo della finanza e di
organizzare
una qualsiasi forma di opposizione o resistenza. Difficile andar
d’accordo tra condomini, figuriamoci tante minuscole entità
amministrative separate
e
chiuse
in se stesse.
Dunque,
da
una parte possiamo dire che più
si è inclusivi
più necessariamente si
presta attenzione alle particolarità, alle differenze, a tutto
quando rende diversi, e più questo processo avanza, più
l’inclusività presuppone una
frammentazione
della società che
può condurre
all’assurda
conseguenza che
ogni individuo
potrebbe rivendicare
il riconoscimento di un’autonomia giuridica.
Alle
volte ho la netta impressione che talune
rappresentanze politiche,
dietro la maschera del rispetto e dell’integrazione, nascondano
un
artifizio
per riuscire a
dirigere
con
maggior
facilità
le
sorti del pianeta
in un momento talmente complesso che star lì ad aspettare che
miliardi di persone prendano coscienza e agiscano collettivamente con
cognizione di causa è impensabile. Sempre
che poi a qualcuno importi di tale presa di coscienza, direi anzi il
contrario. Un
agire mistificatorio
che lede l’integrità delle persone e della società.
Lasciando in tal modo un portone spalancato a chi voglia approfittare
della situazione per proprio
tornaconto.
Dall’altra,
possiamo dire che più
si teme la perdita della propria identità a livello di
appartenenza a uno Stato sovrano, più si propagandano chiusura di
confini e rifiuto di identità politiche collettive (e ci tengo a
precisare che movimenti quali +Europa suscitano in me repulsione
perché
sono lontanissimi
dagli
ideali di Ventotene),
l’unica
cosa che si ottiene è la perdita definitiva del
poter ragionare insieme
sul
destino dell’umanità.
Insomma,
giriamola come vogliamo, il risultato non cambia. Ed è un risultato
triste e anch’esso ben lontano
dall’ideale di una società civile degna di tale attributo. Resta
solo una
gran confusione che offre il destro a persone altrimenti inette di
poter amministrare, al
riparo da critiche e conseguenze,
non
cittadini ma sudditi ormai defraudati di
ogni capacità di comunicazione e collaborazione.
Che
sia tramite la manomissione del linguaggio, che sia a
causa di scelte politiche operate da individui che
al giro possono essere considerati,
inetti, impreparati, inconsapevoli, disonesti, scellerati, arriviamo
al medesimo esito.
Gli
effetti
li abbiamo sotto gli occhi. Con
tutto il potenziale che abbiamo tra le mani siamo in
caduta accelerata verso il basso. Anziché elevare ogni
individuo
a quelli che dovrebbero essere gli alti valori di una società degna,
l’imbarbarimento avanza e, purtroppo, l’unica soluzione adottata
da tutti pare sia
arroccarsi, rinchiudersi
nelle proprie roccaforti di pensiero e rinforzare
le mura di difesa.
Il
terrore di vedersi defraudati e travolti non risparmia nessuno. E
anche i liberi pensatori, coloro
che ancora credono nei valori di humanitas, il
vir bonus nella vita pubblica e in quella privata, frutto
di educazione
e cultura, portato
a comprensione
e assistenza, o
tacciono e scelgono di autoesiliarsi o si parlano addosso dandosi
ragione a vicenda all’interno di ristretti ed elitari gruppi di
appartenenza. Facendo il gioco del nemico.
Il
sogno di una federazione mondiale precipita nell’incubo di una
parcellizzazione progressiva di territori e culture, dove piccolo
sarà sinonimo di autodeterminazione e
libertà,
dove si moltiplicheranno minuscole enclavi nate ognuna in nome di una
propria appartenenza da proteggere, in
uno spirito da campanile portato all’eccesso, fino
all’atomizzazione sociale in cui ognuno sarà Stato, chiuse le
finestre, sprangate le porte, allarmati i cancelli. Antifurto,
telecamere, guardie. E a quel punto la possibilità
di arrivare a
scalzare le
radici dei problemi sarà
svanita. Sarà
svanita la possibilità di risolverli. Di snidare le cause, di
riconoscere le
vere forze dietro tali cause. Insicurezza
e paura
anziché diminuire si acuiranno in modo ossessivo e,
a quel punto, mentre staremo nelle nostre prigioni fortezza, ci sarà
chi potrà agire impunemente godendo delle risorse del pianeta e
arricchendo grazie ad esse.
Alle
volte però pare
quasi ci sia, oltre
a un necessario progetto di controllo delle masse,
una componente psicologica umana,
quasi
una patologia:
una strenua volontà di perdersi.
Esiste una via d’uscita?
Si è tanto parlato e scritto di
globalizzazione, di omogeneità
culturale, di
multiculturalismo, di universalismo.
Paiono sinonimi ma sono termini che esprimono concetti assai diversi
l’uno dall’altro.
Sulla
globalizzazione, che è quanto ci sta
accadendo, si è detto alla nausea ed è
sotto gli occhi di tutti che essa sia
servita in massima percentuale ad agevolare il mondo finanziario e
imprenditoriale, quindi non mi ci soffermo.
L’omogeneità
culturale ha una valenza piuttosto
negativa perché implica la rinuncia da
parte di tutti di una buona fetta del proprio retroterra. Implica
una perdita considerevole in
funzione di un consenso e della
possibilità di appartenere a un consesso in cui non si litiga perché
tutti la pensano uguale.
Multiculturalismo
invece,
parola dal suono bello e promettente,
significa coesistenza di diverse culture. Non
è detto però
che poi queste
comunichino, anche perché
principalmente la cultura è qualcosa di
legato al
luogo di nascita, a un territorio, a una
lingua, e non dipende da una scelta,
quindi non presuppone necessariamente
apertura all’altro. E
comunque perché una comunicazione e un
confronto avvengano
è necessaria un’intermediazione costante
che permetta la comunicazione attraverso
un sistema di traduzioni tra culture. Un’operazione
complessa che potrebbe non rendere fedelmente i significati originali
appartenenti appunto
a culture eterogenee.
Resta l’universalismo che,
filosoficamente parlando, non entra nel merito dei contenuti
culturali, non dice chi è meglio, chi
ha più ragione, ma si dipana in modo laico al di sopra di
territori fisici e politici valorizzando
la capacità che dovrebbe essere insita in tutti di comunicare e
comprendersi reciprocamente e, soprattutto, di agire costruttivamente
anche in presenza di altri che agiscono in modo diverso. Una sorta di
lucidità comportamentale basata su alcuni assoluti che ormai avremmo
dovuto aver fatto nostri. Una
capacità di negoziazione continua che
permetta di mettere al centro la cittadinanza come valore assoluto
scindendola da ogni altro genere di appartenenza. Un
modello appartenente alla migliore
tradizione repubblicana. Quella
libera da propositi di omogeneizzazione.
L’essere cittadino indipendentemente dalla propria estrazione
culturale. Una società policulturale
laica il cui governo si
limiti a un’amministrazione equa e corretta della res publica,
senza intrusioni nella vita privata dei cittadini, senza servirsi
del privato come arma di distrazione per celare la propria
incompetenza.
Sono sempre stata convinta che una global governance intesa come
Federazione di Governi che legiferino sui temi fondamentali e
comuni, sulla cosa pubblica per intenderci, con equità e
lungimiranza, lasciando autonomia sul resto, possa essere la
soluzione vincente. Al momento ne stiamo saggiando la versione
adulterata. Corrotta, manipolata, contraffatta, manomessa, guastata.
Per avidità e fame, a quanto pare inappagabile, di potere. Voglio
sperare che sia possibile ancora un cambio di direzione. Lo spero con
tutta me stessa.